Il latinista Alfredo Casamento dell'Università di Palermo |
«È noto l’amore di Fedra, è noto il
torto di Tèseo», così Ovidio nei Fasti introduce
il racconto della spettacolare morte di Ippolito, già affrontata nelle Metamorfosi.
La fama sinistra del mito, in cui il casto figlio di Tèseo era stato rovinato malgré lui dalle brame della moglie del
padre, la cretese Fedra, mentre questi era sceso nell’Ade per rapire Persefone
–, fama potenziata da un morboso tabù, era arrivata al poeta augusteo da molto
lontano.
Euripide lo aveva messo in scena
due volte, prima un Ippolito velato, ritirato per aver dato scandalo e poi
perduto; quindi l’Ippolito incoronato,
viceversa decisivo per la fortuna antica e moderna della storia; perduta è
anche (almeno) una Fedra di Sofocle
in cui il cambio di titolare indica presumibilmente una diversa ottica
drammaturgica, che spostava il fuoco dal destino infelice del ragazzo ‘di’
Artemide alla disperazione della seduttrice respinta.
Ovidio fra l’altro, grazie a uno
di quegli strappi alle convenzioni letterarie che ne accrebbero la gloria,
aveva virato la figura di Fedra, la figlia di Minosse e Pasifae – e perciò la
sorella di Arianna e la sorellastra del Minotauro: mostri e unioni
raccapriccianti nello stemma di famiglia – in una moderna eroina galante,
capace addirittura di scrivere una ‘dichiarazione’ elegiaca al «figlio
dell’Amazzone» (è la quarta Eroide). La strategia letteraria dell’epistola
mostra tutta l’abilità di chi, per convincere l’amante ad abbandonare ogni
remora e a capitolare, maliziosamente derubrica l’incesto assimilandolo al più
accettabile adulterio, secondo la nuova legge, e il modello prolifico, dello
stesso Giove. Perciò quando nel I secolo Seneca si confronta con il canone
teatrale del mito di Fedra e Ippolito e decide di portare una serie di novità
improntate all’ideologia romana del tragico, attingendo a piene mani a un
immaginario fortemente espressivo ed «emotivo» (Regenbogen), egli può affondare
le unghie nel pathos della vicenda
anche grazie alla recente, e già autorevole, dieta ovidiana.
A riaprire questi dossier
storico-critici sollecita una nuova edizione commentata di Fedra, a cura di un ricercatore dell’Università di Palermo, Alfredo
Casamento (Carocci editore): commento ambizioso il suo, diviso sostanzialmente fra
analisi retorico espressiva e psicologia dei personaggi del cast, con
osservazioni fini e confronti condivisibili, ma appesantito da una certa
verbosità. Forse poteva essere asciugato, e gerarchizzato con qualche accorgimento
tipografico (fra l’altro il nocciolo interpretativo è già in gran parte
anticipato nell’introduzione generale). Casamento ha affrontato anche la sfida
della traduzione, còmpito non invidiabile quando si ha alle spalle, se non
pendente sul capo, uno stilista e senechista come Alfonso Traina: quasi
impossibile fare meglio, per quanto siano confrontabili la
versione di Traina scritta per essere recitata (INDA di Siracusa 1983, poi Bur
1989) e questa che invece è interamente al servizio del testo latino e delle
note.
Si diceva dei modelli che Seneca
ha davanti a sé. Se ci inoltriamo in una lettura intertestuale, che privilegi
il livello letterario della composizione, ci accorgiamo sùbito che Fedra e in
generale il teatro senecano lavorano sistematicamente sulla ‘carriera’ latina
del mito greco, i cui scatti di avanzamento erano stati ottenuti anche
attraverso opere non teatrali come quelle appunto di Ovidio, e di Virgilio.
Basterebbe ricordare la memoria latente e pervasiva del IV dell’Eneide, il Libro di Didone, nella
drammaturgia amorosa di Fedra, con il dilemma cruciale che la tormenta, furor contro ratio: «vos testor omnis, caelites,
hoc quod volo me nolle», «voi tutti, dèi del cielo, chiamo a testimoni che
non voglio quel che voglio» (vv. 604 s.), e la condurrà pentita al suicidio di
spada e non con la corda al collo dell’antecedente greco: «mucrone pectus impium iusto patet / cruorque sancto solvit inferias
viro», «il mio petto empio si apre ad una giusta spada, il mio sangue è
versato in tributo ad un uomo innocente» (vv. 1197 s.). D’altro canto, la
«reinterpretazione psicologica dei miti euripidei» (Charles Segal) fa di Seneca
tragico una grande stazione di rifornimento, e non di semplice transito, per il
viaggio verso i Moderni. In particolare, la tensione stilistica con cui egli
sbrana i precedenti, lasciando però sul piatto le tracce dei fantasmi testé
trasformati, lo renderanno un interlocutore scelto del teatro elisabettiano –
già sanguinario per sua natura, come ha mostrato T.S. Eliot in un capitale
saggio. E anche se ufficialmente non figura tra i modelli dichiarati di Racine,
il quale sembra averla rimossa limitandosi a dire che «il soggetto è preso da
Euripide», tuttavia la versione di Seneca verrà abilitata dalla stessa stesura
della Phèdre che smaschera così il
suo reticente autore, segnandone il ritorno. Anche Francesco Orlando nella sua
fortunata «lettura freudiana» di Racine individuò diverse spie senecane.
