30.11.10

Comunisti italiani del 900. Luigi Pintor (di Eros Barone).

Il compagno Eros Barone mi trasmette una sua acuta lettura della vicenda politica e umana di tre grandi comunisti italiani del Novecento, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda e Luigi Pintor, partendo dalle loro autobiografie. Così la presenta: “Avendo contratto, negli anni della militanza politica, un consistente debito intellettuale e morale con protagonisti e, insieme,  testimoni retrospettivi del ‘secolo breve’ (1914-1991), quali Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Luigi Pintor, ho ritenuto op-portuno attendere che il clamore suscitato dalla pubblicazione delle opere di carattere autobiografico composte da tale triade italo-marxista si estinguesse per pagare quel debito, per così dire, in un colpo solo e a ciglio asciutto”.
Propongo il testo di Barone ai frequentatori di questo blog in due parti relativamente autonome, la prima dedicata a Ingrao e Rossanda, la seconda a Luigi Pintor. (S.L.L.)
La vita di Luigi Pintor (1925-2003) attraversa, a partire dal periodo fascista, dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza, tutta la seconda metà del Novecento, legandosi per un lungo tratto, sino a quando non ne venne radiato nel 1969, al Pci, del quale questo intellettuale sardo fu dirigente, giornalista e deputato. Naturalmente, la fama di Pintor è soprattutto legata, così come quella della Rossanda, alla fondazione del “manifesto”, che fu prima una rivista, poi un partito e infine un giornale. La fisionomia che ha contraddistinto la personalità di Pintor è stata quella propria di un intellettuale illuminista e giacobino, di un polemista corrosivo, di un urticante moralista, di un tenace, inquieto ed elegante interprete della direttiva gramsciana sul pessimismo dell’intelligenza e sull’ottimismo della volontà.
In Servabo, un secco e nitido autoritratto del 1991, Pintor rievoca le scoperte culturali che segnarono la sua adolescenza: Vittorini, Pavese e, in particolare, Melville, rappresentante eponimo della narrativa americana, che restò sempre uno dei suoi autori prediletti; vi era poi la musica, una passione di famiglia: «Per tutta la vita», racconta, «mi sono tirato dietro, di casa in casa, un pianoforte».
L’attività di Pintor fu quella tipica degli intellettuali “organici” all’interno del Pci: giornalista dell’“Unità”, prima come redattore politico, poi come condirettore dell’edizione di Roma; membro dell’Ufficio di segreteria del partito, consigliere provinciale a Roma e, nel 1968, deputato della Camera, eletto in un collegio sardo. Quando, nel Pci, l’ala sinistra rappresentata dai seguaci di Pietro Ingrao, il leader sconfitto all’XI congresso nel 1966, si pose come nucleo di una opposizione interna, fra i suoi esponenti vi furono Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Aldo Natoli. Dopo la radiazione dal partito, nel giro di due anni la rivista si trasformò in quotidiano: era na-to così “il manifesto”, che Pintor, guardando, per un verso, alla nuova stagione politico-culturale del Sessantotto e richiamandosi, per un altro verso, «alla grande esperienza dell’“Unità” dell’immediato dopoguerra, che ebbe un afflusso di nuovi quadri  venuti dalla Resistenza», ebbe a definire «uno strumento di intervento continuo, di informazione continua, di presenza e battaglia continue». Nei decenni successivi Pintor, dopo essersi avvicinato al Pci, nelle cui liste sarà eletto deputato “indipendente” nel 1987, si distaccherà dal Pds, la formazione politica nata nel 1991 dalla liquidazione del Pci.
È questo il periodo in cui Pintor rivela quelle straordinarie doti di editorialista e polemista, nonché quello spirito lucido e caustico, che lo hanno reso una delle penne più scarnificanti e temibili del giornalismo politico-culturale italiano. Gli editoriali che egli veniva scrivendo, una scelta dei quali apparve in un volume del 2001 intitolato “Politicamente scorretto”, erano spesso ironici, caratterizzati da quel “sarcasmo appassionato” che Gramsci faceva risalire a Lenin e che il grande comunista sardo aveva impersonato in modo esemplare. Simili a parabole laiche e a fulminanti epigrammi, esprimevano la stessa felicità di scrittura e lo stesso distacco raffinato e dolente che Pintor rivelava nelle sue memorie, dal già citato Servabo (1991) alla Signora Kirchgessner (1998) al Nespolo (2001).
Pintor, poco prima di spegnersi, scrisse sul “manifesto”, il 24 aprile del 2003, un editoriale che cominciava con questa constatazione: «La sinistra italiana che conosciamo è morta». Era fatto così; pensava, esattamente come Gramsci, che la verità, anche la più ostica e dura, è sempre rivoluzionaria. Tuttavia, se un simile epitaffio merita di essere ricordato perché i fatti successivi lo hanno, purtroppo, ampiamente confermato, vi è un altro bellissimo ricordo con cui vale la pena di concludere questo profilo di Luigi Pintor. Tanti anni fa, a Roma, due bravi e coraggiosi gappisti, Alfredo Reichlin e Luigi Pintor, scappavano inseguiti dai fascisti; sennonché Luigi, cui nella corsa era caduta una cosa dalla tasca, si voltò e tornò indietro; a quel punto, vista quella repentina inversione di marcia, i fascisti si arrestarono e, a loro volta, scapparono. L’episodio, riferito da Reichlin, va tenuto presente; il suo senso è un monito rivolto a chi ancora coltivi una qualche idea della sinistra: la si smetta di scappare sotto altre insegne (da ultimo, sotto quelle del Partito democratico), si ripensi al passato e ci si giri, smettendola di fuggire e di travestirsi.

Comunisti italiani del 900. Pietro Ingrao e Rossana Rossanda (di Eros Barone).

