31.8.14

Perché si scrive? (Primo Levi)

AVVIENE spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità, perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all'inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre. Perché, dunque, si scrive?

1. Perché se ne sente l'impulso o il bisogno. E' questa, in prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. L'autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gh detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama e gloria, ma saranno un di più, un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico; è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale uri artista, cosi puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile idealizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte di un solo colore, che spesso si confonde con il colore del cielo.

2. Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: è raro che chi scrive per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che chi prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono i divertitoli puri, spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie o non, privi di certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi e savi come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Lewis Carroll, il timido decano e matematico dalla vita intemerata, che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. E' probabile che questo mai interrotto successo dei suoi libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici.

3. Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche, l'intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, leeccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell'allevamento del bestiame e dell'apicoltura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l'arte della cucina spregiata dagi ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all'arte.

4. Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall'arte che è fine a se stessa. Sarà opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell'opera a cui possono dare origine; un libro può essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragioni assai diverse da quelle per cui è stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi «sa» come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C'è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, e ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.

5. Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti. 

6. Per liberarsi da un'angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com'è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.

7. Per diventare famosi. Credo che solo un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso: ma credo anche che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l'angelico Carroll sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non c'è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto.

8. Per diventare ricchi. "Non capisco perchè alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. Mi pare giusto che lo scrivere, come qualsiasi altra attività utile, venga ricompensato. Ma credo che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequiente al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento.

9. Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che è la più triste. Non è bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non concepisca più immagini; che non abbia più desideri, neppure di gloria o di denaro; e che scriva ugualmente per inerzia, per abitudine, per «tener viva la firma». Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col copiare se stesso. E' più dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo.

Da L'altrui mestiere, Einaudi, 1985 – come anteprima in “Tuttolibri – La Stampa”, 2/3/1985

La Sicilia non è più quella di Brancati. Gallismo in soffitta (Paolo Di Stefano)

Un paio di anni fa Paolo Di Stefano, sul “Corsera” leggeva l'elezione a presidente della Regione Siciliana di Rosario Crocetta, omosessuale dichiarato, come un segno della fine del vecchio “machismo” ossessivo raccontato e, in qualche modo, celebrato dalla narrativa siciliana. Io credo che sia vero, a prescindere da Crocetta che, in verità, fece una qualche concessione agli “omofobi”, rendendo pubblico un voto di astinenza sessuale in caso di successo elettorale. Crocetta a parte, l'articolo è gradevole e contiene, oltre che citazioni pertinenti, riflessioni ragionevoli. (S.L.L.)
Lando Buzzanca in "Il merlo maschio"
Ricordava Leonardo Sciascia che nel circolo sociale di Racalmuto si discuteva, si giocava a carte, si leggevano i giornali, ma soprattutto si chiacchierava di donne e di sesso con la massima crudezza. In fondo il dopolavoro maschile di un paese della Sicilia interna anni Quaranta non doveva essere molto diverso, almeno per gli argomenti che si trattavano, da un ritrovo brianzolo o maremmano. Quel che distingueva la Sicilia dalle altre regioni era qualcosa di più profondo, che ha a che fare con l’antropologia e la psicologia collettiva, con la tradizione: una tradizione che oggi, con l’elezione di un presidente di Regione come Rosario Crocetta, omosessuale dichiarato e single fiero di esserlo, subisce un duro colpo, se è vero che il machismo insulare (con familismo connesso) è tra gli stereotipi più resistenti da secoli, sia nella sua declinazione più comune e anche folcloristica (vedi Buzzanca), sia in quella più feroce e seria che vuole la mafia come fenomeno decisamente maschile (e maschilista). È sempre Sciascia a parlare del mito della donna per gli uomini siciliani. In una commedia di Nino Martoglio, L’aria del continente, un ricco possidente siciliano in viaggio su al Nord, conosce una donna che gli fa perdere la testa: la porta con sé a Catania, dove la «forestiera» diventa subito oggetto d’invidia da parte dei suoi amici. Quando però si scopre che la bella donna continentale in realtà era nata in un paese della provincia di Enna, l’incanto crolla (e l’invidia pure). Un aspetto del maschilismo siciliano è indubbiamente questo: l’esibizione della femmina (possibilmente altra) che fa ingelosire. Comportarsi in un certo modo con la donna è «un imperativo categorico» del maschio siciliano: la natura del vero uomo è quella di essere «ossessionato» dall’altro sesso. Siamo in quello che Vitaliano Brancati chiamava il «gallismo» siciliano, che ha etimologicamente a che fare con il gallo, esempio massimo, nella civiltà contadina, di sessualità capace di coniugare orgoglio virile e instancabile potenza amatoria. Gallismo e dongiovannismo: da una parte il vanto di sé, dall’altra una dedizione assoluta e persino caricaturale alla donna, non necessariamente al livello dell’azione ma piuttosto sul piano verbale. Il desiderio si può anche risolvere in piacere del discutere sulla donna. Per questo il machismo siciliano è una tensione (o un precipitato) di sopraffazione violenta e sublimazione quasi stilnovistica. C’è qualcosa di leopardiano, secondo Brancati, nei «dongiovanni di Sicilia», per i quali il piacere è sempre passato o futuro e mai presente. Un professore di greco, Francesco Guglielmino, disse un giorno a Verga, parlando dei siciliani: «Siamo romantici», e Verga gli rispose: «Ma che romantici, figlio mio: siamo ingravidabalconi». Brancati scrisse che «questo avere i sogni, e la mente, e i discorsi, e il sangue stesso perpetuamente abitati dalla donna, porta che nessuno sa poi reggere alla presenza di lei». È il caso celebre del bell’Antonio Magnano e del suo fiasco sessuale, che obbliga il padre di lui (piccolo borghese fedelissimo del «gallismo» tradizionale) a riscattare l’onta familiare morendo a settant’anni, sotto i bombardamenti, in casa di una prostituta, dove verrà ritrovato con una scarpina verde dal fiocco rosa accanto al viso. Anche Tomasi di Lampedusa è testimone di una sessualità maschilista ossessiva e mai pacifica. Vi ricordate con quanta penosa autocelebrazione il principe Fabrizio rivelava al confessore la propria insoddisfazione erotica attribuendone tutte le responsabilità alla moglie? «Ma che volete da me? Sono un uomo vigoroso. E come posso accontentarmi di una donna che a letto si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio, e che dopo non sa dire che prima di ogni abbraccio, e che dopo non sa dire che "Gesummaria"? Sette figli ho avuto da lei, sette, e sapete che vi dico, padre? Non ho mai visto il suo ombelico. Eh? È giusto questo?». La fissazione dell'uomo per la donna occupa buona parte di quella «corda pazza» di cui parlava Pirandello a proposito della sua terra. Già, Pirandello. Se passiamo al suo rovello sessuale, rischiamo di aprire un capitolo quasi interminabile che coinvolge paura, angoscia, impotenza, senso di colpa e, dicono i critici psicoanalitici, rimozione dei contenuti omosessuali. Eccoci tornati a bomba. Se il nuovo governatore siciliano non ha nascosto la sua omosessualità, è perché, grazie al cielo, la Sicilia non è più quella di Verga, Pirandello e Brancati. Il siciliano Crocetta come il pugliese Vendola, mentre a Nord venivano celebrati squallidissimi riti di maschilismo tribale.


