30.11.14

Franco Fortini, la letteratura alla luce della Rivoluzione (Massimo Onofri)

Non sono stati in molti a ricordare l'altro ieri i venti anni dalla morte di Franco Fortini. Tra le commemorazioni reperibili in rete spicca questa, di un critico di valore, Massimo Onofri, che si svolge sul filo di una contraddizione: “Fortini non si spiega senza la rivoluzione / Fortini ha molto da dirci anche dopo il crollo dell'utopia rivoluzionaria”. Articolo bello, con molti spunti da approfondire. (S.L.L.)
Anni 50 del Novecento. Franco Fortini all'Olivetti 
Parlando, nel 1978, d’un libro come Questioni di frontiera, Cesare Garboli scriveva: «Se c’è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l’oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini». E aggiungeva, in un articolo che ora si può leggere in Falbalas (1990): «Le sorprese del suo ingegno non amano la luce. Avvengono nel buio, all’ombra. Essere inaccessibile come l’ombra, inabitabile come l’oscurità e la tortuosità, ecco ciò che Fortini desidera». Una mente irta e inospitale, se non inaccessibile, che coltiva consapevolmente la tortuosità: L’ospite ingrato (1966, che poi diventerà, nel 1985, Primo e Secondo) s’intitola, appunto, quel notevole zibaldone ove trovano asilo anche alcuni suoi memorabili epigrammi. Eppure, proprio in quegli anni, erano in tanti che, quella mente, si provavano ad abitarla, convinti di farlo, se non con comodità, almeno con profitto.

Cultura e politica. A vent’anni dalla morte di Franco Lattes – l’ebreo che aveva mutato il cognome in Fortini e s’era fatto valdese – si può dirlo con una certa sicurezza: non era possibile, per chi si muoveva da protagonista nel dibattito del secondo Novecento, soprattutto quando ci si richiamava al nesso tra cultura e politica, schivare un confronto con lui, non importa se per respingerne il comunismo totalizzante e messianico, vissuto nei modi d’una ortodossia che era solo del sentimento, o per restare suggestionati, invece, dalla sua eresia militante, in pendolarismo tra Brecht e Adorno.

Tra Sereni e Pasolini. Non parlo dei poeti: l’amico Vittorio Sereni o il distonico Attilio Bertolucci, che di Fortini spesso, per lettera, discutevano. Ma degli intellettuali: i cruciali rapporti con Giacomo Noventa e Pier Paolo Pasolini, del resto, sono noti, e quelli con Pasolini testimoniati da un libro imprescindibile come Attraverso Pasolini (1993). E non vorrei dimenticare Paolo Volponi, Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. Ma, in discendenza, penso, a destra, agli scambi con l’altro olivettiano, Geno Pampaloni, e, a sinistra, all’egemonia che esercitò sul gruppo di “Quaderni piacentini”: Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Goffredo Fofi, Giovanni Raboni, Giovanni Jervis, tutti nel comitato di direzione, con Cases che s’affacciava tra i collaboratori. Né vorrei tacere dell’influenza che ebbe sul massimo dei nostri critici formali, Pier Vincenzo Mengaldo. Speciale resta il caso di un altro piacentino, Alfonso Berardinelli, che a Fortini, nel 1973, dedicò una monografia d’adesione che ebbe molto successo, ma che da Fortini prestò s’allontanò, in direzione d’un empirismo libertario e individualista, che, se mi si consente il neologismo, all’oscurismo ideologico di Fortini preferì presto la comunicatività laica di George Orwell e di Nicola Chiaromonte.

Presente alienato. E’ stato proprio Berardinelli a dirlo meglio di tutti: senza rivoluzione, Fortini non si spiega. E questo non vale solo per il saggista e il critico, ma anche per il poeta e persino per il traduttore. Essere fedeli alla rivoluzione significava anche giustificare la volontà di non essere capiti nel presente alienato per essere compresi nel futuro liberato, quasi che il nocciolo razionale dei suo discorsi potesse finalmente essere estratto dal suo guscio mistico e estraniato: come gli venne da rispondere a Goffredo Parise il quale, nella incomprensibilità linguistica di Fortini vedeva invece l’antidemocratica arroganza del Potere, il perenne latinorum di don Abbondio.

Extrema ratio. Sicché la domanda resta ineludibile: implosa l’idea stessa di rivoluzione, cosa potrebbe restare oggi di Fortini? Sarei tentato di dire che l’utopia comunista fu il suo piranesiano carcere d’invenzione. Ci fu forse qualcuno che, meglio del Piranesi carcerario, seppe contemplare e ritrarre le rovine del suo presente, avvertirne il che di atroce e feroce? Possiamo metterla anche così: il futuro della rivoluzione, sempre procrastinabile, e fissato nel suo eterno non-essere, consiste esattamente in quella luce, algida e inesorabile, che ci permette di vedere più lucidamente il presente per quel che è, gelido e livido, irredimibile e tristo. Dentro una condizione perfettamente espressa dalla climatica ostile, diciamo così, di certi suoi titoli agonistici: Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista (1957); Poesia e errore (1959); Questo muro (1973); Paesaggio con serpente (1984); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990); Composita solvantur (1994).

Movimento dialettico. Insomma: se il futuro s’accampa utopicamente come totalità, quella di un’umanità finalmente integrale, non più scissa, il nostro oggi lacerato e contraddittorio, infelice e irredento, potrà essere compreso sino in fondo solo se interpretato dialetticamente. Ogni dettaglio andrà così sempre messo a sistema, qui e ora, con vigile pazienza e tenacia, dentro un ostinato allarme di coscienza, senza sconti per nessuno, a cominciare da se stessi: perché è nella Storia che troverà la sua verità. Fortini non ha dubbi: «Svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista». Ecco perché, se il presente è questo inferno di dolore e sopraffazione, la letteratura, che lo riunifica in sé, si paleserà, contemporaneamente, come verifica quotidiana e come anelito di salvazione.
Crollata l’utopia, gli assilli di Fortini ci possono ancora essere di aiuto? Credo di sì: perché della sua critica a una coscienza falsa, acquietata e serva dello status quo, abbiamo ancora bisogno. Almeno come imperativo etico.


La Nuova Sardegna, 28 novembre 2014

Dormitori. L'anno terribile di Claudio Scajola (S.L.L.)

A sinistra il palazzo con l'appartamento romano dell'ex ministro Scajola
E' morta l'altrieri, a 99 anni, la mamma dell'ex ministro Claudio Scajola, per cui questo 2014 dev'essere stato un annus terribilis. Immagino che anche uno come Scajola, “con un palmo di pelo sullo stomaco”, soffra molto il sentimento di abbandono che si prova perdendo i genitori, quale che sia la loro età e il loro stato di salute. Condoglianze sincere.
Guardo un po' di ritagli: l'accusa di aver agevolato la latitanza di Matacena, i 36 giorni a Regina Coeli, gli arresti domiciliari nella casa d'Imperia, la celebre Villa Ninina, la calda accoglienza della moglie Maria Teresa.
Eppure l'anno per l'ex sindaco di Imperia non era iniziato male. A gennaio i giudici di Roma, con sentenza definitiva, avevano deciso che non è reato farsi pagare (almeno per una gran parte) la casa con vista sul Colosseo da i costruttori interessati a importanti appalti e ammanicati con il Vaticano.
Villa Ninina, l'abitazione, a Imperia, dell'ex ministro Scajola
A me era venuta voglia di apostrofare quei giudici con le parole del padre Cristoforo a don Rodrigo e ai suoi commensali (“Lor signori sono troppo giusti...”), ma lui, Scajola, poteva essere contento, anche se alla fine aveva dovuto cambiare linea di difesa. Non insisteva più sul pagamento avvenuto a sua insaputa, ma ribadiva: “Io in quella casa non ci vivo, ma ci dormo”. Non un appartamento dunque, ma un dormitorio.
Forse insonne, in queste notti di lutto e di ricordi, in un altro dormitorio, la Villa Ninina di Imperia, affacciandosi a un balcone l'ex ministro, rimpiangerà la visione delle antiche mura dell'Anfiteatro Claudio. Si consolerà con il mare, o con gli olivi di Liguria, se il mare non si vede.