Il compagno Eros Barone mi trasmette una sua acuta lettura della vicenda politica e umana di tre grandi comunisti italiani del Novecento, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda e Luigi Pintor, partendo dalle loro autobiografie. Così la presenta: “Avendo contratto, negli anni della militanza politica, un consistente debito intellettuale e morale con protagonisti e, insieme,  testimoni retrospettivi del ‘secolo breve’ (1914-1991), quali Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Luigi Pintor, ho ritenuto op-portuno attendere che il clamore suscitato dalla pubblicazione delle opere di carattere autobiografico composte da tale triade italo-marxista si estinguesse per pagare quel debito, per così dire, in un colpo solo e a ciglio asciutto”.
Propongo volentieri il testo di Barone ai frequentatori di questo blog in due parti relativamente autonome, la prima dedicata a Ingrao e Rossanda, la seconda a Luigi Pintor. (S.L.L.)
Parto dalle impressioni che ho ricevuto leggendo le memorie rossandiane intitolate La ragazza del secolo scorso (Einaudi, 2005), in cui l’autrice racconta le vicende non solo di una militante e di una dirigente comunista, ma anche di una ragazza e di una donna formatasi a cavallo tra la prima e la seconda metà del Novecento: di una persona che, per esprimerci con le parole usate nel risvolto della copertina di quel libro, ha vissuto “la politica come educazione sentimentale”. Si tratta di una lettura coinvolgente, lucida e profonda, come sa chiunque abbia dimestichezza con lo stile, la struttura e il lessico che caratterizzano gli articoli della Rossanda che appaiono sul quotidiano “il manifesto” (si pensi all’ultima serie di questi articoli, come sempre icastici e illuminanti, denominati Note da lontano con un chiaro riferimento alle Lettere da lontano inviate nel 1917 da Lenin ai bolscevichi di Pietrogrado e di Mosca). La ‘Cassandra della sinistra’, epiteto che ben si addice a questa raffinata intellettuale di formazione milanese ed europea nel cui periodare e nel cui argomentare si avverte l’eco della lezione di filosofi come Antonio Banfi, Enzo Paci e Jean-Paul Sartre, mette impietosamente a nudo, sospinta dalla passione demistificante che anima la sua ‘critica-critica’, i difetti, le debolezze e le contraddizioni della sinistra del Bel Paese, a partire da quelli del suo (e nostro) amato Pci, di cui traccia in modo magistrale la parabola storica, politica e ideale, che ha portato questo partito a trasformarsi, attraverso una regressiva metamorfosi, da forza egemonica della Resistenza e del movimento operaio organizzato in partito di opinione social-liberista, del tutto incorporato nelle strutture economiche, politiche e ideologiche del sistema capitalistico-borghese. Sennonché, se l’epiteto di ‘Cassandra della sinistra’ or ora adoperato può apparire eccessivo, si tengano presenti, per bilanciare opportunamente il giudizio critico sulla Rossanda, da un lato il pessimismo, tra sociologico e storico, che è tipico di una certa cultura marxista occidentale, e dall’altro la parallela fisionomia di una Rosa Luxemburg in vesti togliattiane, che integra, sommandosi alla fisionomia indi-cata da quell’epiteto e completandone il profilo, la personalità, ad un tempo indomita, ipercritica e realista, di Rossana Rossanda.
Proseguo quindi, in questa succinta rassegna autobiografica della triade italo-marxista, con Pietro Ingrao, esponente di spicco, assieme al suo indimenticabile ‘alter ego’ Giorgio Amendola, di quella formidabile generazione degli anni Trenta del secolo scorso, per la quale l’adesione al comunismo costituì una ‘scelta di vita’. Con la sua figura che evoca l’aspetto di un augure o di uno sciamano e con la sua esotica cadenza ciociara Ingrao sembra ancora oggi, superata la soglia dei novant’anni, un personaggio ‘cosmico-storico’, quale appariva a noi, giovani militanti comunisti degli anni Settanta, quando seguivamo affascinati, nei comizi di piazza o nelle Feste dell’Unità, i grandi affreschi della ‘struttura del mondo’ che egli faceva nascere da-vanti ai nostri occhi servendosi con impareggiabile maestria delle arti suggestive dell’oratore e del poeta, oltre che degli strumenti di precisione del dirigente politico e del teorico marxista. Sennonché il lettore dell’autobiografia ingraiana Volevo la luna (Einaudi, 2006), che intenda valutare un percorso politico alla stregua dell’efficacia, dovrà prendere atto, oltre che di uno stile intensamente influenzato dalla lezione dell’ermetismo, quale si rivela nel ricorrere di parole-chiave come ‘evento’, ‘intreccio’ e ‘soggettività’, dell’infittirsi, via via che si procede nella lettura di questo resoconto sospeso tra storia e biografia, di parole come ‘errore’ e ‘sconfitta’, che si riferiscono sia alla vita del protagonista che alla storia del comunismo novecentesco. Del resto, nell’indice storico di questo volume dal titolo così impietosamente autoironico trovano posto molti eventi significativi della seconda metà del Novecento: dall’‘indimenticabile’ 1956 (l’aggettivo, divenuto poi il sigillo di quell’‘annus mirabilis’, fu usato dallo stesso Ingrao) all’ondata terroristica che percorse l’Italia negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, sino al crollo, non previsto, dell’Urss. Vi figura perfino un episodio in apparenza minore, ma importante per la sinistra italiana: la radiazione dal Pci, nel 1969, dei dissidenti del “Manifesto” (allora rivista mensile), quasi tutti seguaci della sinistra ingraiana.
Né sono da dimenticare, tra gli episodi che hanno reso esemplare e, nel contempo, comune a tanti altri ‘ragazzi del secolo scorso’, la formazione di queste personalità eminenti, tanto quello che, con simpatica spavalderia, ricorda Ingrao a proposito dei confronti giovanili tra le “generose erezioni”, susseguenti al risveglio dal sonno, nella camerata di una caserma, quanto quello che la Rossanda ha il coraggio filiale (e la sapienza simbolica) di raccontare con un misto di inesorabile durezza materialistica e di meravigliosa levità femminile: l’esumazione della salma della madre al cimitero di Milano. “… trovammo un cranio perfetto, aggraziato… e perfette le falangi delle belle mani composte, che si sbriciolarono all’aria. Ma il torso era intero, come di cartapesta, mummificato dal nylon e dall’umidità di quella terra. Ci riprendemmo quando il becchino alzò la vanga per spezzarlo. Lo rompemmo noi con le mani, era leggero come un pane, una bambola o larva”.

Il compagno Fabrizio (Gianna Nannini su De André - da "A-Rivista anarchica" - marzo 1999)

Cercando altro, trovo in rete sul n. 252 di marzo 1999 di "A-Rivista anarchica" ( http://www.arivista.org/ ) un giudizio e una testimonianza su Fabrizio De Andrè di Gianna Nannini dal titolo Una mattina prendo la moto. Mi colpisce il riferimento all'oralità e a Omero. Anche per questo ripropongo il pezzo, in attesa di approfondimenti. (S.L.L.)
Fabrizio lo conoscevo da più di vent’anni e dai miei vent’anni. Infatti la prima volta che ci siamo visti me ne ero appena andata di casa e già vivevo a Milano. Stavo alle prime incazzature per i dischi... con la Ricordi, la sua stessa casa discografica e credo che la prima volta lo vidi proprio lì. In quel periodo tutti e due piacevamo ai "tedeschi" e sapevo che anche lui era stato "esportato". Una mattina prendo la moto e vado a trovarlo in Sardegna, e attraverso i boschi scopro la sua casa-azienda agricola. Si beve, si mangia, si scherza, si ride, si parla delle parole dei suoni della voce. Era l’estate del ‘79...
Per me la sua voce è un "marchio sociale", una sorta di tatuaggio nell’aria, forse anche per il modo che ha di dare musicalità alla parola, di costruirne i segni grafici.
È qualcosa che mi fa pensare alle culture orali, a Omero. Prima che la cultura diventasse scritta le espressioni linguistiche che si imparavano di bocca in bocca valorizzavano la sonorità della parola che rimaneva nella memoria, proprio perché questa non si staccava dal suo ambiente fisico. Immagino come, nel suo instancabile ricercare, Fabrizio non si sia mai accontentato e abbia continuato a "parassitare" di rumore le sue parole: dal suo accostamento al rock con la PFM fino alle scelte dialettali e alla sua meticolosa quasi rigida ricerca strumentale etnica. Non ho una conoscenza approfondita del suo repertorio. A me piace avere davanti la persona, il compagno Fabrizio nel suo lato più libero del termine. Per chi l’ha saputo conoscere è stata una fortuna, un ottimo scontro-confronto, che a me ha dato una forte carica per difendere la musica in maniera sempre più autonoma e una sincerità più radicale nel comporre.

Il crac del 29 (e la crisi d'oggigiorno)