Corriere della Sera, 30 ottobre 2012

Grandi amori. Anna Proclemer e Vitaliano Brancati (Paolo Di Stefano)

La ricostruzione dell'amore tra Anna Proclemer e Vitaliano Brancati fatta da Paolo Di Stefano per il “Corsera” è documentata, convincente e ben costruita. La “storia” si chiude quando il complicato sentimento s'avvia a morire, nell'autunno del 53. All'improvviso, nel luglio del 1954, muore anche Brancati. Non ho mai capito se ci sia rapporto tra le due morti.
Una piccola osservazione. La storia della lettera strappata e ricostruita con lo scotch non è credibile. Lo scotch nel 41, con la guerra e l'autarchia, mi pare anacronistico. Con la colla, forse. (S.L.L.)
Anna Proclemer e Vitaliano Brancati con la figlia Antonia
Lo scrittore è già famoso e ha 34 anni, la ragazza è un'attrice diciottenne. È la fine del 1941 quando si conoscono al Teatro dell'Università di Roma, durante una prova. Anna Proclemer guarda Vitaliano Brancati con ammirazione e indifferenza. La ragazza ha già letto Don Giovanni in Sicilia. Di nascosto dai genitori, che lo consideravano un libro osceno. «Mi sembrava un maturo signore ormai avviato alla vecchiaia», avrebbe scritto. Al contrario di tutti gli altri, lo scrittore la tratta con deferenza e la chiama «signorina». 
Una sera vanno al Teatro delle Arti. C'è l'Histoire du soldat di Stravinski, ma Brancati guarda un altro spettacolo, ignora il palcoscenico e fissa le mani di Anna: «Non è possibile avere delle mani così - sussurra per vincere l'imbarazzo - Queste sono le mani di un ragazzino di collegio!». La dichiarazione d'amore arriva poco dopo. Con due pensieri rivelati per lettera: «E il primo è che tu sei la più dolce, bella, intelligente, candida ragazza del mondo, e il secondo che sei tanto giovane e io no».
Con quei pensieri in testa, lo scrittore non riesce più a lavorare e si affumica il cervello fumando la pipa. Rimprovera a sua madre di averlo concepito troppo presto: «Che fretta c'era di mettere al mondo un balordo personaggio?». Confessa che senza tutti quegli anni di differenza chiederebbe ad Anna di sposarlo. Si sposeranno nel '46. Ma intanto la ragazza rimane stordita dalla dichiarazione d'amore. Gli risponde dandogli del Lei: non c'è spazio nel suo giovane cuore se non per il teatro, dove sta muovendo i primi passi già quasi trionfali. Lo scrittore straccia la lettera, poi se ne pente e la ricompone con lo scotch. Non molla, continua a scriverle da Catania, parla di un esaurimento nervoso, diventa ossessivo.
A Roma, occupata dai tedeschi, Anna ha una relazione sentimentale con il regista Gerardo Guerrieri, ma non dimentica lo scrittore e gli racconta di essere sfiduciata: «Vorrei piantare tutto e rassegnarmi a fare la ragazza oca e civetta e basta. Mi è difficile saper guardare lontano». Le lettere scritte da Brancati nel '44 non arrivano in genere a destinazione, quella del 31 dicembre sì: c'è la nostalgia del loro primo incontro, la neve su Roma e l'immagine della ragazza che, con il viso legato da una cuffia bianca, sedeva «imbacuccata in mezzo a una fila di poltrone vuote». La conforta: «Questi Suoi dubbi mi sembrano un ottimo segno».
Nell'agosto dell'anno dopo, la Proclemer va a Catania per girare un film: «Rividi B. dopo più di due anni. Non ho più amato la Sicilia come in quei giorni. Anzi in quelle notti». Racconterà le passeggiate e gli strani amici di Vitaliano, «straordinari personaggi di provincia pieni di manie, di tic!». La città è «magica e astratta». Brancati le parla di Chopin, Bellini, Keats, Leopardi. Soprattutto le insegna «ad amare la possibilità di una vita insieme».
La ragazza riparte in ottobre «felicissima, infelicissima, confusa, turbata». Speranze e timori. Lui le scrive subito da Zafferana Etnea il dolore, lo sgomento, la tortura di ritrovarsi senza «la più bella, la più nobile, la più dolce, la più intelligente e più sensibile ragazza del mondo». Il pensiero fisso di lei lo tormenta: «Nessuno ama la felicità quanto me e nessuno ne è meno adatto. Mi manchi in modo intollerabile». Anche Anna è innamorata di Vitaliano, detto Nusso, ma evita i toni palpitanti: «Lavora, promettimelo. Pensa che mi farebbe soffrire il pensiero che anche una sola ora inconcludente tu passassi per causa mia. Lavora, e io lo sentirò e sarò accanto a te». Lui vorrebbe baciarla, stringerla al petto «con una certa furia». Lei non ama quei suoi toni di ironica o patetica amarezza, quella troppo «acre esibizione di sofferenza». E lui: «Ho bisogno di non pensarti per un'ora sola, e non ci riesco!».
Nella primavera 1946 Brancati è a Roma per una quindicina di giorni per chiarire i dubbi e gli equivoci: Anna è stanca, snervata, esaurita dal lavoro ma è attratta dal pensiero di legarsi a un «artista vero, un uomo complesso, ambiguo, segreto, vulnerabile». Sa bene che la aspetta una vita «tutt'altro che armoniosa e riposante», ma ci vuole provare. A Roma sono stati giorni felici, pieni di fiducia e di speranze. Nel tardo pomeriggio del 22 luglio si sposano nella cripta della chiesa ancora in costruzione di piazza Euclide.
«Amore mio, Annina, pecorella». Tante altre lettere partono da Catania quando l'attrice è in tournée. Il 28 novembre arriva un telegramma in cui Anna comunica al marito di essere incinta. Il 6 maggio 1947 nascerà Antonia, una bimba allegrissima, che non piangeva mai: «B. ed io - scriverà la Proclemer - ci illudemmo di essere riusciti miracolosamente a evitarle di ereditare le nostre nevrastenie, ansie, depressioni, angosce». Illusione, appunto. 
Il matrimonio comincia a scricchiolare quando Annina, il 18 giugno 1953, scrive al suo Nusso: «L'era della "pecorella" è finita. Mi sento molto più matura e sicura di me». Due mesi dopo i due coniugi cominciano ad arredare la casa appena acquistata in via Fleming. Fingono di non sapere che il loro matrimonio, dopo sette anni, si sta avviando al termine: «Avevo trent'anni e dovevo cominciare a scoprire chi ero. Per fare questo avevo bisogno di essere sola. Cercai goffamente di spiegare. Era inevitabile che B. sospettasse che fossi innamorata di qualcun altro. Dissi la verità: che non era vero. Non fui creduta. Allora, per essere creduta, mentii».


