21.3.19

Impermeabili alla vergogna. La sentenza della Cassazione e le scelleratezze della Polizia al G8 di Genova (Vladimiro Zagrebelsky)

Genova, luglio 2001. Una immagine della "macelleria
messicana" alla Caserma Diaz (dal sito del La Stampa)

Vladimiro Zagrebelsky, fratello maggiore del Gustavo che fu presidente della Corte Costituzionale, è – come lui – giurista ed è stato magistrato. Tra il 2001 e il 2010 è stato giudice della Corte Europea dei Diritti e, al termine del mandato, nel 2011, è stato insignito dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dal Presidente della Repubblica Napolitano.
Riprendo il suo articolo, vecchio di sei anni, perché mi sembra una storia da ricordare e perché ho paura che certi orrori, nell'attuale situazione politica potrebbero tornare. Il ragionamento di Zagrebelsky andrebbe aggiornato sul punto che riguarda il reato di tortura, che al tempo non era previsto dal nostro ordinamento e ne fa parte dal luglio, dopo l'approvazione della legge che lo istituisce. Ma il testo della legge fu a suo tempo criticato da diverse associazioni che si occupano di tortura, come Amnesty International e Antigone e Luigi Manconi, primo presentatore della legge, l'ha di fatto misconosciuta, rifiutando di votare il testo definitivo al Senato. Disse: «Le modifiche approvate lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito. E anche un’altra incongruenza: la norma prevede perché vi sia tortura un verificabile trauma psichico. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?». Nel dicembre dello stesso anno 2017 il Comitato Onu contro la tortura, che prese in esame la legge approvata dall’Italia, la giudicò non conforme alle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e ne chiese la modifica. (S.L.L.)