"La Stampa" del 31 ottobre scorso, per annunciare la disponibilità digitale del proprio archivio storico, ha ripreso alcuni articoli del quotidiano torinese, pubblicati in occasione di grandi eventi nazionali ed internazionali del secolo trascorso. Vi si ritrova anche il commento di Alfredo Signoretti, qui sotto postato, sul crac della borsa di New York, del 31 ottobre 1929, commento ragionevole e in sostanza assai critico verso i fasti del capitalismo finanziario, con un finale ottimistico sulle sorti europee totalmente smentito da quanto poi accadde. Forse il Continente antico forse non si lasciò più attrarre "dai fuochi fatui di speculazione americana", ma la crisi economica e produttiva ebbe tra i suoi esiti l'ascesa al potere di Hitler, il diffondersi di "fascismi" in molti paesi e infine una guerra catastrofica.
Il confronto con i tempi nostri s'impone. Anche al giorno d'oggi ci hanno raccontato che alcuni Stati europei, come l'Italia, nonostante la globalizzazione finanziaria e il forte indebitamento pubblico, avrebbero retto bene. I fatti ci mostrano che il gioco della speculazione non si è affatto interrotto ed esso si rivolge contro i paesi a moneta euro dai deficit più gravi, i cui titoli di stato si prestano ai giochi borsistici. Non è inverosimile che ancora oggi ci sia chi, speculando, lucra guadagni favolosi. E che l'Italia sia al sicuro è una favola. Bisogna dirlo, anche se ci prenderanno per anti-italiani. Tra l'altro questo governo, col concorso idiota di gran parte di questa opposizione (il Pd e l'Idv), ha privato lo Stato di uno dei suoi punti di forza. Molti di quei beni che, in quanto estrema garanzia, rendevano più affidabili i titoli del debito pubblico sono stati, col federalismo demaniale, devoluti alle Regioni per la gioia dei leghisti. Nella loro stupida logica nordista Bossi e i suoi lanciano al loro elettorato il messaggio dell'egoismo: "Fallisca pure l'Italia, noi non falliremo". Non è così: senza il Sud come mercato privilegiato di sbocco fallirebbero anche molte industrie e imprese settentrionali, ma Bossi e i suoi sono troppo nazistoidi per comprenderlo. A prendere voti e accaparrarsi potere la demagogia populista è un grande aiuto e nulla importa loro della crisi. (S.L.L.)
I rapidi precipitosi tracolli della Borsa di New York che senza dubbio è, dopo la guerra, la Borsa più importante del mondo, sono la fatale conseguenza di una inflazione speculativa che aveva invaso le categorie sociali più diverse e che aveva portato ad un paradosso economico insostenibile a lungo andare. La Borsa invece che essere il riflesso dello specchio dell'andamento della vita produttiva, aveva preso il sopravvento sullo forze vere delle creazioni quotidiane e faticose della ricchezza, spostando artificiosamente rapporti e situazioni di imprese: era il giuoco di azienda, la partita di baccarat che per una infinità di gente costituisce lo sforzo tenace per la conquista di una esistenza migliore. Alcuni mesi or sono la Banca Federale degli Stati Uniti era intervenuta per frenare questa corsa frenetica alla speculazione prima con ammonimenti, poi, perché questi restavano inascoltati, rincarando il prezzo del danaro specialmente nei riporti a corta scadenza.
Vi fu già allora un allarme; sembrò per un momento che tutta l'attività borsistica dovesse ritornare ad una più reale comprensione delle cose: ma l'illusionismo della folla per il miracolismo finanziario è uno dei fenomeni di psicosi sociale più difficile a vincere ed a convincere. La scalata pazza all'albero di cuccagna e' continuata col favore di pochi grandi speculatori per cui il guadagno favoloso consiste nell'ampio e precipitoso ondeggiamento delle quote, sia che essi seguano la linea del rialzo o quella del ribasso. Cosi è avvenuto quello che doveva avvenire: il bubbone è scoppiato. I ribassi si valutano a diecine di miliardi di dollari, infinite ricchezze fittizie sono crollate in un baleno. L'avvenimento avrà del resto ripercussioni internazionali che si prevedono benefiche per i mercati europei dato che l'oro del nostro Continente non sarà più attratto dai fuochi fatui di speculazioni americane.

La parola. Una poesia di Emily Dickinson

Una parola è morta
Quando è detta -
C'è chi dice così.

Io dico invece
Ch'essa comincia a vivere
Proprio quel giorno.

Borges in Sicilia (di Agostino Spataro)

Maria Kadama e Agostino Spataro (da una foto di Nicoletta De Guglielmi)
Di ritorno dall’Argentina, a fine ottobre, il mio antico compagno ed amico Agostino Spataro, oggi ottimo giornalista, mi ha mandato per mail il resoconto di una sua intervista con Maria Kodama, la vedova di Borges, corredato di alcune belle immagini. Tema del dialogo il rapporto del grande scrittore latino-americano con la nostra Sicilia, con la Sicilia del mito e del sogno. Ne posto qui una parte, rimandando per una lettura integrale dell’articolo al sito del quotidiano “la Repubblica”, ove è stato pubblicato il 26 ottobre scorso (S.L.L.).
Borges a Bagheria (foto di F. Scianna)

Ricordo che Borges era molto contento di andare in Sicilia. Per lui era una sorta di viaggio iniziatico alla scoperta di Palermo, la città da cui si origina il nome del suo barrio natale, e dell’Isola di Omero e dei filosofi greci a lui tanti familiari, fin da bambino.
Così Maria Kodama, vedova di Jorge Luis Borges, mi parla del loro viaggio a Palermo, in Sicilia, nel marzo del 1984 dove il grande scrittore e poeta argentino fu insignito de “La rosa d’oro” un premio istituito dalla casa editrice palermitana “Novecento”.
La signora Kodama è stata per lo scrittore compagna di vita e di lavoro, collaboratrice preziosa e intelligente; e anche la vista dei suoi occhi spenti.
Oggi, è la più fedele custode dei suoi ricordi; vive per Borges, per far conoscere la sua vasta opera, il suo pensiero. A questo scopo, oltre a dare interviste e a presenziare a premi e a simposi in giro per il mondo, ha creato, a Buenos Aires, il Museo e la Fundacion internacional J.L.Borges.
[…] Mentre l’auto svicola nel traffico torrenziale dell’Avenida 9 de Julio (la più larga del mondo) cominciamo a parlare della Sicilia. La signora Kodama si abbandona ai ricordi, ancora nitidi, minuziosi. Dopo ventisei anni, ne conserva una memoria davvero formidabile. Parla di fatti specifici e cita nomi di persone e di luoghi come se l’avesse incontrati il giorno prima: Villa Igiea, via Libertà, Agrigento, Selinunte, Domitilla Alessi e Umberto di Cristina (una pareja meravigliosa, dice), Ferdinando Scianna, ecc.
Mi prega di non registrare perché desidera parlare liberamente di alcune battute ironiche di Borges, di taluni episodi un po’ farseschi capitati durante quel soggiorno. Al ristorante dell’aeroporto – promette - avremmo fatto l’intervista vera e propria.

L’arancia come rappresentazione del mondo
La prima domanda è d’obbligo: Borges, già completamente cieco, come percepì, come “vide” Palermo e i monumenti di Agrigento e Selinunte?

Borges era dotato di una sensibilità speciale che gli permetteva di captare, di vedere le cose al di là delle parole e della vista. Fin da bambino, Borges aveva incamerato tante informazioni ed immagini che ora gli consentivano di “vedere” i monumenti, i templi greci…
A proposito di questa sua precoce formazione la signora racconta un fatto – credo - inedito e alquanto singolare.

Per avviarlo alla cultura classica, alla metafisica il padre gli faceva il “gioco dell’arancia... Gli mostrava un’arancia e gli diceva “guardala bene e poi chiudi gli occhi e immagina. Cos’è l’arancia? La sua forma, il suo colore, il suo profumo…
Insomma, l’arancia come rappresentazione del mondo.

Il nome di Palermo gli ricordava il suo amato barrio natale, nel quale visse la sua infanzia, dove- come scrive nella “Fundacion mitica di Buenos Aires”- è nata la città. Per Borges, Buenos Aires non è nata a la Boca, ma a Palermo…
La controversia ormai è chiarita giacché - come anche noi abbiamo accertato - la Palermo di Buenos Aires prende il nome da Juan Dominguez, uomo d’affari di Palermo, che nel 1582 si trasferì dalla Sicilia alle rive del rio de la Plata.