Corriere della Sera, 22 agosto 2013

Nel trentennale. Gli anni perduti di Vitaliano Brancati (Alberto Asor Rosa)

Nel trentennale della morte di Vitaliano Brancati, “la Repubblica” gli dedicò un paginone centrale con l'articolo che segue, di Alberto Asor Rosa, e un altro di Nello Ajello sulla sua “sicilianità”, che provvederò a “postare” quanto prima. (S.L.L.)
Vitaliano Brancati
La prima cosa da capire di Vitaliano Brancati è la fortuna, certamente inferiore ai suoi meriti. La morte precoce, nel 1954, ad appena quarantasette anni, in un momento di definizione e di passaggio della sua opera (il romanzo Paolo il Caldo, apparso un anno dopo, è non solo un'opera incompiuta, ma anche un tentativo non del tutto realizzato di riprendere e al tempo stesso di ampliare le tematiche a lui consuete), può costituire una spiegazione, ma non sufficiente: Pavese, morto suicida nel '50, ha visto egualmente accrescersi la sua fama nei decenni successivi alla sua scomparsa (anche se pure lui è entrato poi in una zona d'ombra, altrettanto immeritata di quanto lo erano state certe punte di mitica ammirazione e quasi di culto). Certamente lo ha danneggiato l'assenza di partecipazione (lo ricordava recentemente Sciascia) al grande (intendo dire: esteso, insistente, prolungato) dibattito su «politica e cultura» (cui egli, tuttavia, ha apportato, sia pure indirettamente e come dall'esterno, alcuni originali elementi di riflessione); ma neanche questo può bastare a spiegare tutto, visto che, per esempio, uno scrittore anche lui del tutto avulso dalle problematiche dell'impegno come Buzzati ha conquistato presso la critica e presso il pubblico un riconoscimento vasto e duraturo.
Bisogna dunque cercare più a fondo. Io sono persuaso che Brancati sia uno di quegli scrittori così profondamente conficcati in un crocicchio della storia, così intrisi di umori, atmosfere, penombre, chiaroscuri e perfino tic di una determinata età, che uno è portato nei ricordo a stemperarli in un clima diffuso, in un affresco popolato di segni, in cui tutti sono protagonisti, ma nessuno lo è in modo decisivo ed inequivoco. C'è dell'ingiustizia, in questo: ma, come vedremo, anche una chiave per penetrare l'universo di questo scrittore e tentare di restituirlo alla sua individualità; che, non appena si fa uno sforzo per andare al di là delle apparenze, si scopre estremamente determinata e personale.

Nel Comune di provincia
Gli anni, l'età cui mi riferisco, sono quelli fra il '35 e il '50, la situazione quella di una ricerca letteraria, che, almeno per ciò che riguarda la narrativa, sembra individuare programmaticamente il suo aggancio europeo, localizzando e «comunalizzando» l'osservazione, lo spaccato di realtà esaminato. Ancora non è stato bene messo a fuoco dalla storiografia letteraria questo punto; ma non mi par dubbio che nel periodo in questione (in questo periodo soltanto più che in altri, perché in realtà il fenomeno di cui andiamo parlando è un fattore ricorrente della letteratura italiana) i nostri letterati non scorgono alcun punto intermedio da rappresentare tra il proprio Comune di provincia e Parigi, o Mosca, o Londra, o New York. Quel che Brancati cerca di fare a e su Catania, non è poi molto dissimile da quello che Pratolini andava in quegli stessissimi anni facendo a e su Firenze, Bilenchi a e su Colle Val d'Elsa, Pavese a e su le Langhe e così via.
Solo che Brancati, appunto, era nato e vissuto non a Firenze, non in Piemonte né a Torino ma in Sicilia, a Caltanissetta, a Catania; ed era stato, come Bilenchi, Pratolini e Vittorini, fascista, e fervidamente fascista. Ma non come quelli, fascista di sinistra, bensì fascista piuttosto ortodosso, vitalistico, nazionalistico, alquanto retorico; insomma, di quel fascismo da cui non si esce per entrare nel progressismo populista, ma di quel fascismo da cui, quando si esce, si può entrare solo in una sovrana, inattaccabile e indistruttibile osservazione scettica ed ironica del mondo. Non può essere un caso che Brancati, per definire retrospettivamente in un articolo del dopoguerra (La fiera letteraria, 11 settembre 1946) il lungo periodo della dominazione fascista, «gli anni che intercorrono tra il '22 e il '43», si senta venire sulla penna la stessa formula che dà il titolo al romanzo cui consegna nel 1941 l'affresco forse più completo e ambizioso della vita giovanile a Catania nel corso dello stesso periodo: Gli anni perduti; sebbene, appunto, nel romanzo non ci siano che pallidi e allusivi accenni alla realtà politica del tempo, e l'articolo in questione sia invece tutto un tentativo di dare un'interpretazione etico-politica del totalitarismo e degli effetti da esso prodotti sul pensiero, sui costumi, sui discorsi, sulle usanze.
Siano pur giusti, dunque, tutti i riferimenti scovati dalla critica ai grandi scrittori, che gli furono maestri, da Gogol ad Alvaro: non v'è dubbio che questo discepolato, in gran parte esercitato in età già non più così giovanile (è cosa già accaduta ad altri scrittori siciliani del passato), gli abbia acclarato le ragioni profonde della sua ricerca, dissipando le nebbie di un certo iniziale romanticismo, che spinge le sue propaggini fin dentro un romanzo peraltro interessante come