29.11.14

Alla moglie... Un epigramma di Zefirino Re (poeta cesenate del Primo Ottocento)

A Cesena 
Alla moglie che in pianto si struggea,
l'infermo locandier Marco dicea:
"S'io muoio fia per te miglior partito
prender il camerier nostro per marito".
E a lui l'afflitta moglie: "Oh Marco mio,
adesso appunto ci pensavo anch'io!".

Epigrammi, Udine, 1830

Zingari (S.L.L. - Stato di fb)

Si dice: gli zingari sono un'altra razza, hanno criteri etici e giuridici diversi dai nostri, per loro rubare ai "non zingari" è un lavoro e chi lo fa ha ottiene nella sua comunità rispetto e amicizia; e, quando serve, ottiene complicità. 
Stupidaggini. Fino a qualche decennio fa nelle borgate romane, nei carruggi genovesi, in certe vie di Milano era d'uso proteggere i ladruncoli del quartiere. E ancor oggi in certi quartieri napoletani o a Bari vecchia esistono solidarietà siffatte. Si tratta di piccole e piccolissime comunità che si sentono e, per molti versi, sono estranee allo stato. 
Quando tra gli zingari c'erano tanti calderai e cavallari, la percentuale di ladri era molto più bassa. Dategli lavoro e reddito; ladri ed elemosinanti torneranno a diminuire. Dategli abitazioni e diritti, come facevano in Ungheria, in Yugoslavia o in Cecoslovacchia al tempo dell'esecrato "socialismo reale", e, pur conservando in parte i loro costumi, muteranno di molto i criteri etici e giuridici, isoleranno e condanneranno il delinquente.

fb, 26 novembre 2014

28.11.14

Come ricostruire la sinistra. Una risposta ad Alfonso Gianni (S.L.L.)

Angelo Gianni negli anni 70 del secolo scorso fu deputato del Pdup per il Comunismo. Fece poi il sindacalista per un quarto di secolo.
A cavallo tra i millenni divenne esponente del Partito della Rifondazione Comunista tra i più vicini a Bertinotti.
Nei giorni scorsi ha pubblicato per Huffington Post, il giornale on line dell'Annunziata, un articolo sul nuovo, possibilmente unico, partito della sinistra. Il testo si intitola E' necessario e possibile ricostruire una forza della sinistra?; il Gianni si qualifica come direttore della Fondazione Cercare Ancora. Cuore della proposta dell'ex parlamentare è lo scioglimento e la fusione dei piccoli partiti di sinistra oggi esistenti. 
Un compagno ha proposto l'articolo su fb con consenso; io ho spiegato in un lungo commento le ragioni del mio dissenso. Ne ripropongo qui il testo, un po' rimaneggiato. (S.L.L.)

Per l'articolo di Gianni vedi
http://www.huffingtonpost.it/alfonso-gianni/necessario-possibile-ricostruire-forza-sinistra_b_6204562.html  
Alfonso Gianni con l'ex ministro Tremonti
La dico semplice. Lasciamo perdere i nomi: sinistra, basso, sotto, la si chiami come si vuole. Una forza politico-sociale che organizzi e rappresenti il lavoro e i ceti popolari con lo scopo di combattere le disuguaglianze secondo me è possibile ed è necessaria alla lotta solidale per un mondo meno infelice non solo in Italia, ma in Cina, in Russia e ovunque non ci sia ancora o non ci sia più.
Sono però convinto la proposta di Gianni sia assolutamente sbagliata e controproducente. C'è un profondo discredito dei partitini di estrema sinistra tra i ceti popolari, che li considerano inutili se non dannosi. I loro gruppi dirigenti, a tutti i livelli, dal Comune al Parlamento, hanno permesso nei due decenni trascorsi la spoliazione di reddito e diritti, mentre godevano di privilegi crescenti. Lo stesso Gianni non avrà frequentato gli yacht come il Bertinotti con cui dialogava nei libri, ma gode di un vitalizio indecente, se si guarda al trattamento dei pensionati. Forse non ne ha alcuna colpa, non l'avrebbe neanche voluto il vitalizio né la scandalosa indennità di reinserimento. Forse ora spende tutto per la fondazione che ha fondato e che dirige.
Ma tutto ciò non conta nulla: i lavoratori e i ceti popolari con buone ragioni non si fidano di lui e non si fidano dei partitini, delle loro sigle, delle loro beghe, delle piccolissime carriere che tuttora permettono in alcuni paesi e province. E' inutile, non sono credibili. Il (relativo) successo della lista Tsipras dipende anche dal fatto che SEL e Rifondazione si sono fatti vedere meno del solito, sono stati quasi nascosti.
Lo scioglimento e la fusione dei piccoli apparati, delle piccole strutture residue di SEL e PRC non sarebbe un aiuto alla costruzione della forza popolare per l'uguaglianza di cui c'è bisogno, ma un ulteriore dannosissimo ostacolo. Genova (così io chiamo il congresso dove si rifà il partito dei lavoratori) dev'essere convocata da altri, da circoli, gruppi, movimenti, associazioni, sindacati non compromessi con le subalternità e le velleità degli ultimi due decenni. Quando sarà stata convocata, che i partitini – se non l'hanno già fatto - si sciolgano, ciascuno per suo conto, e invitino le organizzazioni di base ad aderire. Questo è l'unico modo per evitare che quel tanto di buona militanza che in quei partiti resta vada disperso.
A un processo di questo tipo, che abbia altri protagonisti e non la gente che s'è vista in Parlamento, nelle Regioni o nei Comuni, dovrebbero dare una mano ex dirigenti consapevoli come Gianni. Credo che si dovrebbe sottolineare il carattere di "nuovo inizio" che ha la formazione del partito anche con misure transitorie. E' giusto che per i primi anni non si assegnino funzioni di rappresentanza politica e istituzionale a chi ha avuto cariche esecutive o ruoli di rappresentanza istituzionale nelle vecchie forze politiche. Si troverà il modo di far contare le belle intelligenze e le buone energie oggi presenti nei partitini, studiando anche i modi della restituzione solenne del maltolto attraverso i vitalizi ed altri ammennicoli. 
Se così non accadrà, la ricostruzione di un partito dell'uguaglianza, della rappresentanza dei lavoratori e del popolo minuto, della sinistra se così piace chiamarla, sarà probabilmente ritardata con danni gravi. Ma i partitini che non hanno voluto praticare l'eutanasia non riusciranno a sfuggire alla morte con sofferenza.

da fb, 28 novembre 2014

Sangue, amore e fantasia. Carolina Invernizio racconta (Elisabetta Rasy)