I templi li ri-conosceva attraverso gli scritti dei filosofi dell’antichità. Ha insistito per visitare le rovine di Agrigento, la patria di Empedocle, e di Selinunte. Mentre accarezzava le colonne mi chiese di leggergli qualche brano di Omero… Così Borges vedeva …

Il Mediterraneo, il mare di Omero e di Virgilio
Oltre i templi c’è il Mediterraneo: il mare di Omero, di Virgilio e delle grandi civiltà.
Sì. Era sempre molto contento di visitare i musei. Mi diceva andiamo dai nostri amici…   (intendendo gli autori delle opere esposte). Al museo di Selinunte si emozionò mentre toccava i vasi, le statue scolpite 25, 20 secoli prima, toccate ed ammirate da migliaia di persone prima di lui.
Il Maestro volle vedere/toccare anche ‘ il mare, che è un deserto splendente, simbolo di cose che ignoriamo…’. Borges era molto felice di questa visita siciliana e molto grato a Domitilla e a Umberto Di Cristina (conosciuti tramite Franco Maria Ricci) che avevano istituito il premio de “La rosa d’oro” praticamente per lui. Un omaggio al suo “La rosa profunda” nel quale Borges confessa di ‘avere perduto(con la vista n.d.r.) soltanto la vana superficie delle cose’ … e continua a pensare con le lettere e le rose… 
La tigre di Borges e la pantera dei palermitani
Anche Domenico Porzio, ch’era al seguito del poeta, ha sottolineato questa speciale sensibilità di Borges il quale, durante la visita al museo archeologico di Palermo, prese ad accarezzare un busto di Giulio Cesare recitando Skakespeare che - secondo lui - doveva essere d’origine italiana giacché nella metafora tendeva troppo all’iperbole …ed era il meno inglese degli scrittori inglesi.
Il racconto, gli aneddoti sono interessanti, ma il tempo stringe […]
Avrei voluto domandarle un parere su cosa avrebbe pensato Borges, che amava tanto le tigri, di quei palermitani spaventati dalla pantera nera che, da qualche mese, appare e scompare come un fantasma in alcuni rioni di Palermo, quasi a voler turbare il sonno di questa città dolente e rassegnata. Ma la signora si è già avviata ai controlli. La saluto e le chiedo se vorrebbe tornare in Sicilia.

Se m’invitate, corro….

29.11.10

Dopo Azio. Il suicidio di Cleopatra (di Chiara Melani)

Il brano che segue si trova a conclusione della biografia di Cleopatra di Chiara Melani edito da Giunti e uscisto insieme alla rivista "Storia e dossier". Racconta, esponendo le diverse ipotesi, della morte della regina egiziana e delle opposte letture della tradizione dell'aspide. Il quadro riprodotto nella copertina del volumetto,  Il suicidio di Cleopatra, è di Robert Arthur, un pittore inglese dell'Ottocento. (S.L.L.) 
Prima che il vincitore di Azio si recasse in Egitto per combattere la battaglia decisiva, Antonio e Cleopatra vissero insieme per quasi un anno, un anno confuso e infelice, durante il quale vennero fatti numerosi, inutili tentativi per assicurarsi una via di scampo e salvare la dinastia.
Dopo Azio le forze armate rimaste erano ridotte a ben poca cosa e i dinasti orientali continuavano a passare al nemico. Si riprese a racimolare ricchezze, equipaggiare milizie, incrementare alleanze. Si tentò di preparare una via di fuga e di intavolare trattative con Ottaviano. al fine poi di garantire all’Egitto e all’Oriente una guida, qualunque cosa capitasse alle loro persone, i due fecero entrare nella maggiore età Cesarione e Antyllus (il figlio che Antonio aveva avuto dalla moglie precedente a Ottavia, Fulvia), secondo le consuetudini tradizionali, greca e romana: Cesarione venne introdotto nell’organizzazione giovanile degli efebi e Antylus indossò la toga virile. In confronto a due bambini, due uomini adulti avrebbero dovuto suscitare ben più timore e rispetto.
Agli inizi del 30 le forze nemiche strinsero l’Egitto in una morsa. Il luogotenente di Ottaviano, Cornelio Gallo, giunse alla frontiera occidentale del paese passando per la Cirenaica, Ottaviano giunse a quella orientale attraverso la Siria. Antonio cercò di fermare prima l’uno e poi l’altro, senza alcun successo. Rientrato ad Alessandria, quindi, si uccise. Cleopatra gli sopravvisse di qualche giorno. Poi ne seguì l’esempio. Aveva trentanove anni.
Ottaviano trasformò l’Egitto in una provincia romana, piegando l’ultimo grande stato indipendente succeduto all’impero di Alessandro Magno. Cesarione e Antyllus furono fatti uccidere, e della dinastia dei Tolomei venne decretata la fine; alla venerazione e alla devozione del popolo egizio Ottaviano le sostituì la propria persona.
Sugli ultimi anni di vita di Cleopatra molte domande son destinate forse a rimaner per sempre senza una risposta. accarezzava davvero l’idea di giungere un giorno a soppiantare Roma sulla scena mediterranea? Tradì Antonio ad Azio, fuggendo a sua insaputa? Lo tradì di nuovo ad Alessandria, intrecciando accordi segreti con Ottaviano alle sue spalle? Le affermazioni degli antichi sono talmente ostili alla regina da sembrare falsificazioni.
E come morì Cleopatra? E’ vero che fu Ottaviano a spingerla al suicidio, presentandole la sgradevole prospettiva di sfilare per le strade di Roma in catene al suo trionfo? Ma soprattutto, fu il veleno di un unguento ad ucciderla o quello di un serpente? Un fermaglio per capelli avvelenato o un aspide nascosto in un orcio, oppure tra i fiori, oppure ancora in un cesto di fichi? Gli antichi già ne discussero a lungo e ancora oggi ne discutono gli studiosi, proponendo tesi sempre nuove. La versione del morso dell’aspide, sostenuta a Roma subito dopo la vittoria, è quella che si è affermata con maggiore successo nell’immaginario collettivo attraverso i secoli. L’aspide era il simbolo della monarchia egiziana, era l’attributo di Iside, della cui iconografia faceva parte, e nell’immaginazione degli antichi romani era l’emblema dell’infido e crudele Oriente, nonché delle passioni amorose smodate. Cleopatra si sarebbe dunque uccisa con le sue stesse armi. L’Oriente e la sua odiata tradizione monarchica, le sue divinità, i suoi vizi si sarebbe rivolto contro se stesso, annientandosi. E il demone levantino sarebbe scomparso dalla storia, lasciando fatalmente spazio al nuovo ordine di Ottaviano Augusto, primo imperatore romano.

La poesia del lunedì. Antonio Ghislanzoni (Lecco 1824 - Caprino Bergamasco 1893)

Proposta di un candidato
Di tutto parla
e nulla sa...
al Parlamento
trionferà.

Antisemitismo cattolico. L'invenzione del ghetto e la persecuzione degli ebrei romani (di Alfonso Maria Di Nola)

Il brano che segue è tratto da un articolo di Alfonso M. Di Nola dal titolo Il delitto della Sacra padella, in "il manifesto", 13 aprile 1986. (S.L.L.)
Papa Paolo IV Carafa

Il ghetto a Roma
Fu un papa ad inventare nel 1555 il ghetto o serraglio o claustro dei Giudei, relegando nel perimetro di soffocanti mura una folla di uomini che già la folla dei suoi predecessori avevano perseguitato duramente e che i teologi cristiani avevano ascritto alla specie zoologica. Si trattava di Paolo IV, personaggio tetro e nefasto, dominato da un delirio di grandezza che piacque, fra l’altro, agli storiografi fascisti, pronti a vedere nelle sue imprese il preannunzio della paranoia mussoliniana.
Gli ebrei erano isolati nel ghetto durante le ore notturne, quando un portiere cristiano, pagato dalla comunità, sprangava i 5 portoni del recinto. Nel recinto gli ebrei non avevano la proprietà delle case, ma, nell’inventività tipica dei derelitti, ottennero alla sede apostolica un particolare diritto di possesso precario, lo jus di gazagà o di “casaccato”, che consentiva di disporre quasi liberamente dell’immobile dopo il pagamento di un tenue affitto iniziale. Ancora nel 1857, poco più di cent’anni addietro, lo spagnolo Emilio Castelar, visitando Roma, scriveva: “In una città simile fa ribrezzo per la sua immondezza il quartiere degli Ebrei; i piedi si immergono in un molle strato di escrementi… fanciulli mezzo ignudi divorati da croste… guizzano da tutte le parti. Alcune vecchie dalla pelle rugosa e giallastra… stanno a guardia delle case che sembrano delle vere e proprie topaie”.