Gli anni perduti (a proposito del quale Nino Borsellino parla anche «di tracce di Dostoevskismo, di Oblomovismo, di Cekovismo»). Ma tali ragioni pre-esistono all' invenzione dei modelli e sono da rintracciare probabilmente nella genesi di un amaro più che ironico moralismo dalla crisi dei quadri concettuali e tradizionali di un modello borghese assai arretrato, quello isolano: crisi che, per l' assenza di altre prospettive alternative o sostitutive, non può uscire dall' ambito del vissuto e del quotidiano e sempre più si ravvolge, man mano che si dispiega, nei circuiti stretti e soffocanti della famiglia, del sesso e di una società civile che ha come suoi luoghi deputati quasi unici il caffè, la piazza e squallide, spesso miserabili, case ospitali. Mi rendo conto che esprimere preferenze fa correre il rischio di sovrapporre al tentativo di ricostruzione di una biografia letteraria fondata in qualche modo su dati oggettivi, scelte di gusto personali e magari non legittime idiosincrasie; ma se serve a chiarire il discorso dirò che la ricerca brancatiana a me sembra raggiungere il suo punto più alto tra il romanzo breve Don Giovanni in Sicilia del ' 40, e il racconto lungo Il vecchio con gli stivali, del ' 44, mentre il più noto Il bell'Antonio del ' 49 ha la troppo nitida perfezione di un mito già sistemato, e Paolo il Caldo, come già accennato, l'incompiutezza d'un tentativo che va in una direzione restata a noi, purtroppo, sconosciuta. 1940-1944: anni duri ma produttivi, in cui, attraverso il tormento di una guerra dolorosa e rivelatrice, sembra quasi che in Brancati tutti gli umori più vivi e penetranti della sua natura abbiano preso il sopravvento sui suoi grigiori e sulle sue cupezze. Nel Don Giovanni l'esaltazione erotica del protagonista e dei suoi giovani amici e la loro pigrizia, il loro cullarsi nell'indeterminato e nell'immaginario, sfociano felicemente nell' immagine di una civiltà più verbalistica e nominalistica che veramente visionaria. L'eccezionale sollecitazione dei sensi è sempre ad un passo dall'impotenza: impotenza di atti (come sarà più avanti per Il bell'Antonio), ma anche di parole, ché, sia la passione bruta, sia l'innamoramento impediscono di comunicare, impediscono il civile commercio dei sentimenti. Nel Vecchio con gli stivali la storia del misero impiegato comunale Aldo Piscitello, costretto ad iscriversi al fascio per sopravvivere, animato da un odio forsennato e segreto nei confronti dei prevaricatori e infine epurato dopo la liberazione per compiacere alla facciata di un formalistico rigorismo, assume i colori grotteschi ed amari di un'eterna "commedia all' italiana", in cui sempre gli stracci volano all'aria e i soprastanti se la cavano. Brancati è scrittore siciliano, non ci si saprebbe sottrarre all'obbligo di collocarlo dopo Verga, De Roberto e Pirandello (da ciascuno dei quali, certo, ha imparato qualcosa), e prima di Sciascia (che a sua volta molto ha imparato da lui). Ma il suo sicilianismo, indubbiamente molto accentuato dal punto di vista ambientale e tematico, non è poi così decisivo come si dice, se ci si richiama a quelle ragioni più generali della sua ricerca, che in precedenza abbiamo cercato di indicare. Esistono, senza dubbio, elementi visionari e stralunati nella sua arte, ma forse più lontani nel tempo, come in quel racconto Sogno di un valzer del '38, ripubblicato recentemente da Enzo Siciliano, e comunque insufficienti a legarlo a quella catena della "corda pazza", con cui Leonardo Sciascia mette insieme un po' indiscriminatamente scrittori e cose della Sicilia. Io direi che le tonalità proprie della prosa brancatiana - il grottesco, l'amaro umorismo, la cupezza di fondo - sono come riallacciate e fuse insieme da una intelligenza che è invece lucidissima e sempre presente a se stessa, e da un atteggiamento etico-politico che lo spinge piuttosto in direzione di scrittori e di saggisti come Alvaro, Pannunzio, De Feo, per certe tonalità Flaiano (senza dimenticare, peraltro, il suo rapporto con un altro amaro umorista, con un maestro di illuminismo reazionario, come Leo Longanesi). Il suo riallacciamento più preciso è al mondo del “Mondo”: cioè ad una dimensione culturale e letteraria in cui la critica del costume resta sempre illuminata da valori razionali. Dietro le deformazioni grottesche e parodiche di Brancati questa conversione ad un sostanziale razionalismo di fondo s' indovina sempre nei momenti migliori, ed è quella che gli assicura una più acuta percezione del reale. Solo qualche anno più tardi Federico Fellini s'imbatterà nei Vitelloni a Rimini, e ne resterà folgorato; ma il vitellonismo, quello più autentico e profondo, lo aveva già scoperto Brancati a Catania, guardandosi attorno attraverso le grate della sua solitudine giovanile.


