L'immagine di Diderot su un francobollo repubblicano |
Era il 1782 quando Diderot dava
alle stampe l'Essai sur les règnes de
Claude et Nèron, et sur les moeurs et les ècrits de Sénèque, pour servir
d'introduction à la lecture de ce philosophe. Dietro l'interminabile titolo
si celava l'ultima fatica — rielaborazione di un'opera sullo stesso tema,
apparsa tre anni prima — del percorso culturale di un autore che aveva spaziato
enormemente nei più disparati rami del sapere del suo tempo. Insofferente alle
rigide distinzioni disciplinari, Diderot aveva trascorso i lunghi anni — oltre
quaranta — della sua frenetica attività a scavalcare disinvoltamente gli
steccati che separavano i diversi territori culturali. Dalla filosofia naturale
al teatro, dalla politica alla musica, dalle arti figurative alla storia:
trasportato dalla sua curiosità di intellettuale onnivoro, Diderot aveva pagato
consapevolmente le conseguenze a un'epoca che sempre meno tollerava
l'interdisciplinarità e sempre più invece identificava la vera conoscenza con
l'assiduo approfondimento di un unico settore.
Consapevole di questo
anacronismo, Diderot — che aveva comunque legato la sua vita a un'impresa, l'Enciclopedia, basata su un'idea del
sapere in certo modo sintetica anche se illuministicamente rispettosa delle
singole specificità disciplinari — così scriveva di sé a pochi mesi dalla
morte: «... invero so abbastanza cose, ma non c'è quasi nessuno che nel suo
campo non ne sappia ben più di me. Questa mediocrità in ogni campo è il frutto di
una sconfinata curiosità unita a sostanze così modeste, che mai ho avuto la
possibilità di dedicarmi interamente a una sola branca dell'umano sapere».
Alla estrema ecletticità della
sua ricerca corrispondeva lo scintillante stile della scrittura, che risentiva
assai più dell'effervescenza delle conversazioni salottiere che del freddo
rigore delle costruzioni concettuali.
La dichiarata intenzione
dell'autore è di esaminare se Seneca fu responsabile, come afferma una lunga
tradizione anti-senechiana, degli orrendi misfatti compiuti alla corte
imperiale ai tempi di Claudio e Nerone : una materia congeniale a Diderot che
può al tempo stesso intingere la penna nei fiumi di torbido sangue fatto
scorrere da Agrippina e Nerone, ergersi a strenuo difensore di Seneca e
attaccare i moralisti che lo hanno denigrato. Eppure la apparente affinità tra
autore e materiale da trattare non ha impedito a Karl Rosenkranz, biografo
diderotiano, di esprimere sull'ultima opera del settantenne filosofo un giudizio
assai duro definendolo «prodotto di debolezza senile».
Nella prima parte Diderot
ricostruisce le vicende storiche parallelamente alle quali si è svolta la vita
di Seneca; nella seconda esamina le opere dello stoico commentandole dettagliatamente.
In entrambe domina quello stile colloquiale che, se lo rende gran raccontatore
di vicende e personaggi, rischia di condannarlo a una retorica superficialità
nell'esame dei concetti. Al di là, comunque, di ciò che Diderot scrive dello
scorcio di storia romana esaminata, il vero motivo di interesse dell'opera sta
nel modo in cui, attraverso la storia imperiale, affiora il suo rapporto con il
proprio secolo. I numerosi riferimenti ai contemporanei rendono evidente che
Diderot, attraverso il pretesto imperiale, intendeva parlare anche del suo
tempo.
È in particolare sulla figura di
Seneca che si addensa l'interesse di Diderot che vede nel filosofo romano
l'emblema di un'esperienza simile a quella dei philosophes settecenteschi: Seneca era stato alla corte di Claudio
e Nerone, così come Voltaire era stato a quella di Federico II e lo stesso
Diderot a quella di Caterina II. La figura di Seneca è attraversata da una
problematica che affratella il periodo
giulio-claudio al secolo dei Lumi.
È quindi fondamentalmente
l'esperienza del dispotismo illuminato a costituire il vero motivo conduttore
del saggio diderotiano. Quale legittimità ha il ruolo dell'intellettuale che
agisce in prossimità dei poteri costituiti nella speranza di poterli guidare
verso il meglio? Diderot sembra non ave re dubbi. A proposito del rapporto tra
l'intellettuale e lo stato scrive: «Forse che ci si rende utile solo
presentando candidati, beneficando i popoli, difendendo gli imputati,
ricompensando chi è operoso, pronunciandosi per la pace o per la guerra? No di
certo; ma personalmente non metterei sullo stesso piano chi medita e chi
agisce. Senza dubbio la vita appartata ha maggiori dolcezze, ma la vita attiva
è più utile e gloriosa».
E la difesa di Seneca, che non si
è ritirato dalla corte e dalla vita pubblica in presenza delle nefandezze che
lo circondavano mettendo in pericolo la propria immagine presso i posteri per
continuare a testimoniare a stretto contatto con il male la necessità di
perseguire il bene; ma ancor più è la difesa dei philosophes settecenteschi logorati dalla estenuante contiguità tra
le limpide ragioni delle idee e dei principi e le corrotte necessità della
ragion di stato. L'obbligo del filosofo è per Diderot quello di «sporcarsi le
mani» affondando e compromettendosi con la realtà politica e con i poteri che
essa si è data. E il rapporto tra l'intellettuale e lo stato è inevitabilmente
organico: «se è lui (l'intellettuale ) che viene meno allo stato è un cattivo
cittadino; se è lo stato che viene meno a lui, lo stato dà prova di insensatezza».
Emerge una visione della cultura
e dei suoi protagonisti imprigionata nei limiti angusti del dispotismo
illuminato e incapace di pensare alla radicalità di una figura di intellettuale
totalmente contrapposto al presente e legato al futuro utopico da un passaggio
rivoluzionario. È una visione al tramonto, come la vita di Diderot che morirà
nel 1784.
Postilla
L’articolo apparve su
“latalpalibri” del “manifesto” come recensione a Denis Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui
costumi e gli scritti di Seneca, Sellerio, Palermo, 1987. Dal mio ritaglio
non si può ricavare la data ma l’anno dovrebbe essere il 1987, lo stesso della
pubblicazione del volume diderotiano. (S.L.L.)
Nessun commento:
Posta un commento