La bolla di Giulio III
Ma già nel 1554 Giulio III aveva già emanato una bolla contro i libri ebraici, in particolare contro il talmud, ordinandone la censura e, in alcuni casi, il pubblico bruciamento, una bolla che nel 1593 era rinnovata con la costituzione apostolica Contra impia scripta di Clemente VIII. La più raffinata tecnica antigiudaica dovrebbe però essere assegnata alla perversione di quel Gregorio XIII, di mentalità ignobile oltre che privo di spirito evangelico, che si compiacque gioiosamente degli eccidi della notte di San Bartolomeo. Gregorio XIII, con due bolle del 1577 e del 1584, stabilì la predicazione coatta agli ebrei fatta da un frate cattolico una volta alla settimana, preferibilmente il sabato. Doveva essere presente almeno un terzo della comunità, e il frate, di solito uno zoccolante, era tenuto a “illuminare” spesso in forma rozza ed ignorante, i passi biblici che erano stati letti nelle sinagoghe nella liturgia del mattino. Il pagamento del predicatore era a carico della comunità. Il sermone era recitato nell’oratorio della Ss. Trinità dei Pellegrini. Appartiene a questa cronaca oscena, che è stata ricostruita da Attilio Milano in un suo celebre libro sul ghetto di Roma, quell’ossequio al papa neoeletto che resiste fino ai princìpi del secolo scorso.
Per molti secoli, dal XIII secolo in poi, una delegazione di Ebrei, guidata dai rabbini, si raccoglieva presso Castel Sant’Angelo, incontrava il Pontefice e , dopo averlo ossequiato, gli presentava un rotolo di pergamena in cui era trascritta la Bibbia, supplicandolo di rispettare quanto in essa era contenuto. Nella risposta di prammatica il papa dichiarava, con tutto il peso del suo potere offensivo, di rispettare l’Antico Testamento, ma di condannare l’interpretazione data dagli Ebrei, giacché il messia in esso annunciato era Gesù Cristo. Il luogo dell’omaggio fu poi spostato, per i secoli successivi, presso l’arco di Tito, all’ombra del quale la comunità era tenuta ad attendere il pontefice: ed era un’ulteriore sottigliezza della violenza prevaricante, giacché gli Ebrei dovevano sostare all’ombra di quel monumento che celebra la sconfitta subita in Palestina e la rovina definitiva della loro nazione.

I ludi carnevaleschi
L’umiliazione più cocente fu la sorte assegnata agli Ebrei romani nei ludi carnevaleschi, quando al Testaccio il più vecchio ebreo veniva rinchiuso in una botte piena di chiodi sporgenti che si faceva poi precipitare dal colle, estraendone alla fine un morto o un moribondo. Paolo II inaugurò nei ludi la corsa dei giovani ebrei lungo l’attuale Corso sino alla sede pontificia, che era il palazzo Venezia. una memoria del 1583 registra: “Lunedì i soliti otto hebrei corsero gnudi il loro pallio, favoriti di pioggia, vento e freddo, degni di questi perfidi mascherati di fango a dispetto delle grida. Dopo queste bestie bipede correranno le quadrupede domane lunedì”.
Ché, poi, gli Ebrei, in questo scenario di ricorrenti frustrazioni, avessero realizzato a Roma un proprio modus vivendi e godessero talvolta di una pace generata dall’adattamento storico, ci pone in presenza di un noto processo di addomesticamento della condizione umana, quale si è verificato in molte altre aree culturali. Ebbero medici chiamati a curare i papi, si sottrassero, con sotterfugi, ai minuti controlli, trovarono innumeri vie per sopravvivere, fino a praticare, come narra il Silvagni, ancora ai princìpi del secolo scorso, il noleggio degli addobbi per la festa del Corpo di cristo. Sono l’altra faccia della storia, i linimenti del male, che resta in tutta la sua assurda imponenza.

Cl a Milano (di Bruno Tabacci)

Massimo Bordin su “Radio radicale”, nel corso della conversazione domenicale con Marco Pannella, ha rivolto a Bruno Tabacci, ospite della trasmissione, una domanda su Cl a Milano con la presidenza Formigoni. Così ha risposto l’esponente di Alleanza per l’Italia:
Sono molto critico. I ciellini li ho frequentati fin dai tempi di don Giussani. Da segretario regionale della Dc avevo aperto loro una porta, nonostante le diffidenze di quasi tutto il clero lombardo, che non gradiva le pesanti critiche di Cl al Cardinale Martini. Oggi temo che siano divenuti una struttura di potere. E le strutture di potere, specie se esibite, non sono testimonianza di fede. Io vedo una disinvoltura eccessiva, una sorta di occupazione del potere; e non dovrebbe essere così: il potere serve per servire. Anche la sede che c’è ora al centro di Milano mi pare una esibizione di opulenza e di forza. C’è poi tanta strumentalità nel rapporto con Berlusconi, nella giustificazione neanche richiesta dei suoi comportamenti. Hanno perfino polemizzato con il direttore di “Famiglia cristiana”, che aveva evidenziato certe aberrazioni. Io sono tutt'altro che un baciapile, ma alcuni ciellini si sono messi a contestualizzare anche le bestemmie per mantenere le relazioni di potere con Berlusconi.

Criminali, disfattisti, anti-italiani (di Gian Antonio Stella)