“la Repubblica”, 24 ottobre 1984  

30.8.14

Le ambizioni di Moravia stroncate dai fascisti (Domenico Porzio)

Alberto Moravia è solito dire che il suo secondo romanzo Le ambizioni sbagliate, pubblicato nell'estate del 1935 (ed. Mondadori), sei anni dopo Gli indifferenti (ed. Alpes, 1929), «non ebbe recensioni, anzi non è stato ancora recensito». Lo ricorda, quel romanzo, come un incubo : «Vi lavorai per sei anni. E' stato un "pensum"; lo riscrissi sei volte. E' il mio romanzo più intenzionalmente dostoievskiano». In realtà la stampa quotidiana e periodica riservò al libro del ventottenne scrittore una sua perfino clamorosa accoglienza; ma preordinata dal regime con direttive così precise, che la critica ufficiale (quella che pure aveva consacrato Gli indifferenti), intimidita o avvilita, dovette o pensò di tacere.
Le bozze del romanzo erano state inviate, nella primavera del 1935, a Roma dall'editore milanese per una lettura ministeriale preventiva. L'autore, per sollecitare il nulla osta, si era personalmente recato a colloquio dal vice prefetto Stroppolatini, responsabile dell'ufficio censura, ma si sentì dire che i suoi personaggi non solo erano «un poco lascivi», ma non erano «positivi». Moravia ricorse ad amici e ad un deputato suo parente: dopo molte insistenze il "licet" venne concesso. Contemporaneamente una secca "velina" raggiunse le redazioni dei giornali: il romanziere era largamente noto e subito fu iniziata nei suoi confronti una campagna di deprezzamento.
Nel luglio del 1935, mentre Le ambizioni sbagliate stavano per giungere in libreria, la rivista “Realizzazioni” gli dedicò un profilo, a firma Candido, dove si leggeva che Moravia era il rappresentante «di una società borghese e senza aspirazioni» della quale egli dipingeva i «caratteri malvagi, deformi, cacciati nella miseria morale al punto da farci credere che siano stati creati per eccitare un pubblico morboso». Si rivelava che lo scrittore era solito scrivere a letto: «cattiva abitudine, da ragazzo viziato, dalla quale con tutto il suo ingegno difficilmente riuscirà a cavare una sola pagina sana e serena». Il moralista così proseguiva : « La barba lunga, il sonno cui si rimane attaccati — che è vicino alla morte — l'inevitabile sudiciume del corpo dopo una notte, finiscono con l'avere il loro peso sulla pagina scritta»; senza contare che «... fa colazione all'inglese, e anche questo contribuisce a portare nella sua vita quell'aria europeista e internazionale che offre i segni della decadenza ».
Uscito il romanzo, la prima stroncatura venne firmata su “La Sera” di Milano, il 16 agosto '35, dal critico del regime Francesco Scarpelli. Costui scrisse che in Moravia «la visione unilaterale e un po' ossessionante del mondo ci fa ricordare 1'opinione attribuita a mons. Bonomelli sull'arte di Emilio Zola: efficacissima evidenza di chi, accompagnandoci nella visita a un grandioso edificio, abbia cura di mostrarci soltanto i locali adibiti ai servizi più ignobili e ripugnanti... C'è qui una foschia lutulenta... in tutto il racconto non ti imbatti in una sola giornata splendente...», quando invece «la vita sofferta e goduta non è soltanto insudiciata di nauseabondo nerofumo, ma anche profumata dal sole». Il quotidiano genovese “Il lavoro” che, sollecitato dall'editore Mondadori, aveva prepubblicato alcune settimane prima, con grande evidenza, un capitolo del romanzo, si trovò in grande imbarazzo; disinvoltamente ignorando la "velina", il suo critico Aldo Capasso scrisse (il 7 settembre) tre colonne, assai positive: «Le ambizioni sbagliate (a parte il titolo che sa di didattico, e così calunnia un po' il libro) è un romanzo bellissimo... Poche e lievi mende... Tristezza definitiva di un mondo dove l'amore non è mai compensato... Il Moravia ha creato il suo mondo, e finché la lettura duri, tutti divideranno la sua tristezza». Ma il 16 settembre Franco Vegliarli, con due colonne su “Il Piccolo” di Trieste, si precipitò a dimostrare che «i personaggi sono o vuoti e superficiali, o bassi e banali, o insufficienti e incompleti... Con Moravia abbiamo ancora un decadente, ancora un malato e non si vede in lui alcun segno di rinnovamento o di rinascita...».
I giornali di provincia furono i più ossequienti alla «velina» ministeriale. Il 20 settembre, su “L'Isola” di Sassari, tale Libero Macedda tuonò con due colonne intitolate «Condanniamo Alberto Moravia»: « Il suo è un mondo falso, di corruzione e di pervertimento così accentuati che non possiamo ammettere, e che ripugnano agli italiani nuovi... Nessun italiano dell'Anno XIII può ammettere per veri questi personaggi o giustificare le loro azioni più ignominiose... Tanto pervertimento e tanta delinquenza morale non esistono in Italia da quando il fascismo ha rivolto i suoi energici e benefici sforzi al potenziamento di quelle nobili e a tutti note virtù della stirpe italiana... ».
La farsa critica proseguì per tutto il 1935 e gran parte del 1936 mentre l'autore soggiornava negli Stati Uniti. I cattolici si sentirono i più autorizzati ad impartire al giovanotto la paternale moralistica. Geo Renato Crippa, su “Il Popolo di Brescia”, ambiguamente scrisse: « Non è facile capire come un giovane trovi una sua potenza espressiva ed artistica scegliendo nel peggior male che sia possibile scovare nella società... Di tali romanzi l'Italia in questo momento di salute e di battaglia non ne avrebbe per nulla necessità... ». Tuttavia vanno ricordati, sui quotidiani, almeno due coraggiosi interventi a favore del romanzo: l'articolo di Mantica Barzini sul “Corriere di Napoli” (1° febbraio 1936) dove si leggeva: « Moravia non si prefigge di far vedere il mondo nero, la vita impossibile, l'umanità immonda e perfida... Libro amaro e scavato, che scolpisce, si impone, stringe il cuore »; e la colonna anonima, pubblicata, ad un anno dall'uscita delle Ambizioni, sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino (31 luglio 1936) : « Scrittore lucido, potente, che ti trascina dove vuole... Nessuno come lui può darti il senso del vizio e della corruzione... Il rigore della sua dimostrazione è perfetto ».
Alcune riviste e periodici di cultura intervennero sul libro durante il 1936. Su “Vita e Pensiero” il cattolico Francesco Casnati scrisse che «la costruzione porta segni di potenza e, insieme, di fatica»; che quella di Moravia era « una visione parziale e sbagliata nella sua esclusività, come è quella di tutti i veristi... Rappresenta un mondo fangoso, ma lo giudica nel titolo con una definizione, le ambizioni sbagliate, che lo condanna; ed è un sintomo non poco confortante nel grande ingegno com'egli è ». Su “Il Convegno” (26 febbraio 1936) l'allora giovane Arrigo Benedetti, pur lodando il libro avanzò riserve sulla sua «immobilità... per difetto di fantasia» e ritenne l'autore «non persuasivo, volendoci imporre un suo mondo moralistico più che fantastico». Assai aspro fu su “Studium” (marzo 1936) il recensore a firma Abi, il quale non accettò i personaggi «così fatalmente spregevoli... che destano una trista e talora irresistibile comicità... e che non possono avere alcuna grandezza né morale, né artistica». Sul periodico napoletano “Il movimento letterario” (giugno 1936), in un dialoghetto a firma del direttore Sabino Alloggio, fu scritto: «Il Moravia manca di umanità, di senso classico. E' una improvvisazione dei tempi. Direi che dei nostri tempi — tragici e quindi profondamente idealistici — non ha capito nulla».


la Repubblica, 16 novembre 1977

Moravia e la setta degli indifferenti (Edoardo Sanguineti)

Alberto Moravia
Ho “postato” di recente un paio di “stroncature” di Moravia, di Fini e di Berardinelli. Né l'uno né l'altro, tuttavia, per quanto ostili al prolifico narratore del Novecento italiano, negavano valore agli Indifferenti. Del ruolo che quell'opera ebbe nella formazione intellettuale degli italiani più giovani fino agli anni 60 del secolo scorso scrive in maniera convincente Sanguineti nell'articolo qui postato, pubblicato da “Repubblica” per i settant'anni di Moravia. (S.L.L.)
Edoardo Sanguineti
Quando sono nato io, Gli indifferenti avevano già un anno di vita. Quando li ho letti, nell'originaria edizione Alpes, ero uno studente appena sbarcato in ginnasio; e ricordo benissimo, naturalmente, quel compagno di classe che aveva scovato il libro nella biblioteca di suo padre e che lo faceva circolare, semiclandestino tra i banchi. Moravia era allora, ancora, un autore immorale e censurato. Bene o male, in quell'età in cui ogni lettura vera segna per sempre, come un trauma, la classe fu spaccata in due: c'erano quelli che li avevano letti, Gli indifferenti, e quelli che non li avevano letti; «gli altri». Erano due vasi, ormai, che non potevano più comunicare, che non usavano la stessa lingua. Volendo, potrei scrivere qui nome e cognome di ciascuno di quel gruppo di ragazzi; per cui quel testo, insieme a una dozzina di altri, collaborò a definire un tipo umano, a fabbricare un destino. E non sto mica a raccontare, adesso, un qualunque frammento di autobiografia: sono sicuro, infatti, che quel che accadde in una scuola torinese, verso la metà degli anni Quaranta, si sia verificato, in modi abbastanza affini, anche altrove, anche in altri anni.
Gli uomini si dividono in sette chiuse, a seconda di quelli che sono stati, secondo la formula di Miller, i libri della loro vita. I veri stendhaliani, naturalmente, non sono gli emuli di Del Litto, ma coloro che, tra periodo di latenza e esplosione puberale, hanno decifrato, o, che è lo stesso, creduto di decifrare, per la prima volta, la vita e il mondo, attraverso una pagina del Brulard o del Rouge et noir. Sopra quelle traumatiche letture primarie può poi stratificarsi, ma invano, l'intera biblioteca di Babele: d giochi sono fatti e le strutture esistenziali ormai decise.