Carolina Invernizio
Nel 1890 la Società operaia di Napoli chiede alla signora Quinterno Invernizio una conferenza sul lavoro femminile. La signora in questione ha tutte le carte in regola: è moglie da nove anni di un «colto e distinto» (come lei stessa lo definisce) tenente dei bersaglieri, da quattro anni è madre di una amatissima bambina, si presenta bene - una morigerata, non eccessiva bella presenza - e soprattutto di donne se ne intende. Da più di un decennio, infatti, Carolina Invernizio, letterata-casalinga di Voghera, sforna romanzi fiume di cui le donne sono le travagliate, indiscusse protagoniste.
Ora la conferenza Le operaie italiane a distanza di quasi un secolo viene ripubblicata in appendice a un volume di racconti, Nero per signora, che gli Editori Riuniti manderanno in libreria nei prossimi giorni. Ma non si tratta solo del piacere di ripescare un'ennesima testimonianza sul personaggio. Le operaie italiane è una vera e propria, anche se involontaria, dichiarazione di poetica. «Nella donna del popolo è grande la smania del fantastico, del meraviglioso, dell'inverosimile. Quanto più la cosa è difficile ad ammettersi, più fa impressione nelle fragili fibre del suo cuore». La Invernizio dopo una strenua denuncia, «L'ignoranza genera la credulità», prosegue spudoratamente: «Le storie che maggiormente imparano a memoria le nostre operaie sono quelle che trattano di miracoli e incantesimi; oppure di assassini, di capi banditi, di avventure cavalleresche». Un terreno nel quale lei era maestra. E lo provano anche i racconti che compongono questo nuovo omaggio editoriale alla signora di Vogherà. Il curatore, Riccardo Reirn, li ha messi insieme cercando nella diluviale produzione della Invernizio le punte più spiccate del suo diffuso gusto per il macabro. Carolina era una indefessa assassina di personaggi, al punto che doveva trovarsi dei supervisori ai delitti. Ed essendo molto fiera della sua condizione di scrittrice donna di casa, non esitava a mettere al lavoro i parenti. «Poiché i suoi personaggi morivano con preoccupante facilità» ha raccontato il nipote Ferdinando Tettoni, figlio di una delle sorelle, «poteva capitare che, dovendo scrivere contemporaneamente almeno un paio di romanzi, l'autrice si dimenticasse di aver ucciso l'uno o l'altro. Mia madre era espressamente incaricata di tenere la contabilità di quanti erano passati a miglior vita».
Nei racconti di Nero per signora questo problema non si pone perché l'autrice va rapidamente al sodo, cioè al morto, o più preferibilmente alla morta. Abitati, come i romanzi, da un popolo di giovinette indifese, malvagi impenitenti, femmes fatales, anche i racconti seguono quella «smania del fantastico» tipica del suo pubblico femminile, come Carolina ben sapeva.
E a questo pubblico di cui è così dettagliatamente consapevole, la Invernizio non intende offrire solo una facile evasione, ma quella «educazione morale» che si guarda bene dal «convertire le fanciulle del popolo in tante saputelle» e che non porta «in un regno d'illusioni, nocivo a sé e agli altri».
Il «fantastico», il «difficile ad ammettersi» tanto caro alla donna del popolo non è infatti nei romanzi e nei racconti della Invernizio antitetico a quello che è quotidianamente documentabile e documentato, nelle cronache nere e giudiziarie dei giornali dell'epoca. Ma vendetta, follia, passioni insormontabili sono per la scrittrice le vere ragioni di quei delitti e suicidi liquidati con meccanica banalità dalle Corti d'assise e dalle cronache giornalistiche. Anzi, la Invernizio vuole demistificare quanto la stampa registra e divulga: «Due giorni dopo tutti i giornali parlarono di un doppio suicidio» scrive a conclusione di una storia che dopo alterne vicende di redenzione, denaro, amore e tradimento si conclude in un delittuoso bagno di sangue.
Nessuna tentazione di denuncia, nessuna velleità trasgressiva percorre la prosa della signora di Vogherà. «Addomesticando il sensazionale per farne letteratura a sensazione» suggerisce Edoardo Sanguineti nella prefazione a Nero per signora, la Invernizio ci dice che «nella vita come nella cronaca, l'eccezione è fatta apposta per confermarci la regola».


“Panorama”, 23 novembre 1986

27.11.14

Conflitto (Franco Fortini)

Conflitto» sembra essere, come «guerra», il contrario di «pace». Qualcosa di sgradevole e penoso e pericoloso. Conflitto è tra opposti o contrari, urto tra volontà e bisogni.
Ci dicono che l'immagine di «pace» sorge dall'appagamento dei bisogni infantili, da tutto quel che riconduce allo stato fetale o a quello dell'allattamento (sicurezza, calore, indifferenza a quanto è estraneo) mentre l'immagine di «conflitto» è connessa a quella di separazione, mancanza, ricerca, sfida, prova, rischio, sofferenza, crescita, avventura. Non troppo paradossalmente, la pace contiene in sé la tentazione della morte mentre il conflitto implica l'eros, la brama e il desiderio. Per molte sapienze il conflitto è proprio dell'apparenza, della tremenda scena «teatrale» della realtà mentre solo vera è la pace del Non Essere, il ritorno o il raggiungimento del Nulla. Il conflitto è vissuto allora come male o come necessità transitoria. Le religioni monoteistiche affidano alle funzioni di comando, civili o religiose, la difesa della pace. Sulla forza repressiva si fonda la legge, entro la legge si dovrebbero risolvere i conflitti, chi infrange la legge è nemico della pace pubblica. Ma accanto e contro l'esperienza di due condizioni simmetriche e antagoniste sta quella della loro inseparabilità. Senza conflitto non si da il fondamento medesimo della esistenza che dura, il lavoro. Senza la «prestazione» e quel che essa implica (ostacolo, resistenza, usura, sofferenza, consumo) non si da «piacere». Senza conflitto non si da riposo o «pace»).
Le guerre sembrano tutte eguali soltanto per chi ne guarda le cause immediate e tecniche. E invece sono diverse come la storia delle società e delle parti in conflitto. Chiamare battaglie quelle dei greci, che non duravano (per estenuazione dei combattenti) più di mezz'ora e quelle delle guerre moderne che durano ininterrotte per mesi è un inganno di linguaggio. E così coloro che vogliono demolire o assopire ogni spirito di protesta e di opposizione alle cose-come-stanno vi predicano che ogni contrasto è conflitto, ogni conflitto violenza, ogni affermazione di principio è «antidemocratica», e viva le tavole rotonde e simili imbrogli.
Presso i cinesi, sorridere all'avversario può manifestare un'ostilità grandissima. Il cerimoniale del duello, fino a meno di cent'anni fa, era una forma culturale di espressione di un conflitto tra individui. L'ironia può essere, come si dice, sanguinosa come una stilettata. La violenza non è negli strumenti impiegati per usarla. E certo le buone maniere sono preferibili, quasi sempre, alle cattive. Quasi sempre: dare della canaglia, ad esempio, è, in date circostanze, una forma di conflittualità «esemplare» ed «educativa» come non lo sarebbero invece un ironico risolino o un rispettoso dissenso.
La storia umana è anche storia di intolleranza e tolleranza, di conflitti e di loro risoluzioni, di contese e di accordi da cui nascono altre contese e altri accordi. Come nella musica o almeno in gran parte di essa. Sono sempre esistiti i tentativi, di individui o di gruppi, di uscire fuori della conflittualità verso la «pace» del nulla, della non-azione, dell'annullamento del desiderio e del confronto; penso al buddismo e alla tradizione mistica occidentale.
E anche le procedure opposte, di chi porta alle estreme conseguenze lo scontro, offrendosi vittima all'avversario dagli assediati (Numanzia o Masada) che scelgono il suicidio contro la resa, fino ai singoli che rifiutano la vita se offerta in cambio della ritrattazione o del pentimento («questa mia è una verità di cui non si può dare testimonianza se non morto», dice, avviato al rogo, un eretico fiorentino del Quattrocento; e «lei sa, padre, che cosa significhi salvarsi l'anima?» risponde Gramsci prigioniero al prete che gli propone di inoltrare una istanza di grazia a Mussolini).
Ma non ogni conflitto è «il» conflitto, come non ogni guerra è «la» guerra e non ogni pace è «la» pace. Va respinto come un volgare imbroglione tanto chi (e non sono pochi) interpreta i moderni conflitti tra nazioni e potenze come proiezione di conflitti tra «mentalità» o «culture» o «religioni» o «civiltà» (e presto si arriva a parlare di lotta del «bene» contro il «male» e simili rozze e purtroppo sempre efficaci menzogne). Costoro, nella migliore delle ipotesi, dilatano a livello mondiale l'esistenza e la rilevanza certo realissima dei conflitti inconsci degli individui « fingono di non vedere che ogni cozzo di interessi e passioni traspone, sì, anche quelli sedimentati o rimossi negli individui e nei gruppi umani, ma che nelle società moderne tanto le strategie del piccolo negoziante quanto quelle delle grandi potenze assegnano un'importanza sempre minore ai motivi e agli interessi non formulabili in forma razionale.
Quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della musica popolare dell'Arkansas o della lirica trovadorica o dell'allevamento dei criceti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi, uomini politici, insomma, tutta una cultura. Che poi quel complesso sistema abbia bisogno anche di truccare le proprie motivazioni ora evocando paure (e rassicurazioni) infantili («II nemico è un orco sanguinario e pazzo e ognuno può contribuire a distruggerlo infilzando spilli in una sua effìgie per poi tornare a mangiare il tacchino e la torta di mele con mamma, moglie e figli nel Giorno del Ringraziamento») ora fornendo argomenti solo apparentemente più realistici («vogliamo il petrolio») ma altrettanto menzogneri o parziali - tutto questo ci dimostra che «la pace» è una parola vuota e consolatoria se non si definisce bene a quale conflitto, a quale lotta o guerra si opponga. Si opponga, appunto. Negarli un conflitto equivale a istituirne un altro.
«La vita dell'uomo sulla terra è un servizio militare», «Io sono venuto a portare la spada»: Chi ha detto queste frasi è la medesima bocca che ha detto: «Beati coloro che si adoperano per la pace». Credo non ci sia nessuna contraddizione. La prima frase riconosce che la conflittualità (tra «bene» e «male», fra «giusto» e «ingiusto») e la sua sofferenza è costitutiva, come la sua gioia, dell'essere umano e del suo fondamentale bisogno di conservazione e riproduzione, ossia di «lavoro».
La seconda ci avverte che il latore di consapevolezza è anche latore di conflitti. La terza vuoi dire che i facitori di pace sono coloro che, accrescendo la cerchia dei rapporti, dei temi e delle ragioni di non-conflitto, spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti, inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più precisamente definendo e chiamando per nome i nemici, trasformandoli prima in avversari, poi in collaboratori necessari e preziosi. Ogni individuo, ogni classe, ogni società è «pacifica» all'interno della cerchia del proprio «fuoco di bivacco» ma non può non avere sentinelle poste a difesa della fraternità e della solidarietà, sempre minacciate da «dentro» come da «fuori»; al limite il «nemico», come diceva Leopardi, sarà identificato nella nostra condizione di esseri naturali, nella «natura» che ci destina alla scomparsa individuale e, in prospettiva, della specie.
Oggi e subito il «nemico», quello contro cui è necessario non solo conflitto ma guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci; e che, per esempio, nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o dì missili, l'uguaglianza dei diritti - e la finale identità umana - fra i privilegiati e i «dannati della terra». Però, con un'aggiunta: la lotta per quella uguaglianza non può non implicare conflitto contro chi opprime e asservisce altrui. Nessuna peggiore ingiustizia che fare le parti eguali tra diseguali, insegnava don Milani. Per questo la lotta contro chi organizza il consumo di una spropositata parte dei beni della terra a favore di una minoranza cosiddetta «civilizzata» può non essere «giusta» ma è necessaria. Ancora una volta il conflitto è un «male» per un «bene» e per un bene non garantito. Così l'uomo mosse armato di bastone contro l'alce o il bufalo, sapendo la sofferenza cui si esponeva o che infliggeva, nella speranza di sopravvivere alla fame. Bisogna scegliere.