Gian Antonio Stella
Sul “Corriere della Sera” di ieri, 28 novembre 2010, è apparso un bell’articolo di Gian Antonio Stella dal titolo Il Cavaliere, i media «cattivi» e l’amor di Patria, in pratica un curatissimo collage di citazioni, in replica alle esternazioni di Berlusconi contro i “criminali” , “anti-italiani”, che fanno critiche al governo. Non apprezzo tutti i citati e tutte le citazioni, ma volentieri qui colloco il pezzo, con un titolo diverso, per ricordarmene e ricordarle ai 25 frequentatori di questo blog.
Curzio Malaparte
«L’esperienza insegna che la peggior forma di patriottismo è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a null’altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali». Indovinello: quale disfattista rosso l’avrà scritto? Macché: anche se sembrano una risposta allo sfogo del premier contro il modo «indegno, abietto, criminale e anti-italiano» con cui «troppi media fanno critiche infondate al governo», sono parole di Curzio Malaparte. Mezzo secolo fa.
Come la mettiamo? Era un nemico della Patria anche Malaparte? Lasciamo rispondere a lui, rileggendo il «Tempo illustrato» del 1956 ripreso da «Scusi lei si sente italiano?», un libro appena uscito di Filippo Maria Battaglia e Paolo di Paolo: «Vi sono due modi di amare il proprio Paese: quello di dire apertamente la verità sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie, e vergogne (…) Tra i due modi, preferisco il primo». «Né vale la scusa», proseguiva, «che i panni sporchi si lavano in famiglia. Vilissima scusa: un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza. Ed è cosa inutile e ipocrita invocare la carità di Patria. (…) Ho forti dubbi che la Patria, per la quale si pretenderebbe invocare tale specie di carità, sia la vera Patria degli italiani. Credo piuttosto sia quella che Carducci chiamava “La Patria di lor signori”; cioè l’Italia dei servi e dei padroni, un’Italia che non merita né pietà né rispetto».
Tema: era più patriottico Malaparte nel suo amore adulto per l'Italia convinto che un popolo deve guardare in faccia se stesso o più patriottico Berlusconi quando (bacchettato anche da Giuliano Ferrara: «Ragiona talvolta con la pancia e dimentica l’onorevole funzione della testa nel corpo umano») disse di aver difeso il Duce in un’intervista a «The Spectator» perché aveva «reagito da patriota, da italiano vero, rispetto a una comparazione tra Mussolini e Saddam Hussein»? Ama di più l'Italia Angelo Del Boca che da anni cerca dolorosamente di capire come mai noi, noi italiani, arrivammo a costruire nel deserto libico lager in cui morirono decine di migliaia di donne, vecchi e
bambini o l'ama di più chi finge di non sapere che quel macellaio del maresciallo Graziani, per ordine del Duce, usò gas vietati da tutte le convenzioni e scatenò i soldati islamici in divisa italiana per decimare tutti i preti e i diaconi di Debra Libanos, il «Vaticano» della Chiesa cristiana etiope? Sia chiaro: non è in discussione il diritto del Cavaliere di lamentarsi di come giornali o giornalisti trattano i suoi «trionfi». Sono anni che si lagna. Cominciò nel ‘94 («Il 90% dei giornalisti italiani milita sotto le bandiere del fronte comunista o paracomunista») e non ha smesso mai: «Sono tutti contro di me. C'è un'alleanza visibile tra i grandi giornali, le banche e la magistratura per realizzare un’intesa opaca e oscura contro di me».
Non l’ha manco fatto in solitudine. Gli archivi sono pieni di lamenti di chi via via era al potere, magari proprio contro Berlusconi e i suoi accusati a loro volta d’essere «sfascisti». Lamberto Dini: «Se i mercati accolgono così freddamente la mia finanziaria è colpa dei giornalisti cacadubbi, della disinformazione che nasce in Italia e si ripercuote negli altri Paesi». Romano Prodi: «Non dobbiamo avere paura dei mass media, tanto li abbiamo tutti contro … » . Massimo D'Alema: «Il confronto coi giornali stranieri è umiliante. Quelli si occupano di cose serie, da noi si stampano solo cazzate».
E potremmo andare avanti per pagine e pagine.
Fin qui siamo nella «normalità»: i giornali fanno le pulci a chi governa (magari talvolta esagerando) e chi governa sbuffa, talvolta a ragione, più spesso a torto. Ma perché una critica a Palazzo Chigi, che ci stia D’Alema o Dini, Berlusconi o Prodi, dovrebbe essere «anti-italiana»? Così ragionava il fascismo. Quando Gaetano Polverelli emanava l'ordine nel 1931 a «improntare il giornale a ottimismo, fiducia, sicurezza nell'avvenire. Eliminare le notizie allarmistiche, pessimistiche, catastrofiche e deprimenti». Ne scrisse sulla «Frankfurter» anche il grande Joseph Roth spiegando che i giornali erano sbarrati a chi veniva accusato di aver «esercitato un'azione contrastante gli interessi della nazione». Cioè del Duce.
La verità è che i grandi intellettuali italiani sono stati spesso duri con l'Italia. Proprio per amore dell'Italia. Basti ricordare Antonio Gramsci: «È mancato sempre, o quasi, in Italia, un ambiente di serietà, di lavoro effettivo e dignitoso intorno ai luminari della scienza, della politica, della vita morale, della cultura, che pure sono nati in Italia, e in italiano hanno scritto e parlato in buon numero. ‘Dietro l’avello / Di Machiavello / Giace lo scheletro / Di Stenterello.’ (..) È tutta una caterva di Stenterelli, quella che circonda la persona di un solo Machiavello».
Oppure, su un'altra sponda, decenni dopo, Oriana Fallaci: «La mia Patria, la mia Italia, non è l’Italia d’oggi. L’Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant’anni e che si appassionano solo per le vacanze all’estero o le partite di calcio. L’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Osama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzano contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene».
Prospettive diversissime: anti-italiane? Mah… Era anti-italiano Indro Montanelli quando, innamoratissimo dell'Italia che l’aveva deluso, confidava amaro: «Per me, non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria»? Berlusconi è amatissimo almeno quanto detestato da un pezzo del Paese, ma perché dovrebbe coincidere con la Patria? Rileggiamo quanto scriveva nel ’46 Vitaliano Brancati: «La ripugnanza per la critica, la libera stampa, le due Camere, il teatro di costume fa che l’uomo d’ordine chieda in ogni momento la censura preventiva. Per chiedere questa legge straordinaria, egli sceglie l’occasione di una menzogna o di una calunnia o di una sconcezza, ma in effetti è impaziente di applicarla contro la scottante Verità, la fastidiosa Critica, la noiosa Ironia».
L'alternativa è il cronista servo irriso da Mino Maccari: «tutta prosa / senza sale e senza aceto / Se un gerarca tira un peto / te lo pubblica in grasseto».

28.11.10

40 anni fa il divorzio. L'articolo della domenica.