L'eroe romanzesco
Quando si diventava ancora autodiretti, o si cercava di diventarlo, tanto tempo fa dunque, era sopra i romanzi, con i romanzi, in primo luogo, che tali si diventava, o si cercava di diventare. E i romanzi erano stati inventati apposta per questo, si sa. Insegnavano che l'«imitatio» dell'eroe era la strada maestra per diventare quello che si è, e cioè quello che si crede di essere. Eravamo un po' tutti, allora, figli e nipoti di eroi romanzeschi, non senza mostruose contaminazioni genealogiche. Ed erano gli eroi stessi, non di rado, a suggerire, con didascalica pazienza, il procedimento, dimostrandosi, libro alla mano, a loro volta, figli e nipotini di altri eroi romianizeschi. Il romanzo è forma partenogenetica, e si porta addosso la relativa bibliografìa, almeno nei casi migliori. L'eroe romanzesco, prima di tutto, è un lettore di romanzi.
Tutto questo per dire, insomma, che io li ho visti, in carne ed ossa, i figli e i nipotini di Michele: li ho visti mangiare, bere, dormire e vestire panni. Così come ho conosciuto, nel tempo, fratelli e cugini di Girolamo, di Agostino, di Luca, a mazzi, a mucchi. E della setta degli «indifferenti», a mio modo, ho fatto parte anch'io, ovviamente. Mi sono trovato alle prese, ambiguo, con quell'ambiguo titolo: non sapendo bene se di indifferenza dovevo accusare gli uomini e gli dèi, o se dell'indifferenza dovevo gloriarmi come di una deliziosa, nobilitante tara. Quando nel '62, scrivendo un libro su Moravia, facevo criticamente i conti con quell'opera, ero impegnato in qualcosa di più e di meglio che in un'analisi letteraria: ero dedito, segretamente, anche all'esame di coscienza di una generazione, o almeno di una setta generazionale.

Freud e Marx
Gli indifferenti, certo, erano «un cattivo libro» proprio come l'Agostino, secondo Saba, «un libro che non avrebbe dovuto essere scritto»: perché «Insudicia amore» (le maiuscole sono tutte nelle scorciatoie). La setta degli «indifferenti» era dedita con passione, in generale, ai «libri cattivi», ai libri che «insudiciavano», non soltanto 1' amore, ma la vita tutta, in assoluto. Forse anche a noi «doveva essere accaduto qualcosa» in tempi per noi «preistorici, sepolti nelle profondità di un totale (non però irrevocabile) oblio». L'ingenuo Saba, però! A chi non è accaduto qualcosa? Gli «indifferenti» lo sapevano, ecco tutto, o almeno lo sentivano. E se un giorno raccontassero la loro «educazione intellettuale», insieme con la loro «educazione sentimentale», potrebbero parlare di se stessi come di tanti che si trovarono a lungo impegnati a «mutare una maledizione infantile in una benedizione d'adulto ». Impegnati a farsi adulti. In breve, che è poi l'unica benedizione passibile, attraverso l'«indifferenza», attraversando l'«indifferenza », cioè l'«educazione borghese».
Michele non aveva letto né Freud né Marx. Nemmeno il suo autore, quando ne scriveva il romanzo, li aveva letti. Ma noi, Gli indifferenti, ci precipitammo a leggerli, e il Freud e il Marx. E capimmo che quel «cattivo» libro era stato, per noi, un libro proprio buono. Anche a quel libro, infine, dovevamo il nostro Freud, e anche, che più importava, il nostro Marx. Perché il nostro Marx ci spiegava tutti, nella nostra «indifferenza», nella nostra «educazione borghese». E cominciammo a capirci. E a liberarci dell'« indifferenza ».
Quasi mezzo secolo ci divide, ormai, dalla formulazione di quel sogno di riuscire «tragici e sinceri». Se oggi questa setta degli «indifferenti » sia al tutto spenta, o se ancora abbia i suoi fedeli, più o meno dispersi, in aule scolastiche varie, non lo so. Ma i vecchi «indifferenti», ancora oggi, io me li riconosco a un gesto, a una parola.

“la Repubblica”, 16 novembre 1977

Fernand Braudel. Un Erodoto del nostro tempo (Luciano Canfora)