Ma torniamo al tabellone Arrivi
della stazione, e cioè al Classico come formidabile rete di testi e di
convenzioni letterarie (tramandate e infrante) a cui guarda anche questo nuovo
contributo filologico con specifico interesse per le soluzioni ‘oratoriali’ e
psichiche introdotte da Seneca. Non v’è dubbio che Seneca dia un bel giro di
vite ai personaggi del mito e, se così si può dire, ai correlati fondali
ideologici, per esempio mettendo Fedra in competizione – una gara perversa
davvero – con Pasifae, la madre unitasi al toro, tara cretese che pesa sulla
famiglia e sulla vicenda in corso: «Perché gravi di peccati la casa malfamata e
superi tua madre? – la accusa la nutrice –: «maius est monstro nefas: / nam monstra fato, moribus scelera imputes»,
«un atto empio è colpa più grande di ogni mostruosità: gli atti mostruosi puoi
attribuirli al destino, i misfatti ai tuoi costumi» (vv. 143 ss.). Assente Tèseo,
proprio alla nutrice Fedra ha confidato, quasi nuova Didone, il suo doloroso e ancora
più indicibile ‘ritorno di fiamma’, l’amore devastante per il figliastro. Ma
questi, votatosi al culto e ai dominii di Diana (il bosco, la castità, la caccia
con gli esclusivi rituali maschili sui quali si è alzato il sipario della
tragedia), è del tutto sordo agli argomenti di Venere.
Torna qui un motivo già euripideo
del quale si era appropriata l’elegia facendone un segnale di genere, cioè
l’irresistibile attrazione che i boschi e i monti, l’arco e le frecce
esercitano su Fedra in preda a Eros e ora non più all’opre femminili intenta: «mi
piace invece inseguire di corsa le bestie dopo averle stanate e scagliare con
mano delicata i giavellotti tesi...».
Ma è probabilmente la scena della
confessione amorosa direttamente rilasciata al figliastro Ippolito quella in cui
l’intreccio e la concatenazione del modello greco subiscono la torsione decisiva.
Nel testa-a-testa con Fedra Ippolito non sospetta e non ‘realizza’ per molti
versi (l’ammissione illecita di lei sembra essere un tabù letterario ancora
operante nell’enciclopedia del ragazzo), come segnala l’innocente e paradossale
esordio: «Madre, affida alle mie orecchie i tuoi affanni». Si sa come andrà a
finire. Euripide aveva piazzato il suicidio di Fedra e la famosa tavoletta infamante
Ippolito – secondo lo schema della seduttrice rifiutata noto come «motivo di
Putifarre» –, a circa metà del dramma, e tutto quanto avveniva lontano dagli
occhi, dietro le quinte; invece Seneca lo sposta alla fine, e soprattutto in
scena, sopra il cadavere rimesso insieme (in senso letterale) del giovane, e
l’arma ‘sublime’, come si è detto, è la spada (un tema, questo, studiato a suo
tempo da Nicole Loraux).
Soffermiamoci solo un momento, facendo
un passo indietro, sulla morte orribile di Ippolito precipitato nella nota spirale
di bugie e irreparabili vendette, morte procurata dall’enorme toro marino. È
stato Tèseo, di ritorno dall’Ade, a invocarla da Plutone sul figlio, credendolo
colpevole d’incesto. Così tra lo sdegno e la maledizione lanciata a distanza
verso l’«abitante dei boschi puro, vergine, inesperto», vola anche questa frase
del padre carica di un’ironia e di una malizia degne di Ovidio: «a meo primum toro / et scelere tanto placuit
ordiri virum?» «Dal mio letto e con
un tale crimine dovevi scegliere di cominciare a diventare uomo?» (vv. 924 s.).
Attraverso la spirale descrittiva affidata alle parole del messaggero noi ‘vediamo’
la fine incredibile del bell’Ippolito travolto sul carro dal mostro, una scena
atroce, e di nuovo ovidiana per la spettacolarità verbale, in cui Seneca dà
saggio della propria famigerata indole truculenta: «questa splendida raccolta
del cadavere fatto a pezzi», scriverà Edoardo Sanguineti ricordando a tanti
anni di distanza la sua prova di traduzione della Fedra per Ronconi.
Solo i disiecta membra del ragazzo procureranno il rimorso tardivo di
Fedra, e l’escamotage del suicidio non si sa se più per amore o per la vergogna
(che è uno degli assi culturali del mito): «Ippolito, così vedo il tuo volto?
Così l’ho ridotto? ... Ahimè, dov’è fuggita la tua bellezza? E i tuoi occhi, le
mie stelle? Giaci senza vita? Avvicìnati ancora per un poco! Ascolta le mie
parole. Non dico più nulla di vergognoso (nil
turpe loquimur)...» (vv. 1168 sgg.).
Anche soltanto il montaggio di
pochi fotogrammi lascia intravvedere la liturgia intellettuale che connota il
teatro di Seneca e ha spinto più d’uno a delimitarne l’effettiva riuscita
scenica (quella che il Leo chiama tragoedia
rhetorica) oppure viceversa a metterne in valore la pregnante
iperletterarietà di teatro recitato o «di parola», moderno: da Diego Lanza a
Charles Segal, per il quale la retorica è la sostanza stessa dei personaggi di
Seneca, il loro incrudelimento psichico.
Questa linea si può inoltrare
sino a certi allestimenti teatrali contemporanei, portatori di buone intuizioni
anche per i filologi: è il caso appena di nominare Peter Brook, e Luca Ronconi
che nel gennaio 1969, mentre preparava un concitato, mobilissimo Orlando Furioso, allestì a Roma,
antifrasticamente statuaria, la Fedra di Seneca, disponendo lungo una scalinata
ripida gli attori fissi come cariatidi, che recitavano quasi leggendo all’interno
di postazioni-cella.
Estremizzazione coreografica
tutto sommato destinata a impallidire dopo la parossistica rilettura, borghese
e ipersessuale, di una Sarah Kane.
“la Talpa – il manifesto”, 8
luglio 2012
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