Scusi lei è favorevole o contrario? – del 67, credo - è uno dei pochi film in cui Alberto Sordi si cimentò nella regia e, nonostante la collaborazione nella sceneggiatura di Segio Amidei, non è una gran cosa. Pure è significativo di un momento della nostra storia italiana. L’Albertone vi interpreta la parte di un industriale di successo, che con la moglie è di fatto separato e ha una vita sentimental-sessuale allo stesso tempo elementare e complicatissima: elementare perché il suo approccio da maschio ricco gli fa vivere ogni relazione come acquisizione se non come acquisto; complicatissima perché non gli viene facile gestire una pluralità di relazioni, che peraltro tende ad ampliarsi. La storia si conclude con una intervista per strada. All’industriale quelli della tv chiedono se è favorevole o contrario alla introduzione del divorzio nella legislazione; l’omino risponde senza esitazioni “contrario” e aggiunge un pistolotto da bacchettone  sullo sfascio della famiglia e sul disordine morale che ne deriverebbe.
Il film si vede poco nelle tv e tuttavia il personaggio è archetipico: di siffatti figuri nell’Italia attuale ancora più ingaglioffita sono pieni i consigli d’amministrazione, le segreterie politiche, le giunte, i governi.
Scusi è favorevole o contrario? non contiene in apparenza un messaggio esplicito sul tema, allora caldo, del divorzio e tuttavia nella decisa condanna dell'ipocrisia ci mostra un Alberto Sordi meno qualunquista di come ce l’immaginiamo e impegnato su un problema che al tempo attirava l’attenzione dell’opinione pubblica, il divorzio appunto, la cui introduzione era sostenuta nella proposta di legge presentata il  1° ottobre 1965 da Loris Fortuna, un deputato socialista friulano.
Non erano mancate, in legislature parlamentari precedenti, prudenti proposte di legge sul divorzio da parte di deputati socialisti ( Sansone nel 54 e Giuliana Nenni nel 58), ma erano state insabbiate. E anche la nuova legge non avrebbe avuto fortuna, se non fosse sorto un movimento popolare di sostegno.
La forza d’urto più significativa fu rappresentata dai nuovi radicali di Pannella, il giovane che aveva rialzato la bandiera di un piccolo partito distrutto da tensioni interne e scandali. Gli strumenti dell’iniziativa furono essenzialmente due: la Lid, la lega per l’istituzione del divorzio, di cui fu presidente Fortuna, ma i cui principali animatori furono Marco Pannella, che ne era segretario, e l’avvocato radicale Mellini; e “ABC”, un rotocalco in bianco e nero non senza ambizioni politiche e culturali e che tuttavia puntava per la conquista dei lettori soprattutto sulle donnine scollacciate.
Il settimanale, nato per iniziativa di Gaetano Baldacci quasi come reazione alla sua cacciata da “Il giorno”, era allora governato da un estroso editore-tipografo, Enzo Sabato, e disponeva di un gruppo di redattori e collaboratori di grande qualità, Luciano Bianciardi, Giancarlo Fusco, Callisto Cosulich, Giuseppe Signori e, tra gli altri, una giovane Renata Pisu, che s’occupava di Cina e di sesso con lo pseudonimo di Cristina Leed.
Era un bel giornale e molti lo compravano nascondendolo dentro il quotidiano. Molti altri maschi lo leggevano per la sua quasi obbligata presenza nei saloni da barbiere e nelle caserme militari. Era guardato con sufficienza dai colti, ma faceva opinione e contribuiva a modificare mentalità e costume. Arrivò a tirare 500 mila copie, anche grazie al divorzio.    
La Lid si caratterizzava come “organizzazione di massa”, cercando e ottenendo adesioni soprattutto tra i “fuorilegge del matrimonio”, stimati in almeno 500 mila, spesso uniti in nuove coppie obbligatamente irregolari. “ABC”, dal canto suo, ne pubblicava gli appelli, puntando sulle storie di gente comune, smontando la leggenda che il divorzio fosse un problema da “ricchi e famosi”.
Dell'efficacia di questa sinergia si ebbe una riprova già a metà aprile del 1966, quando  al Teatro Lirico di Milano, un comizio divorzista raccolse una folla imponente. Manifestazioni a favore della legge Fortuna si svolsero poi in varie città, per confluire a novembre in un raduno romano, a Piazza del Popolo, cui parteciparono decine di migliaia di persone provenienti da tutta Italia. La rabbia di anni o di decenni poteva finalmente trasfondersi in impegno civile e rompeva il clima di diffidenza che circondava le coppie irregolari.
Ero ragazzo, benché già comunista, nel 66, ma a quella battaglia partecipai e ne vidi gli effetti concreti. C’erano al mio paese otto o dieci coppie irregolari conosciute, fino a quel momento oggetto di commenti malevoli. Per quanto fossero brava gente, operai, commercianti, artigiani, non mancavano alle loro spalle epiteti sgradevoli e loro stessi camminavano spesso a testa bassa; per non dire dei figli per i quali il doppio cognome o il cognome materno era uno stigma negativo. Il vedere e sentire, dopo qualche mese di campagna divorzista, un paio di quelle signore difendere a testa alta il loro diritto e parlare apertamente del loro problema dal droghiere, mi diede una gioia grande e profonda.
Il successo dell’iniziativa radicale spingeva intanto a più esplicite prese di posizioni il Pci, il Psi, i partiti laici e del divorzio si occupavano i quotidiani e i grandi settimanali. Anche “L’Espresso”, collegato ai vecchi “radicali” e diffidente sui nuovi, si schierava e metteva a disposizione molte pagine. Perfino al Concilio Vaticano II arrivava il problema dei credenti risposati, seppure proposto da vescovi non italiani. Nel gennaio 1967, per dare voce all'orientamento conservatore, il Papa in persona, che nell’uso del tempo parlava di rado, dovette reagire: dichiarava "sorpresa e dispiacere" nei confronti del Parlamento italiano che aveva ritenuto il divorzio compatibile con la Costituzione.
Nel marzo 1967 anche il Pci presentò una sua proposta di legge, a prima firma Jotti. Qualche mese dopo su "Rinascita" Luciana Castellina, esponente del Pci, avrebbe scritto: "Un merito va riconosciuto alla Lid... di aver dimostrato, con un'efficacia impossibile ai partiti, che il divorzio non è più un problema di pochi gruppi di élite, ma ormai un grosso problema sociale... è in gran parte, gente semplice, appartenente alle più disparate classi sociali; proveniente non soltanto da ristretti ambienti delle grandi città ma anche dalla provincia e dalle campagne. Borghesi ma anche proletari, angosciati da una difficile situazione familiare, spesso conseguenza di processi abbastanza nuovi per l'Italia, come la maggiore mobilità sociale e l'emigrazione individuale".
Nel 68, mentre divampava la contestazione universitaria, si svolsero le elezioni politiche. Il 5 giugno 1968, subito dopo la prova elettorale, 70 parlamentari dei partiti laici - Pci, Psu, Psiup, Pri (con l'eccezione dei liberali schierati a destra, che proponevano un loro progetto firmato da Antonio Baslini) presentarono un disegno di legge unificato, il primo della quinta legislatura repubblicana, a prima firma Loris Fortuna. L’iter della legge ebbe alti e bassi, ma l’ostruzionismo democristiano fu battuto grazie a un compromesso “alto”, gestito da Giovanni Leone, al tempo presidente della Camera: il Parlamento, ove si delineava una risicata maggioranza divorzista, avrebbe quasi contemporaneamente approvato la legge istitutiva del referendum, per consentire una verifica popolare sulle scelte dei deputati e dei senatori. La convinzione della Dc (e delle gerarchie ecclesiastiche) era che il referendum avrebbe cancellato il divorzio e avrebbe sfondato nell’elettorato popolare del Pci, legato ai valori familiari. 
L’ultima e definitiva approvazione delle proposta Fortuna avvenne il primo dicembre 1970: la Camera varava la legge n. 898 e introduceva l’istituto del divorzio, chiamando la cosa, un po’ ipocritamente, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”. Era un regalo natalizio per centinaia di migliaia di famiglie e, in fondo, neanche le gerarchie vaticane ne erano particolarmente scontente: nei loro calcoli la legge avrebbe sanato antiche situazioni di disagio e reso meno acuta la tensione, favorendo la vittoria antidivorzista nel referendum.
Così non avvenne. Il referendum si svolse dopo tre anni e mezzo, il 12 maggio 1974, dopo che era stato esperito invano un tentativo di evitarlo con una legge (presentata dall'indipendente di sinistra Tullia Carettoni) che, pur mantenendo l’istituto del divorzio, ne limitava la possibilità a pochi casi. Il Pci, che al tempo contava circa il 30% dei voti e li raccoglieva soprattutto nel mondo operaio e tra i ceti meno abbienti, temeva il referendum e cercava di evitarlo, ma poi ne divenne (insieme al dissenso cattolico) la forza determinante. La sua campagna referendaria, lunga e vasta (un porta a porta di accurate spiegazioni che impegnò centinaia di migliaia di militanti, uomini e donne), diede un contributo fortissimo alla liberazione delle menti popolari da arcaiche paure. Ricordo i comizi di festa, dopo la vittoria del "no" all'abrogazione, di Napoleone Colajanni (ma credo che anche altri oratori comunisti nel Sud facessero suonare le stesse note). A Gela, a Caltanissetta, a Enna si fece dare i risultati del referendum e quelli delle elezioni e fece notare come nei quartieri popolari e operai “rossi”, ove comunisti e socialisti ottenevano il 70 o l’80% dei voti, il “no” raggiungesse le stesse cifre, mentre nei quartieri alti, più agiati e colti, prevaleva sovente il “sì”. Spiegava Napoleone con orgoglio che era stato ancora una volta il popolo e il proletariato ad avere un ruolo di guida nella conquista di “libertà borghesi”. Altro che sfondamento clericale!
A questa bella e antica storia, con cui vorrei celebrare i quarant’anni di una conquista civile, a me piace aggiungere due osservazioni.
La prima di nostalgia. Quant’era bello il Pci! O meglio, quant’era diverso dall’idea attuale di partito come macchina che raccoglie voti non importa come. Quella campagna referendaria fu pensata e concepita come una grande operazione pedagogica in cui i militanti insegnavano e insieme imparavano dal popolo, in una concreta battaglia di libertà.
La seconda sul presente e sulle ricorrenti tentazioni vaticane. Allora i clericali contrapponevano al divorzio le famiglie felici, solidali, amorevoli e le mostravano nei manifesti. Dicevano: “Perché parlate di separati e divorziati e non dei tanti che restano uniti nonostante le difficoltà?”. Le popolane di chiesa però dicevano sottovoce: “Noi non divorzieremo mai, ma per i poveretti che ne hanno bisogno la legge ci vuole”.
E’ un approccio che allora si usò e che i laici e quel che resta della sinistra dovrebbero riprendere oggi sulle coppie di fatto di ogni tipo o anche sulle scelte di fine vita. C’era uno slogan – mi pare dei socialisti – che accompagnò l’introduzione del divorzio quarant’anni fa: “Chi ama il matrimonio non ha paura del divorzio”. Oggi bisognerebbe riprenderlo e adeguarlo: “Chi ama la vita non ha paura della libertà”.