Fernand Braudel
«Questa storia è carica di anni — scrive Thomas Mann al principio della Montagna incantata — ; perciò conviene narrarla nella forma del passato più remoto». Nel 1924, anno di pubblicazione del romanzo, Mann sa bene che la sua storia copre in realtà i sette anni che vanno dal 1907 al 1914, e che dunque non è propriamente così remota; e perciò con gusto un po' enigmatico prosegue osservando: «succede alla nostra storia quello che accade oggidì agli uomini, compresi anche i novellatori: essa è assai più vecchia dei suoi anni, l'età sua non si può misurare in giorni né in lune, in una parola essa non deve veramente la sua maggiore o minore antichità al tempo». Perché la storia di Castorp sia «più vecchia dei suoi anni» viene chiarito subito dopo: «la sua estrema antichità è data dal fatto che essa viene prima di un certo abisso che ha interrotto la vita e la coscienza dell'umanità. Avviene, o meglio per evitare di proposito ogni tempo presente, avvenne, è avvenuta una volta, in tempi lontani, negli antichi giorni del mondo, prima della grande guerra, con l'inizio della quale ebbero principio tante cose che avevano appena finito di cominciare». E' il 1914, l'anno zero: ciò che avvenne prima è irrimediabilmente passato e perciò remotissimo. E una tale concezione della relatività del tempo ritorna insistentemente nel romanzo dalle prime pagine sugli effetti di straniamento di due giorni di viaggio alle divagazioni sul tempo all'inizio del quarto capitolo. Difficilmente si saprebbe indicare nella narrativa contemporanea una riflessione più vicina alla celebre pagina di Braudel sui tre diversi tempi della storia. E' questa nella prefazione al monumentale II mediterraneo nell'età di Filippo II, la cui tripartizione rispecchia appunto quei tre diversi «tempi». Il primo, scrive Braudel, riguarda «una storia quasi immobile» la storia dell'uomo nel suo rapporto con la realtà fisica; il terzo — che ne è l'antitesi — è quello della storia tradizionale «caratterizzato da un movimento rapido e incessante, ma di superficie»; a metà strada tra i due vi è per Braudel una «storia lentamente ritmata, la storia sociale».
Era la prima volta che uno storico relativizzava il tempo, cioè la «forma a priori» del racconto storiografico. Una tale nozione è ormai senso comune della storiografia contemporanea.
La data ufficiale di questa intuizione di Braudel è il 1949, quando fu pubblicato il grande libro sull'età di Filippo II. Ma il ben più remoto atto di nascita di quel libro è molto vicino alla Montagna incantata di Mann: è del 1927, quando Braudel allora venticinquenne professore di storia al liceo di Algeri, chiedeva e otteneva dalla locale facoltà di lettere di tenere delle conferenze sulla storia della Spagna nei secoli diciassettesimo e diciottesimo. Decano alla facoltà di Algeri Louis Gernet, l'antropologo della Grecia antica: è merito di Riccardo Di Donato aver trovato le lettere di Braudel a Gernet relativa a questo corso di conferenze. Lì è già tracciato il programma che prenderà poi corpo nel Mediterraneo nell'età di Filippo II.
Difficilmente una coincidenza così singolare saprebbe meglio illustrare il fenomeno capitale del secolo apertosi con l'anno che a Mann parve un inizio. Esso consiste nella caduta della separazione tra storiografia e narrativa. Musil e Mann hanno scritto libri di storia tanto quanto Braudel e Hobsbawm. La riflessione di Braudel sui tempi prospetticamente variabili della storia può considerarsi, legittimamente, sia come l'atto di morte della vecchia storia sia come il bilancio di decenni di autocritica e di riflessione della narrativa su se stessa.
Due anni dopo il carteggio tra Braudel e il decano di Algeri, nel 1929 nascevano le Annales, sotto l'impulso di Marc Bloch e Lucien Febvre. Mai nascita fu più tempestiva. Si ripete ed è sostanzialmente vero che la rottura rappresentata dalle Annales rispetto alla storiografia positivistica produsse l'allargamento del «territorio dello storico». Orbene, questo allargamento era anche un aspetto della rottura dei cancelli tra storiografia e narrativa, e, al tempo stesso, della fine di due centralità: quella politico-diplomatico-rnilitare nella storiografia e quella dell'eroe protagonista nella narrativa. Rotti quei cancelli, il territorio dello storico diveniva d'un tratto immenso: come la realtà che Erodoto, unico storico totale del mondo greco orientale, ha fatto irrompere nella sua sconfinata «ricerca».
E' comprensibile e giusto che il bersaglio della «nuova storia» fosse la storia detta polemicamente evenemenziale, quella cioè che — come soleva dire Marrou — «crede che i fatti ci stiano ad aspettare prefabbricati in seno ai documenti». «Diffidiamo di questa storia — scrisse Braudel — quale i contemporanei l'hanno sentita, descritta, vissuta, al ritmo della loro vita, breve come la nostra. Essa ha la dimensione delle loro collere, dei loro sogni e delle loro illusioni».
Gli storici delle Annales tra i quali fu presto in posizione di rilievo anche Braudel, non amavano richiamarsi esplicitamente al marxismo, anche perché negli anni del loro sorgere ed affermarsi essi avevano sott'occhio del marxismo la più schematica delle contraffazioni. Eppure è quasi superfluo dire oggi, oltre mezzo secolo dopo, che senza l'irruzione del marxismo nel pensiero storico, l'ampliamento del «territorio dello storico» predicato dalle Annales sarebbe stato impensabile. «Due strade sono aperte dinanzi a noi per scrivere questo libro — scrive Braudel nella introduzione alla sua opera più matura e profonda, Capitalismo e civiltà materiale (1967) — : guardare innanzitutto ai vincitori, poi rapidamente, schematicamente agli altri, le masse e la loro storia, peraltro maggioritaria: è la soluzione abituale. Oppure rovesciare l'ordine: porre prima di tutto in primo piano proprio queste masse, quantunque esse siano situate quasi fuor del tempo vivo e ciarliero della storia. Questo — soggiunge — sarà il nostro programma». Qui la lezione del marxismo è operante e fatta propria. In questa pagina inoltre è quanto mai evidente il nesso tra i due termini: l'ampliamento del territorio (la storia delle masse) comporta la assunzione di un «tempo» assai più lento (non quello ciarliero della storia evenemenziale).
Non vi è forse terreno nel quale la teorizzazione astratta risulti così deleteria come quello della storiografia. Braudel — in questo davvero storico alla maniera dei classici — ha sempre tratto i suoi bilanci teorici a margine di possenti opere di ricerca concreta. Né ha mai corso il rischio di cancellare la storia evenemenziale in pro di un racconto storico senza fatti alla maniera di Croce. Per lui sono in fondo legittimi e necessari tutti e tre i «tempi». Eppure vi era nella sua teoria, come, più in generale, nei programmi delle Annales il rischio della fuga nella non-storia: è il caso delle rarefatte storie del clima e degli slittamenti dei ghiacciai abbozzate con virtuosismo illusionistico da Le Roy Ladurie. Esperimenti che hanno provocato ovviamente sussulti passatisti di reazione tradizionalista e che sottintendevano un accentuato nullismo apolitico.
La grandezza di Braudel è consistita invece proprio nella capacità di pensare la storia nei suoi vari tempi. Nessuna moda strutturalista perciò se lo è mai potuto annettere. In testa al suo libro più letto in Italia (Il mondo attuale) Braudel ha posto una “Grammatica delle civiltà”. Nulla di più lontano dalla scarnificata e onnivalente morfologia strutturalistica. A un certo punto della Grammatica Braudel considera il caso in cui una civiltà rifiuta, come scrive, «l'adozione di beni culturali capaci di mettere in pericolo le sue strutture profonde». E pensa a Bisanzio che secondo uno storico turco si diede agli ottomani nel 1453 perché preferì i turchi all'unione coi latini. Il pensiero passa allora al mondo di oggi e Braudel considera il rifiuto che il mondo anglosassone ha opposto, nel '900, alla rivoluzione comunista. Ma l'analogia si dissolve subito in una riflessione specifica: «il no è categorico da parte dei paesi germanici e anglosassoni; meno netto e definitivo da parte della Francia, dell'Italia e degli stessi paesi iberici. Si tratta probabilmente di un rifiuto posto da una civiltà ad un'altra. Potremmo dire meglio che se l'Europa occidentale adottasse il comunismo, lo organizzerebbe probabilmente in modo diverso, come essa ha già fatto per il capitalismo, costituitosi in forme diverse da quelle ad esempio degli Stati Uniti». Forse vi è in queste parole anche il nostro domani.

“il manifesto”, 29 novembre 1985

29.8.14

Le Carré (di Goffredo Fofi)