Dal supplemento al “manifesto” Le lezioni del golfo N.8 – senza indicazione di data, ma 1991

Non commettere atti impuri (S.L.L. - Stato di fb)

Mi è venuta una specie di illuminazione sull'infanzia, sui tempi della mia scuola elementare, su una stravagante associazione, su un piccolo dubbio che mi tormentò. Allora si usava, per rendere più chiaro il senso ai bimbi che quando sentivano il verbo "fornicare" pensavano alle formiche, compitare il sesto comandamento anche così: "Non commettere atti impuri"..
Le bambine e i bambini capivano agevolmente, visto che l'educazione cattolica proiettava sulla sessualità, fin dalle sue prime incerte e vaghissime manifestazioni, un senso di infezione, di sporcizia. S'apprendeva subito, nei cortili dei primi giochi, cosa volesse dire più o meno "ficcari", il termine che in dialetto indicava il coito, ma il galateo faceva preferire l'eufemismo "fari cosi luordi" (fare cose sporche). Così accadeva che i compagni di scuola poveri (i più), costretti dall'esiguità degli spazi domestici a dormire nella stessa stanza dei genitori, confidassero di aver sentito (o addirittura intravisto) papà e mamma che facevano "cosi luordi". Il prete, insomma, riusciva a rendere sudicio e impuro nella nostra immaginazione di bambini perfino l'amore coniugale.
Quando capivano di entrare nella sfera del "proibito" bambine e bambini non osavano percjò fare domande: ai loro dubbi rispondevano ricorrendo alle fantasiose escogitazioni dell'immaginazione, alle proprie o a quelle dell'amico o amica del cuore che pareva saperne di più, ma sistematicamente inventava.
Fu così che per qualche tempo covai irrisolto il dubbio che la "S impura", quella seguita da consonante di cui il maestro ragionava a proposito dell'articolo "lo", avesse qualche arcano rapporto con gli atti impuri, con "li cosi luordi". A me venivano in mente la coda e l'arnese del maiale, curvilinei come la lettera S: il fatto che si considerasse il porco specializzato in "atti impuri" giustificava l'ipotesi di un legame. Ma non riuscivo a individuare quale fosse. Un'altra ipotesi era collegata ai vocaboli del sesso: "lu sticchiu" (nome dialettale dell'organo femminile) e "lu spacchiu" detto anche "spacchimi" (nomi dialettali del liquido seminale). Erano state quelle parolacce e le cosacce che indicavano ad impestare la S, a rubarle la purezza. Così mi accadde di pensare, seppure per poco tempo.

fb, 23 novembre 2014

Bianca Dea (Lidia Storoni)