27.11.10

Dai "Quaderni" di Leonardo Sciascia. Parigi vale ancora una messa ( da “L’Ora” 25 marzo 1966)


Il monumento ad Apollinaire di Picasso in Saint Germain de Prés
In questo appunto, dai quaderni che Sciascia pubblicava su "L'Ora", si può ritrovare al massimo della potenza la capacità del maestro di Racalmuto di "leggere i luoghi", di rintracciare i segni della storia, delle sue contraddizioni e dei suoi paradossi. Nel racconto di un pomeriggio parigino entrano Manzoni, Apollinaire, Voltaire, Teilhard de Chardin. Chi ama Parigi ne sente irrefrenabile la nostalgia e vorrebbe presto tornarci per sentire viva la presenza, in quel leggendario "triangolo" di spazio urbano, di Leonardo Sciascia, per poterne incrociare lo sguardo penetrante. (S.L.L.)
Saint Germain de Prés
Non c’è persona, da Roma in giù più scopertamente, da Roma in su più discretamente, che sentendo che venite da Parigi o che ci andate non faccia un malizioso ammicco di intesa e non alluda ai piaceri di cui siete reduci o cui vi darete. Persone, anche, che a Parigi ci vanno frequentemente: e sanno bene che molte ore delle loro giornate parigine scorrono di solito nell’albergo Lutezia, in lunghe conversazioni con gli italiani di Parigi, che si lamentano di Parigi; e quando ne escono, non fanno che spostare la loro conversazione a un cafè del boulevard Saint Germain, di Montmartre o di Montparnasse. Ma basta allontanarsene, ed ecco che il mito erotico di Parigi torna a risplendere: una Parigi che non esiste più e che forse non è mai esistita (E della città vista in dimensione erotica, eroticamente vissuta da un italiano, abbiamo uno spietato ragguaglio, forse non abbastanza conosciuto e capito, in un libro di Mario Tobino).
Per me, poi, Parigi è tutta in un triangolo che sta tra le rue de Bourgogne, il Louvre e il Lussemburgo: e questo triangolo credo di conoscere ormai in ogni strada. Raramente ne sconfino. Mi è capitato l’altro giorno: mi sono ridotto, stanchissimo, fino alla chiesa di San Rocco, e mi sono guardato bene dall’entrarvi, ricordando che appunto a San Rocco il Manzoni era cascato dalla sella del volterianesimo come Paolo sulla strada di Damasco (E se Manzoni non fosse entrato a San Rocco?). Di domenica pomeriggio, invece, sono entrato senza preoccupazione a Saint Germain des Prés: a sentir messa. Il monumento di Picasso a Guillaume Apollinaire, dentro il sagrato, mi rendeva libero da quell’apprensione che mi aveva fermato davanti a San Rocco. Immaginate un po’ il nostro parroco, vescovo o cardinale alla proposta di collocare, dentro il cancello del sagrato, un monumento a un poeta autore di versi come questi: “Tu l’ignores ma vierge à ton corps sont neuf portes/ j’en connais sept eddeux me sont celées…Huitième porte de la grande beauté… Neuvième porte plus mysterieuse ancore…”, e così via. Farebbero salti di indignazione da toccare la cupola delle loro chiese. E invece il parroco o prevosto o abate che sia di Saint Germain probabilmente è fiero di quella statua di Picasso, dedicata a un poeta erotico, editore di letteratura erotica, che è stata collocata dentro l’antico sagrato.
Comunque: invece che andare a sedere ai Deux Magots, davanti alla tazza di caffè che il cameriere, riconoscendovi italiano, vi assicura fatto all’italiana, ma con un sogghigno che altro non promette che il solito disgustoso beveraggio, ho preferito sentire messa a Saint Germain; e così, riposando, mi sono ripassato un po’ di cattolicesimo francese, da Port Royal a Teilhard de Chardin. Il quale Teilhard de Chardin dice il professor Besterman, discendeva in linea collaterale da Voltaire: e forse questo filo geneaologico è da intendere in più aperto e profondo senso. Nel senso per cui ascoltare messa a Saint Germain non è la stessa cosa che ascoltarla a San Pietro.

Da "L’Ora", 25 marzo 1966

26.11.10

Voglio volare. Una poesia di Aldo Antonelli, parroco in Abruzzo.


Il prete dottor Aldo Antonelli (il “don”, dominus, denominazione arcaica “di rispetto” che lo accomuna ai maffiosi, di certo non gli piace granché), parroco nell’Aquilano socialmente e politicamente impegnato, è tra i collaboratori di un eccellente sito perugino, http://www.perperugia.it/ , da cui ho tratto questo testo poetico nato da una indignazione civile. (S.L.L.)

Voglio volare
e volare alto.

Ma prima dovrò sfondare
col pugno dell’indomito sdegno
la cappa del piombo mediatico
della narrazione bugiarda
della cronaca che m’inchioda
della dittatura che mi schiena.

Voglio volare
e volare libero.

Ma prima dovrò infrangere
le ipocrisie del doppiopetto
e spezzare le catene del doppio giogo
cui in troppi, senza vergogna,
ci si sottomette,
in libera schiavitù:
promesse e ricatti,
carote e bastone,
blandizie e nequizie.

Voglio volare
e volare lontano.

Da questo paese strozzato,
stuprato nella sua perduta inviolabilità,
landa sperduta per incursioni scherane,
società fatta mercato,
parlamento vero bordello,
ministri al guinzaglio.
Lontano da questo Paese
di porci e mascalzoni,
la cui unica legge
è quella del gregge.

Nagorno Karabakh. La pace? Da qualche parte bisogna cominciare.

Un invalido a Stepanokert, capitale del Karabakh
Su “La Stampa” del 18 luglio 2010 Vittorio Emanuele Parsi da Baku, capitale dell’Azerbaigian, racconta delle displaced persons, dei progughi che sono arrivati 15 o 20 anni fa dal Nagorno Karabakh. ( http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=10558025 )
Li intervista in un campo profughi e in un non lontano condominio che il governo azero, utilizzando per la costruzione una quota dei proventi energetici, ha destinato a un gruppo di famiglie fuggite dalla guerra e vissute dal 94 in una fabbrica dismessa.
Il Nagorno era una enclave a maggioranza armena dentro i confini dell’Azerbaigian. L’Unione Sovietica aveva garantito una relativa autonomia alla regione, seppure all’interno della repubblica azera.
Nell’88, nel clima di disfacimento dell'Urss, il parlamento della regione vota la secessione e la riunificazione con la repubblica armena. Ne nasce una sanguinosa guerra  attraverso la quale gli armeni del Nagorno, appoggiati non solo dall’Armenia ma anche dalla Russia di Eltsin, riescono ad aver la meglio sugli azeri e, prima della tregua del 1994, operano una quasi totale pulizia etnica. I profughi sono più di settecentomila sui circa sette milioni dell’Azerbaigian. Nelle interviste di Parsi leggo una quasi insostenibile nostalgia negli anziani, che espongono come sacre icone le foto delle loro nozze in villaggi ove non potranno tornare, parlano dei sepolcri dei loro padri e dei loro nonni. I più piccoli, anche loro iscritti nelle liste dei displaced, giocano con i fuciletti. Non ci sarebbe niente di male, se i loro innocenti giochi di guerra non venissero inquinati da un precoce odio e risentimento.
E, a sentire il mondo politico azero, nonostante le trattative non ancora chiuse, prima o poi la guerra potrebbe tornare. Il vice ministro degli esteri Azimov dice a Parsi: “Non ci sono più azeri in Nagorno Karabakh, mentre noi vogliamo che armeni e azeri possano vivere liberi e al sicuro, sotto la sovranità armena”. C’è una nota di speranza, tuttavia, nell’articolo. Un giovane di 28 anni, Anar Usubov, racconta della sua fuga nel 1992: le truppe armene lo catturarono in una foresta con tutta la famiglia. Fu liberato dopo quattro giorni, ma di molti suoi parenti non si è saputa più niente. Ora si è laureato a Baku in relazioni internazionali e lavora nell’organizzazione dei profughi. Dice: “Mi chiedi se la pace sia possibile? Non lo so, con franchezza. Ma con altrettanta franchezza ti dico che da qualche parte bisogna pur cominciare”.

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