Un commento alla sentenza del 5 luglio 2012 con cui la Corte di cassazione ha definitivamente giudicato i dirigenti e funzionari della polizia di stato, imputati per i delitti commessi nella scuola Diaz di Genova, in coda alle manifestazioni che accompagnarono il G8 del luglio 2001, richiede qualche considerazione per così dire a lato della vicenda penale, o ulteriore rispetto a ciò che i giudici penali, nell’ambito della loro competenza, hanno potuto prendere in considerazione.
Tratterò tre differenti profili della vicenda, che concorrono a giustificare il permanere di gravi preoccupazioni, e anche un persistente senso di vergogna. Mi riferisco al ritardo con cui la giustizia penale giunge a concludere il processo, alla inadeguatezza delle sue conclusioni, all’isolamento in cui la giustizia penale è lasciata, unico e strutturalmente insufficiente luogo in cui lo stato reagisce a ciò che la Corte di appello di Genova, nella sentenza sostanzialmente confermata dalla Corte di cassazione, aveva ricostruito parlando di “tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile” e di “enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”.
I fatti sono noti. Per giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai manifestanti, che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme, furono arrestati. È noto anche che costoro furono minacciati e umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due furono in pericolo di vita. Vennero eseguiti arresti di massa, per “riscattare l’onore della Polizia”, accusata di inerzia a fronte delle devastazioni commesse da parte dei manifestanti contro il G8. L’operazione, che la Cassazione definisce “scellerata operazione mistificatoria” lucidamente organizzata, venne condotta sotto la direzione di altissimi funzionari, inviati a Genova dal capo della polizia. L’eventualità che poco o molto di quel che avvenne sia andato oltre le intenzioni dei vertici della polizia non toglie il fatto, purtroppo, che la vicenda sia stata lo sviluppo sul terreno di decisioni prese in riunioni di responsabili della polizia.
Le imputazioni hanno riguardato la calunnia nei confronti degli arrestati, la falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone hanno dato luogo a imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti, funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di prescrizione.
La conclusione giudiziaria è giunta dopo undici anni dai fatti. Undici anni.
Nel frattempo è morto quello che poteva essere il più importante imputato, il prefetto La Barbera, specificamente inviato a Genova a affiancare o sostituire i funzionari locali, “per ristabilire l’onore della Polizia”, e la maggior parte dei reati si sono prescritti. Le indagini della Procura della Repubblica di Genova furono condotte celermente e efficacemente, pur tra mille inframmettenze e difficoltà. La serie di giudizi, davanti al Tribunale, la Corte d’appello e infine la Cassazione si sono trascinati poi fino alla recente conclusione. La distanza nel tempo (nel frattempo quante cose sono successe!) ha consentito la distrazione con cui la sentenza finale è stata accolta dalle forze politiche, dalle istituzioni e tutto sommato, in rapporto all’enormità della vicenda, anche dalla stampa. La ministra degli Interni, prefetto Cancellieri, vertice dell’amministrazione cui la polizia di stato fa capo, ha tenuto a tessere l’elogio dei funzionari condannati ricordandone l’eccellente curriculum e solo aggiungendo che naturalmente avrebbe dato esecuzione alla sentenza. Il capo della polizia, succeduto a De Gennaro nel frattempo più volte promosso e anche sottosegretario del governo Monti, con delega ai Servizi di sicurezza, ha scritto due righe di scuse. Nulla dal parlamento in tutt’altro affaccendato. Silenzio dai partiti della “strana maggioranza”.
Quanto alla sentenza va ricordato che le violenze fisiche, pur accertate e gravissime, sono rimaste senza sanzione. Almeno alcune di queste, secondo la Cassazione, hanno avuto la sostanza di ciò che a livello internazionale si chiama tortura. Mi riferisco alla definizione che ne offre la Convenzione dell’Onu contro la tortura, del 1984, che l’Italia ha ratificato nel 1988. Oltre a episodi di vera tortura, nell’assalto alla scuola Diaz se ne sono verificati altri, che costituiscono trattamenti inumani e degradanti, anch’essi vietati dalla Convezione europea dei diritti umani, che l’Italia ha ratificato nel 1955.
La Convenzione Onu contro la tortura impone agli stati di prevedere nel loro sistema penale interno il delitto di tortura, con pene di gravità adeguata, di mettere in atto opera di prevenzione e di assicurare la punizione dei responsabili. Analogo obbligo deriva dalla Convenzione europea dei diritti umani e da quella europea contro la tortura. Ma l’Italia non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura. La tortura, quindi, come tale, non è punibile in Italia. E rispetto all’obbligo assunto dall’Italia nei confronti della comunità internazionale, non si tratta semplicemente di un lungo ritardo o di una disattenzione. L’Italia ha ricevuto nel corso degli anni una serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni. Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano l’arresto illegale, le percosse, le lesioni, le minacce, l’omicidio. Una risposta capace di trarre in errore il Comitato, come la vicenda delle violenze nella scuola Diaz o l’altra di violenze su detenuti in carcere recentemente giudicata dal tribunale di Asti ben dimostrano. Nessuna di quelle norme ha portato a condanne: i reati di lesioni contestati si sono prescritti, finendo nel nulla.
In parlamento si sono arenate iniziative legislative. Il pretesto è stato quello della necessità di proteggere la polizia da false accuse. Ma le false accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono anche accuse più che fondate. Ma c’è chi sostiene che solo ipotizzare in una legge che un agente pubblico possa torturare è offensivo per i corpi di polizia!
La giustizia penale, con grave lentezza e danni in itinere, ha concluso il suo lavoro. Anzi, a dire il vero non si è ancora alla conclusione perché il processo per i reati commessi nella caserma di Bolzaneto è ancora in corso. Ciò che avrebbero dovuto fare le autorità politiche e amministrative dei vari governi che si sono succeduti per ristabilire l’onore della nazione e anche quello della polizia – per riprendere espressioni che si leggono nelle sentenze – non è stato fatto.
Funzionari da sanzionare sono stati promossi. Il parlamento ha rifiutato di istituire una commissione d’inchiesta sulle responsabilità politiche e amministrative e si è nascosto dietro lo schermo della pendenza del procedimento giudiziario. Imbarazzo, connivenza, paura. Impermeabili alla vergogna. Anche la credibilità internazionale dell’Italia è toccata. La storia infatti non è finita. Dopo la sentenza della Cassazione, “esaurite le vie interne”, prende avvio la procedura introdotta da ricorsi alla Corte europea dei diritti umani. La sentenza non arriverà subito, ma arriverà con la certificazione europea della responsabilità dell’Italia per aver commesso prima e lasciato impunite poi quelle violenze. L’onore di un paese non si misura solo con l’andamento dello spread.

L'Indice dei libri del mese, febbraio 2013

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