Una raffigurazione della "Mater Matuta"
ROMA 
Nella piccola chiesa di Sant'Omobono dirimpetto all'Anagrafe una valente archeologa, Giuseppina Pisani Sartorio, ha allestito una mostra e ne ha curato il catalogo, con il patrocinio del Comune e il finanziamento dell'Italgas. Non vi sono esposte né statue, né pitture, né gemme: solo testimonianze delle fasi più remote di Roma. E si spera che da questo rinnovato interesse per i primordia Urbis risultino scavi ulteriori, storicamente più importanti di quello di via dei Fori Imperiali che, per ora, sembra riportare alla luce soltanto il selciato del 1930 e tetre cantine.
Non è certo la prima volta che si parla dell'area sacra di Sant'Omobono; studiosi illustri come Gjerstad, Coarelli, Sommella, Torelli e altri ne hanno scritto diffusamente. La scoperta, nella zona, di tracce dall'VIII secolo a.C. in giù risale al 1937; ma, ad onta degli sforzi del professor Colini per tutelare l'area, i palazzi dell'Anagrafe e l'asfalto di via del Mare limitano l'attività degli archeologi ai dintorni immediati della chiesa. Altre difficoltà dipendono dal fatto che già a tre metri di profondità si trova una falda d'acqua che, prima della costruzione dei muraglioni, veniva assorbita dalle sponde del Tevere.
I reperti più vistosi (attualmente non esposti), il gruppo fittile di Atena ed Eracle, il bassorilievo e i due grandi felini (età di Tarquinio il Superbo, 534-509 a.C.), che si trovavano nel tempio primitivo, li vedemmo nel convegno del 1977 Lazio arcaico e mondo greco; se n'è parlato in altri incontri e più se ne parlerà nell'imminente mostra sulla Grande Roma dei Tarquini. Al presente, i disegni di Giovanni Ioppolo presentano le varie ipotesi di collocazione nel tempio primitivo, che fu distrutto, forse al momento della cacciata dei re etruschi nel 509. Nelle vetrine si vedono buccheri etruschi, ceramiche d'importazione attica, corinzia e jonica, altre etrusco-corinzie, ciondoli, fibule, oggetti d'uso - balsamari, ciotole, piattini, spesso in miniatura, perché il più delle volte si tratta di ex voto - , ossa d'animali sacrificati, fusi e contrappesi da telaio, ambre (che provenivano dal Baltico), alabastri egiziani: prodotti che testimoniano la presenza nella zona d'un artigianato di lusso, greco o greco-orientale.
Il viver quotidiano di Roma arcaica (tale è il titolo della mostra) appare in realtà solo di riflesso; e neppure si coglie da questi esigui documenti (qualcuno ne ha parlato come del tema fondamentale della mostra) la prova storica dell' esistenza dei sette re di Roma. Da quanto si vede, ruderi attorno e oggetti in vetrina, risulta soprattutto che la pianura tra il Campidoglio e il Tevere ospitò già in epoche lontanissime un mercato e un centro religioso, servì come crogiuolo di razze e, oltre che scambio di merci, offrì un punto d'incontro a diversi costumi, tecniche, culti e idee.
Lì, per una vocazione geografica, si coagulò la città-cerniera tra Nord e Sud, tra oriente e occidente: l'ansa del fiume e l'isola Tiberina facilitavano gli approdi. Qui gli etruschi incontravano i greci dell'Italia Meridionale, la Magna Grecia, quelli dell'Egeo e altri navigatori e mercanti, qui manufatti di lusso venivano scambiati con buccheri e bronzi etruschi, ma anche con agnelli e latticini dei pastori, di cui è accertata la frequentazione sul Palatino, il Campidoglio, l'Esquilino, sin dai tempi della cultura appenninica (XVI-XII secolo a.C.); la parola pecunia, si noti, viene da pecus; e c' è chi ha affacciato l' ipotesi che i septem colli fossero saepti, vale a dire non sette ma chiusi da recinti, come si usa tuttora per le greggi.
Da quanto si vede emergono due elementi fondamentali: quello religioso femminile e l'influsso greco, almeno pari a quello etrusco. I due templi gemelli, ricostruiti agli inizi del V secolo (età repubblicana) su un unico basamento quadrato, sono dedicati uno alla divinità già del tempio primitivo, Mater Matuta, l'altro alla Fortuna. Mater Matuta, dea della fecondità, ha nel nome la stessa radice di matutinus, di maturo, come ciò che nasce; in suo onore l' 11 giugno si celebrava la festa dei Matralia: le matrone univirae (vale a dire sposate una volta sola) introducevano nel tempio una schiava, poi la scacciavano a suon di nerbate, simbolo dell' espulsione di tutto ciò che è vile, inferiore; per implorare su di loro la protezione della dea portavano in braccio non i propri bambini, ma quelli delle rispettive sorelle.
Questo atto rituale delle zie, secondo Georges Dumézil, è d'origine indo-europea e sta a significare che la dea dell'Aurora, sorella della Notte, promuove la nascita del figlio di quest'ultima, il sole. La Mater Matuta è assimilata anche a una figura del mito greco, Leucotea, la dea bianca che allevò Dioniso, figlio di sua sorella Semele e, per salvarsi dalla furia omicida del marito, approdò sulle rive del Tevere. Quanto alla divinità del secondo tempio, Fortuna, era la dea tutelare di Servio Tullio, che, figlio d'una schiava, era stato messo sul trono dalla vedova del predecessore, Tanaquil, una etrusca veggente rappresentata con gli strumenti della tessitura: a lei forse sono dedicati i fusi esposti.
Per il suggestivo fenomeno della continuità sotterranea dei culti (a Paestum la Madonna del Melograno ha preso il posto della Hera Argiva, alla quale era sacro quel frutto), i templi arcaici furono più volte rifatti e restaurati, fino all' età di Adriano. Sul luogo forse si instaurò una chiesa paleocristiana, poi certamente medievale e infine rinascimentale, dedicata a Sant'Omobono; e il nome del santo, sarà una coincidenza, è la traduzione esatta di quello del mitico abitatore della zona che, poco lontano di lì, accolse Enea quando questi sbarcò sulle rive del Tevere. Si chiamava Evandro Uomo Buono, portatore dall'Arcadia di costumi civili e dell'alfabeto tra i rozzi latini; il suo nome era in contrasto con quello del bandito che viveva nelle grotte dell'Aventino, Caco (dal greco Kakòs = il cattivo). Ravvisiamo dunque nella zona i primi passi d'un cammino di civiltà che lentamente, ci auguriamo, procede.


“la Repubblica”,10 giugno 1989

Gerusalemme liberata. Tasso tra desiderio e dovere (Donatello Santarone)

Francisco Hajez, Rinaldo e Armida
Che accadrebbe se Steven Spielberg decidesse di fare un film sulla Gerusalemme liberata?
Sarebbe in grado di tradurre in immagini il tormento di Tancredi e di Solimano, il conflitto tra dovere religioso e piacere erotico presenti nel poema di Tasso o, grazie alle raffinate tecniche dell'industria cinematografica (la telecamera che accompagna il sibilo della freccia nel Robin Hood di Kevin Costner!), punterebbe soltanto a esaltare i motivi militari, epici, d'avventura, pur altrettanto importanti? O ancora, dopo la guerra del Golfo, esibirebbe la superiorità occidentale contro i perfidi musulmani come nella prima Crociata del 1099, materia storica e poetica del libro di Tasso?
La riproposta mondadoriana della Gerusalemme nella collana blu degli Oscar Grandi classici può suscitare, nel lettore attratto dalla teatralità dell'opera, anche questi interrogativi.
L'attuale edizione - come le precedenti - è accompagnata dalla perizia filologica di Lanfranco Caretti, da una sintetica guida ai venti canti del poema e dalla riproposizione, con alcune modifiche, di uno scritto del 1957 ancora di grande interesse. In particolare si leggano le pagine sul «bifrontismo spirituale» del Tasso nell'«assidua tensione tra l'energica spinta unitaria e l'opposto impeto delle forze centrifughe, che costituisce in realtà l'irrequieta e indocile vita interna del poema»; o quelle sulla «suspense tassiana», che è «inerente alla coscienza stessa del poeta, proiezione letteraria del suo sgomento di fronte alla realtà».
La Gerusalemme liberata per tre secoli tenne banco nella cultura europea, tra i ceti colti e tra quelli popolari. Tradotto continuamente, amato dai poeti barocchi (un po' meno da Galileo), fonte di ispirazione per Goethe che scrisse un dramma intitolato Tasso, esaltato dai romantici che costruirono il mito del martire perseguitato dalla società e dalla chiesa, penetrato più di quanto si creda nella poesia italiana del Novecento, il libro maggiore di Tasso fu un autentico best-seller.
Rousseau racconta di aver ascoltato i gondolieri veneziani cantare le ottave della Gerusalemme. E in effetti, fuori dalle facili mitologie, la tradizione del poema epico quattro-cinquecentesco (forte di elementi narrativi, cavaliereschi, lirici, comici) da Boiardo a Pulci a Ariosto e Tasso - ma senza dimenticare, nel '600, la favola mitologica di Marino - fu tra le più popolari nel nostro paese. Anzitutto per il metro usato, l'ottava rima, metro narrativo per eccellenza, facilmente memorizzabile come la terzina dantesca.
Poi per la materia trattata, estremamente varia, ricca di eroici cavalieri, di amori, di magia bianca e nera, una materia fatta di repentini capovolgimenti, drammatica ed elegiaca, mortuaria e sensuale insieme come scrisse lo stesso Tasso nei Discorsi dell'arte poetica pensando al suo capolavoro che terminerà nel 1575: «così parimente giudico che da eccellente poeta... un poema formar si possa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d'esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii; là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d'amor or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli».
Gli ingredienti ci sono tutti e la loro miscela non è mai scontata. L'inquieto Torquato, uomo della Controriforma (nacque nel 1544 e mori nel 1595), è ancora insidiato dall'eredità del naturalismo rinascimenlale, è un uomo di transizione, tra Ariosto e Marino, tra lo splendore delle corti e l'inizio della servitù politica italiana.
Il tema della liberazione del Santo Sepolcro si offriva per la sua attualità storica - nel '500 lo scontro con l'Islam aveva conosciuto momenti di drammatica intensità - e inoltre la stessa Controriforma cattolica rappresentava una sorta di crociata contro gli infedeli fuori d'Europa e contro i più pericolosi riformatori del vecchio continente.
Ma la liberazione di Gerusalemme ad opera delle forze del Cielo contro quelle dell'Inferno è pure liberazione interiore, percorso salvifico alla maniera di Dante, purificazione dal peccato. Solo che in Tasso è assente la compatta architettura ideologica del cristiano militante medievale, ed egli sembra spesso camminare sull'orlo di un burrone, sfidare di continuo l'autorità religiosa come, quando al termine del poema, mette in bocca alla pagana Armida le parole della Vergine: «Ecco l'ancilla tua».
E proprio la maga Armida, bellissima seduttrice dei cavalieri cristiani e amante di Rinaldo, è l'emblema del piacere, di quel «meraviglioso pagano» che attrae ma va combattuto.

Il suo lussureggiante giardino nelle Canarie, al di là delle Colonne d'Ercole, lontano dagli scontri militari e politici, è il luogo dove si rinnova l'età dell'oro, dove un'esotico pappagallo (parente dell'usignolo di Marino?) esalta l'immediatezza del godimento: «Cogliam la rosa in su '1 mattino adorno/ di questo dì, che tosto il seren perde;/ cogliam d'amor la rosa: amiamo or quando/ esser si puote riamato amando».
L'amore - tema centrale della Gerusalemme - svia i cavalieri cristiani dalla conquista della città santa: il cristiano Rinaldo è irretito dalla pagana Armida, Tancredi - pure lui crociato - ama Clo-rinda, eroina pagana, ed è invano desiderato dalla pagana Erminia; ma l'amore non si realizza mai compiutamente e anzi sembra rivelarsi solo in prossimità della morte, come nel caso di Tancredi che uccide senza saperlo la sua amata in una splendida ottava in cui la morte è metafora dell'amplesso erotico: «Ma ecco ornai l'ora fatale è giunta/ che '1 viver di Clorinda al suo fin deve./ Spinge egli il ferro nel bel sen di punta/ che vi s'immerge e '1 sangue avido beve;/ e la veste, che d'or vago trapunta/ le mammelle stringea tenera e leve,/ l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente/ morirsi, e '1 pié le manca egro e languente». E si arriva addirittura a sfiorare la necrofilia quando l'amante non corrisposto di Tancredi, Erminia, bacia il suo cavaliere creduto morto dopo un combattimento.
Riprendiamo per un momento alcuni ingredienti suggeriti dal Tasso nel suo elenco. Fame, sete, tempeste, prodigi, incanti, battaglie: si resta ammirati dalle capacità che possiede il poeta di Sorrento di creare scenari naturali improvvisamente sconvolti da tempeste e tuoni provocati dalle potenze infernali, di descrivere l'arsura che soffoca uomini e animali seguita da una pioggia vivificatrice, di fissare, secondo il collaudato modello petrarchesco, l'eterna primavera del giardino incantato, di rappresentare la ferocia degli scontri militari con la precisione di chi conosce anche i trattati di arte bellica.
In conclusione, attraverso un linguaggio spesso ellittico, concentrato, franto (l'enjambement fa la parte del leone), fatto di coppie di antitesi e di anafore, di fraseggio ora prezioso ora prosaico; attraverso il ricorso creativo, anche quando sembra solo «tradurre», alla contaminazione di modelli classici, biblici e romanzi (Virgilio e Petrarca tra i preferiti); attraverso il succedersi del meraviglioso e del verosimile e senza accettare dogmaticamente le poetiche aristoteliche, Tasso alterna il momento epico a quello lirico, l'afflato religioso del cattolico tridentino all'erotismo del corpo femminile, riuscendo a fissare in modo bruciante e polare le contraddizioni sue e del suo tempo.


“la talpa giovedì – il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1992

Casa sul mare. Una poesia di Eugenio Montale


Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.

Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode 
salpa già forse per l'eterno.

da Ossi di seppia, 1925

La Colonna Traiana. Sembra un film di John Ford (Italo Calvino)

Italo Calvino
Dal volume Collezione di sabbia di Italo Calvino (editore Garzanti), presentiamo alcuni stralci dal testo intitolato La colonna Traiana raccontata. Si tratta del resoconto di una visita compiuta nel 1981 dallo scrittore, in compagnia di Salvatore Settis, al famoso monumento romano.
Colonna Traiana - La resa dei Daci
Il racconto comincia rappresentando la situazione immediatamente precedente all'inizio della campagna, quando i confini dell'Impero erano ancora sul Danubio. La striscia narrativa s'apre (...) col paesaggio d'una città romana fortificata sul fiume, le mura, la torre di guardia, i dispositivi per le segnalazioni ottiche in caso d'incursione dei Daci (...). Tutti elementi che devono creare un effetto d'allarme, d'attesa, di perìcolo, come in un western di John Ford. Sono cosi poste le premesse per la scena seguente: i Romani che attraversano il Danubio su ponti di barche per attestarsi sull'altra sponda.
Il protagonista del racconto è naturalmente l'imperatore Traiano in persona, raffigurato sessanta volte in questi bassorilievi; si può dire che ogni episodio è segnato dalla ricomparsa della sua immagine. Né l'aspetto fisico né l'abito presentano segni distintivi; è la posizione in rapporto agli altri che lo denota senz'ombra di dubbio. Se ci sono tre figure togate, Traiano è quello in mezzo; (...) se c'è una fila di persone, Traiano è il primo (...); egli si trova sempre nel punto in cui convergono gli sguardi degli altri personaggi (...). Tutto è molto preciso: i legionari sono contraddistinti dalla lorica segmentata (una corazza a strisce orizzontali); mentre è un giubbetto di cuoio quello che portano gli "auxilia", dall'armamento più leggero. Poi ci sono i mercenari appartenenti a popolazioni assoggettate, a torso nudo, armati di clava, con fattezze che indicano la loro provenienza esotica.
Più incerta la classificazione degli alberi, rappresentati in forma semplificata e quasi ideogrammatica, ma raggruppabili in un ristretto numero di specie ben distinte (...). Gli alberi sono l'elemento di paesaggio che più ricorre; e spesso li si vedono cadere sotto le scuri dei taglialegna romani: per fornire di travi le fortificazioni ma anche per far posto alle strade: l'avanzata romana s'apre la via nella foresta primigenia cosi come il racconto scolpito s'apre la via nel blocco di marmo.
Anche le battaglie sono ognuna diversa dall'altra, come nei grandi poemi epici. Lo scultore le fissa sinteticamente nel momento in cui se ne decidono le sorti, impaginandole secondo una sintassi visuale di netta evidenza e una grande eleganza e nobiltà formale: i caduti in basso come un fregio di corpi riversi sul bordo della striscia, il movimento delle schiere che si scontrano, con i vincitori in posizione dominante, più in su ancora l'Imperatore e, in cielo, un'apparizione divina.
La rotta dei Daci non è scomposta, ma mantiene pur nell'affanno una dignità dolente; fuori dalla mischia due soldati daci stanno trasportando un compagno ferito o morto; è uno dei luoghi più belli della Colonna Traiana e forse di tutta la scultura romana (...) Poco più sopra, tra gli alberi d'un bosco, il re Decebalo contempla con tristezza la sconfitta dei suoi. Nella scena seguente un romano con una torcia appicca l'incendio a una città dei Daci. E' Traiano in persona che gli da l'ordine, lì in piedi dietro a lui. Dalle finestre escono lingue di fiamme (...) mentre i Daci si danno alla fuga. Già stiamo per giudicare spietata la condotta di guerra romana, quando osservando meglio vediamo sporgere dalle mura delle città dace dei pali con infitte delle teste mozzate. Poi Traiano riceve un'ambasceria dei nemici. Ma ora abbiamo imparato a distinguere tra i Daci quelli col "pilleus" (berrettino tondo) che sono i nobili, e quelli che portano scoperte le lunghe chiome, cioè la gente comune. Ebbene, l'ambasceria è composta di teste chiomate; per questo Traiano non l'accetta (il gesto con tre dita è un segno di rifiuto); certo egli esige contatti a più alto livello (...).
Apparizione insolita, in questa storia tutta maschile come tanti film di guerra, ecco una giovane donna dall'aria desolata su una nave che s'allontana da un porto. C'è folla che la saluta dal molo, e una donna protende un bambino verso la partente, certo un fìglioletto da cui la madre è costretta a separarsi. Le fonti storiche chiariscono il significato della scena: costei è la sorella del re Decebalo, che viene mandata a Roma come preda di guerra. La spirale gira e segue insieme lo svolgersi della storia nel tempo e l'itinerario nello spazio, per cui il racconto non ritorna mai negli stessi luoghi (...).
Dopo la battaglia finale della prima campagna dacica, si vede Traiano ricevere la supplica dei vinti, uno dei quali gli abbraccia i ginocchi. Anche re Decebalo è tra i supplici, più discosto e dignitoso. Una Vittoria alata separa la fine del racconto della prima campagna dall'inizio della seconda, con Traiano che s'imbarca dal porto d'Ancona. Ma qui per ora terminano le impalcature e non ho potuto vedere come va a finire.


Da un ritaglio da “L'Espresso” senza data, ma 1988

Così l'Urlo di Ginberg venne soffocato (Debora Borgognoni)

Il sito letterario “Asterischi.iT” presenta una rubrica di news che contiene, oltre alle notizie di oggi, anche “notizie di ieri”, cronache di precisi momenti di storia letteraria. Ho trovato assai bella questa rievocazione dell'impatto che ebbe nell'America degli anni del maccartismo l'Urlo di Ginsberg. Ne suggerisco la lettura. (S.L.L.)
Allen Ginsberg
Ebbene sì, l’Urlo è stato soffocato, ieri 25 Marzo 1957, con un processo per oscenità nei confronti dell’editore Lawrence Ferlinghetti. Partiamo dal 7 ottobre 1955, un anno e mezzo fa, quando Allen Ginsberg legge per la prima volta in pubblico il suo poema Urlo. Ci troviamo alla Six Gallery di San Francisco, Frisco per gli addetti ai lavori, una piccola galleria d’arte all’interno di una vecchia officina meccanica tra la Union e la Fillmore Street. Ginsberg lo legge, gli ascoltatori lo osannano. Urlo viene pubblicato da Lawrence Ferlinghetti un anno dopo, nell’autunno 1956. La raccolta di poesie di Ginsberg diventa il cult della Beat Generation.
In questi sei mesi abbiamo sentito molte storie su di lui. Allen Ginsberg è il poeta visionario, rimbaudiano perché la “nuova visione” che muove la sua poetica è un’eredità ricevuta da Arthur Rimbaud. È l’ascoltatore incantato che sostiene di aver tratto ispirazione da William Blake, in un misero appartamento di Harlem nel 1948. È il fumatore di peyote che si sbarazza dei cliché e sperimenta un linguaggio fatto di esperienze, associazioni d’idee, allucinazione, interferenze emotive date da chi gravita nella sua immediata orbita. E Urlo diventa così la pietra dello scandalo.
Col suo ritmo isterico e apparentemente a briglie sciolte, Ginsberg costruisce con estrema lucidità quattro parti distinte. La prima è un collage di immagini mischiate che ruotano intorno a esperienze reali, descrizioni di persone conosciute, artisti, poeti, pazienti psichiatrici. «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude, trascinarsi nei quartieri negri all’alba in cerca di un sollievo astioso […]». La seconda parla dell’America, immensa e sporca, un gigante imbruttito che Ginsberg chiama Moloch e «il cui sangue è denaro». «Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha spaccato il cranio e ha mangiato i loro cervelli e la loro immaginazione? Moloch! Solitudine! Sporco! Bruttezza!». La terza è una sorta di lettera a Carl Solomon, poeta dadaista che decide volontariamente di farsi internare nell’ospedale psichiatrico di Rockland. È un canto ripetitivo, impregnato di speranze ma paure condivise. «Carl Solomon […] sono con te a Rockland dove siamo grandi scrittori sulla stessa orribile macchina da scrivere. […] Sono con te a Rockland dove abbracciamo e baciamo gli Stati Uniti sotto le lenzuola gli Stati Uniti che tossisce tutta la notte e non ci lascia dormire. […]» La quarta è la nota finale in forma mistica, dove il mantra Holy! sembra lasciare aperto uno spiraglio all’ottimismo e all’arte. 
Eppure «il migliore poema del giovane gruppo», come dichiarato dal poeta Richard Eberhart sul “New York Times”, è appena stato censurato, con il risultato di 520 copie ritirate e un processo nei confronti dell’editore. E se Moloch non ha capito l’importanza di questo urlo, sta a noi leggere le parole che la giovane Beat Generation ha trasformato in poesia cruda e visionaria. «visioni! presagi! allucinazioni! miracoli! estasi! portati via dal fiume americano! Sogni! adorazioni! illuminazioni! religioni! l’intero bastimento di stronzate emotive!».

La “pina Marì”. Dedicato a Maria Romanelli

Maria Romanelli è una mia simpatica conoscenza telematica, con cui scambio tramite fb scampoli di dialogo, saluti, auguri, link. L'altro giorno - era il suo compleanno – ho scoperto che i più intimi la chiamano “Pina”, il che (come sotto spiego) mi ha riportato alla mente immagini della primissima infanzia. Le ho perciò dedicato le righe che ho scritto e qui ripropongo lievemente rimaneggiate. (S.L.L.)

Conobbi, bimbo, una sorella di mia bisnonna di nome Maria. Vedova, senza figli, coperta da un antico scialle, nero, veniva a trovare la mia giovanissima mamma. La cosa che più ricordo, oltre all'abito nero e allo scialle, è che, quando ero malato (ai bambini capita), mi teneva in braccio infagottato per farmi sudare, convinta che così si combattesse la febbre e la malattia.
Al mio paese c'è un modo affettuoso di chiamare gli zii e le zie (e anche i prozii e le prozie): si dice pinu e pina. E la cosa non ha alcun rapporto con il nome di Giuseppe o Giuseppina: lo zio Melchiorre è pinu Marsioni, la zia Elisabetta è pina Sabé. Ziu o il tronco , zia o il tronco zà, come apposizione, spesso non hanno invece il valore di zio, ma sono appellativi di rispetto, che si estendono a persone senza alcun legame di parentela. Accadeva così che si chiamasse zì Totò il cartolaio di nome Salvatore dove acquistavi inchiostro e pennini, e pinu Totò il proprio zio paterno che portava lo stesso nome. Quella vecchissima zia, dunque, da mia madre, mia nonna e anche da me era chiamata pina Marì.
Ho scoperto, qui sul tuo diario, che qualcuno chiama Pina anche te, cara Maria Romanelli. L'accostamento di Pina e Maria ha fatto riaffiorare in me questo ricordo, uno dei più lontani. Te ne ringrazio e te lo regalo per il compleanno. Tante cose belle a te e a tutti i tuoi cari.


Da fb, 24 novembre 2014  

La canzone francese. Breve storia (Giovanni Vacca)

Edith Piaf
Quella che siamo soliti chiamare «canzone francese», quella di Edith Piaf e di Juliette Gréco, di Trenet e di Brassens, è il prodotto di una cesura storica: essa nasce, tra gli anni 30 e gli anni 60 del secolo scorso, come canzone «moderna» (interna cioè alle dinamiche produttive dell'industria culturale), sul dissolvimento e la defunzionalizzazione di un repertorio «popolaresco» urbano prevalentemente diffuso a Parigi.
È soprattutto nella periferia parigina, dunque, che è rintracciabile la presenza di un tipo di canzone «urbana» legata al tempo libero di una classe operaia fordista in formazione, una classe che da un lato vive, quindi, di balli di fine settimana, al suono della fisarmonica e al ritmo della valse musette, dall'altro conserva tratti culturali da vecchia società contadina (e quindi, per restare nel nostro ambito, utilizza la musica in senso «funzionale», mantenendo in uso forme come ninne nanne, canti di lavoro, canti rituali, ecc.).
In città esistevano, invece, diverse tradizioni: una tradizione di canzone «letteraria», partita dai caveaux settecenteschi , le cantine dei primi cabaret (ne rimane traccia nell'opera di Pierre De Béranger, forse il primo chansonnier, attivo nella prima metà dell'Ottocento); una di tipo «artigianale», prodotta dalle goguettes, associazioni di operai e artigiani del nascente movimento socialista (a cui si può aggiungere la canzone «militante» legata all'esperienza della Comune di Parigi, e dalla quale venne fuori L'internationale); una «satirico-cronachistica», proveniente dalla strada e venduta su fogli volanti (detti canard e anche petits formats) nei pressi del Pont-Neuf.
Tutti questi repertori erano diffusi prima dell'avvento della industrializzazione nella musica ed erano costruiti su modalità espressive e contenutistiche molto diverse da quelle della canzone francese moderna, a cominciare dalla consuetudine di adattare testi diversi alla medesima melodia di autore anonimo. Punto di contatto tra la vecchia e la nuova canzone può essere considerato Aristide Bruant, il cantante immortalato da Toulouse-Lautrec in una celebre serie di ritratti.
Bruant si esibisce nei café-chantant e registra, intorno al 1910, gran parte del suo repertorio: può essere considerato perciò, a tutti gli effetti, un artista «moderno», che si serve dei canali dell'industria dello spettacolo. Eppure Bruant è oggi di difficile ascolto, risultando monocorde e ripetitivo: le sue canzoni, composte su melodie molto semplici, sillabiche e prive di modulazioni, consistono in una serie di strofe senza ritornello, spesso su ritmi di marcia, con una «chiusa» finale di «cadenza» che ne svela il carattere corale, funzionale al canto collettivo in ambienti piccoli. Bruant insomma, pur moderno, mantiene i tratti della «vecchia» canzone, e anche l'interpretazione «straniata» e rauca, e i contenuti dei testi dei brani lo confermano, rifacendosi tanto alla satira antiborghese quanto alla vita dei faubourgs, le periferie parigine, con i loro drammi, i loro codici di vita e i loro «eroi», le vecchie figure della marginalità sociale che l'artista trasfigura romanticamente.
La canzone propriamente «moderna» che seguirà, ha, invece, tutt'altre caratteristiche: la musica è maggiormente sviluppata (soprattutto in senso melodico e ritmico), i testi si fanno più effimeri, vengono «interpretati» (e, quindi, «sottolineati» dal gesto e dalla mimica) e, soprattutto, la sua durata è più breve perché deve essere incisa su disco. È inoltre provvista di «ritornello», che in un'epoca di «percezione distratta», quale quella della modernità compiuta, funge da formula mnemonica, punto di ancoraggio al prodotto di consumo.
È questa la canzone di Fréhel, e successivamente di Maurice Chevalier e di Mistinguett, connotata, anche linguisticamente, dalla parlata popolare dei faubourgs. Intanto Parigi ha cambiato faccia ormai da tempo: ci sono stati gli sventramenti e la ristrutturazione urbanistica dei boulevards, voluta dal prefetto Haussmann, che ha cancellato il centro storico e incorporato le periferie omologandone le specificità culturali; la nostalgia trova perciò ampio spazio nelle canzoni, anche in rapporto all'emigrazione, insieme all'esaltazione acritica della «ville plus belle du monde», la Parigi del divertimento e della vita notturna.
E anche quando i contenuti dei testi restano improntati a tematiche «sociali» (è il caso di Edith Piaf, ad esempio) essi vengono neutralizzati dal linguaggio che viene utilizzato e da un descrittivismo che tende al bozzetto e al patetismo. È tenendo conto di tutto questo, che si può cogliere la «rivoluzione operata dagli chansonniers»: Brel, Brassens, Vian e, soprattutto, Ferré. Con la formazione di un nuovo pubblico, un'intellighenzia critica e consapevole (e soprattutto dotata di notevole potere d'acquisto), e in un'implicita strategia di compromesso con l'industria della musica (massima libertà espressiva in cambio di consistenti vendite), nasce dunque, negli anni '50, la «chanson éngagée», destinata a ridisegnare interamente l'oggetto- canzone facendone un modello per l'Europa intera, soprattutto per l'Italia.
Il «padre» della moderna canzone francese è Charles Trenet. Se nella sua produzione non mancano riferimenti alla vita «faubourienne», Trenet inaugura in realtà un linguaggio nuovo e ironico, fatto di non-sense, di malizia, di gioia di vivere: in debito con «le fou chantant», come verrà definito, saranno quasi tutti quelli che verranno. La figura dello «chansonnier» vero e proprio nasce nell'immediato secondo dopoguerra, in pieno esistenzialismo, con Léo Ferré e, subito dopo, con Boris Vian, Georges Brassens, Jacques Brel (senza dimenticare Jean Ferrat e, soprattutto due «disimpegnati» come Charles Aznavour e Gilbert Bécaud).
La prima novità è che essi cantano direttamente le loro composizioni, senza passare necessariamente per la mediazione dell'interprete (e sono quindi chanteurs-compositeurs-interprètes). Affiancati da poeti «di professione», come Prévert, Eluard, Aragon, che scrivono anch'essi occasionalmente testi di canzoni (per Juliette Gréco, ad esempio, all'epoca «musa» dell'esistenzialismo), gli chansonniers rompono definitivamente con la prima canzone moderna, futile o nostalgica, dando grande importanza ai testi e legandoli alle tematiche dell'attualità politica, o comunque utilizzandoli in chiave contestativa verso i valori della borghesia, nel quadro di una società che stava rapidamente cambiando e che di lì apoco avrebbe vissuto i moti giovanili del 68.
La forma della canzone, e la sua durata, rimarranno inizialmente le stesse, ma con l'avvento del formato del long playing fu possibile, lo fece soprattutto Léo Ferré, dilatare i tempi dei brani e sperimentare nuove possibilità espressive. Anche il linguaggio fu aperto a inedite suggestioni: il turpiloquio, che aveva già fatto parte della canzone francese, e l'argot, il gergo parigino, furono recuperati, ma la parola cruda della strada e del sottoproletariato fu usata con una forza mai conosciuta prima, con riferimenti diretti al sesso, alla morte, alla violenza.
Musicalmente gli chansonniers presentavano un panorama estremamente composito, utilizzando (dalle canzoni per voce e chitarra di Brassens, apparentemente monotone ma in realtà ricche di riferimenti ai più disparati generi, compreso il rock and roll, alle grandi orchestrazioni di Ferré) sia i ritmi della canzone popolaresca che quelli provenienti da altre tradizioni. 
La canzone francese, per come l'abbiamo intravista, «muore», o meglio si esaurisce, con l'avvento della musica rock, che sacrifica la parola al suono amplificato, sostituisce «la voce urlata» al canto e richiede, in generale, testi più stringati e immediati: nonostante qualche felice connubio (lo straordinario Ferré con gli Zoo, ascoltabile anche in una bellissima versione in italiano), essa richiedeva tutt'altro tipo di ascolto e di contesto, e quelli che sono stati indicati come gli ultimi suoi rappresentanti (Renaud, Francis Lalanne, Bernard Lavilliers, ad esempio), pur bravi, sono già altra cosa.

Alias - il manifesto, 9 luglio 2004

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