Un bilancio sull'opera di Le Carré di circa trent'anni fa. Il meglio lo scrittore lo aveva già dato e quel che è venuto dopo (anche di qualità) non aggiunge moltissimo al quadro. Quello che non regge al tempo è la qualifica di “cinico”. Forse era esagerata anche allora. (S.L.L.)
John Le Carré
Di spie e agenti segreti era piena la letteratura poliziesca, e c'era già stato Conrad a dimostrare come potessero essere gente comune, maldestra, mimetizzata senza sforzo perché, all'apparenza, "come tutti". Ma la prima spia moderna, prima di una lunga fila, fu Ashenden l'inglese, nel romanzo omonimo di Maugham. Pochi in Italia lo conoscono, lo pubblicò Garzanti molti anni fa e non l'ha mai ristampato. Purtroppo, perché è un romanzo assai bello.
Maugham aveva fatto la spia in Svizzera e in Russia durante la prima guerra mondiale, agli ordini dell'Intelligence Service. Molti scrittori, prima e dopo di lui, avevano passato informazioni, a pagamento e no, al governo di Sua Maestà: anche Kipling. Ma dopo Maugham vennero Greene, Ambler, Le Carré, tre ottimi scrittori, che seppero servirsi del loro periodo più o meno breve di attività spionistica "regolare" per derivarne idee e sfondi per tanti romanzi. Le sue caratteristiche erano state fissate da Maugham: protagonisti ambigui e spesso notturni, in genere mediocri; intrecci serrati e complessi condotti con ritmo cinematografico e (Ambler) con grande uso di flashback; riflessioni morali, insistite (Greene) o appena accennate (Ambler); perfetta padronanza delle logiche della politica internazionale.
L'avvento di Le Carré ha dato al genere nuovo fiato, ponendolo subito in alternativa ai fasullissimi James Bond di Fleming, ma non si può dire che la novità sia stata enorme, rispetto ai suoi predecessori. Semplicemente, Le Carré ha servito la Regina dopo la guerra e non prima o durante, e conosce meglio di Greene e di Ambler come la politica internazionale si è evoluta, e come sono cambiati i meccanismi che la reggono: più spietati, certamente più cinici.
L'altra novità è di tipo morale. Di Greene, cattolico per conversione, non si può dire certo che sia un cinico, e neanche del miglior Ambler (La maschera di Dimitrios, L'eredità Schirmer). Di Le Carré sì. La sua morale è semmai quella del gruppo, del "Circus" londinese formato dai suoi superiori e colleghi e guidato dall'ineffabile Smiley, ma non implica di per sé un'adesione ai "valori occidentali", alla tradizione inglese, all'emblema della Regina. C'è anzi, nei loro confronti, una buona dose di sfiducia, e nei confronti del lavoro scelto un semplice scrupolo di efficienza.
La spia deve lottare contro altre spie. "Spia" non è una parolaccia, in inglese, e in questi romanzi non lo è neanche, a ben vedere, se riferita alle spie di altri paesi; diventa tale soltanto quando indica dei traditori, della gente passata dall'altra parte. E che, più che la patria, a tradito il clan. Il sottomondo che le spie popolano s'intreccia con quello della politica, e non potrebbe essere altrimenti, ne è la faccia più oscura. Le spie anzi, per quanto ciniche, rischiano e spesso pagano; quelli che stanno "sopra" non rischiano. Povera gente, gente miserabile è la loro fauna a rendere così vivi e credibili i romanzi di Le Carré.
Le Carré è però miglior scrittore quando ha ambizioni meglio nascoste nelle storie e negli intrecci che non quando si diffonde a spiegarle. In alcuni casi rivela allora anche una qualche debolezza di giudizio (per esempio in La tamburina, che davvero non riesce a dare le loro ragioni né a israeliani né a arabi, nella sua logica di "un colpo al cerchio e uno alla botte"). E francamente dal punto di vista della complessità "letteraria" Le Carré non è un Pinter, anche se Pinter lo ha più o meno copiato nella sua sceneggiatura di Quiller memorandum.
Non a caso, anche i film derivati da Le Carré, pochi in confronto a quelli derivati da Greene e da Ambler anche da altri suoi epigoni come Deighton e Forsyth, sono più interessanti quando tratti dai primi libri (La spia che venne dal freddo di Ritt, con un ottimo Burton; Chiamata per il morto di Lumet, con un'indimenticabile Signoret) che non quando tratti dagli ultimi (i televisivi con Alee Guinness nei panni di Smiley, o l'insulso La tamburina di G. R. Hill). La forza della letteratura di spionaggio moderna sta anche nel suo essere “cinema” , influenzata dal cinema, e influenzante il cinema, basata sull'azione e la velocità, pur nella complessità, della "trama". Rinunciando parzialmente a questo, Le Carré pretende alla grande letteratura (cioè a Conrad) ma non sembra in grado di raggiungerla, e può perdere l'amore, l'interesse, la passione con cui i suoi lettori lo seguono. Sono uno di quelli, perché credo in una letteratura che abbia ancora qualcosa da raccontare che non sia per esempio la solita autoidealizzazione narcisistica dei letterati italiani, ma da un po' di tempo in qua mi scopro ad aspettare con meno ansia "l'ultimo Le Carré".


“L’Espresso”, 25 giugno 1985

Diderot in Russia. Il filosofo e la zarina (Giuseppe Scaraffia)

Museo del Louvre, Louis-Michel Van Loo, Ritratto di Diderot
Sul finire dell'agosto 1763, Diderot, ormai sessantenne, iniziò un viaggio lungo e disagevole per conoscere Caterina di Russia. Voleva ringraziarla di persona per la generosità con cui gli aveva lasciato la sua biblioteca, dopo averla acquistata, in cambio di quindicimila lire e di un vitalizio. Tale somma riparava l'ingratitudine degli editori dell'Encyclopédie e la sorda opposizione del governo, sempre pronta a ridestarsi, aggravando le fatiche del filosofo.
Con quell'aiuto Diderot potè costituire una dote alla figlia Angélique, tanto più necessaria vista la natura interessata del futuro genero. Arrivato a Pietroburgo dopo un viaggio faticoso, destinato a minare irreparabilmente la sua salute, Diderot ricevette una gelida accoglienza dallo scultore Falconet, da lui raccomandato alla sovrana. Nonostante le gentilezze della zarina, la vita di corte fu fonte d'innumerevoli disagi per un uomo abituato ad ammettere solo le gerarchie dello spirito. I cortigiani sorridevano delle sue goffaggini.
Il modesto abito nero, da lui indossato abitualmente, dovette essere sostituito da un variopinto costume da corte, dono della sua protettrice. Aveva con lei delle lunghe udienze, durante le quali parlava liberamente, lasciando fluire l'onda dell'entusiasmo e i maligni raccontarono che la zarina aveva dovuto frapporre tra sé e il suo interlocutore una tavola, per sfuggire alle cordiali pacche del filosofo. In quel periodo scrisse un ottimo, quanto inutile piano per un'università russa e un lungo saggio politico.
La zarina raccontò al principe de Ligne: «Siccome, più che parlare, l'ascoltavo, un testimone ci avrebbe preso lui per un severo pedagogo, ed io per la sua ultima allieva. Probabilmente lui lo credette, perché, dopo un po', non vedendo realizzarsi nessuna delle innovazioni consigliatemi nel governo, se ne mostrò stupito, con una sorta di fierezza scontenta». Diderot rimase sordo ai richiami di Caterina al realismo politico. «Sono convinta, confessò, che da allora provò compassione per me, pur guardandomi come uno spirito ristretto e volgare. Da quel momento mi parlò di letteratura e la politica scomparve dai nostri dialoghi».
Eppure l'esperienza russa fu fondamentale per Diderot, in quanto lo pose a contatto con uno dei massimi rappresentanti del despotismo illuminato settecentesco, con una donna intelligente e cinica, macchiatasi di un delitto, pur di salire sul trono. Dalla sua esperienza di corte nacque il Saggio sui regni di Claudio e di Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca (Sellerio), con cui il filosofo identificava il suo disagio nei confronti del potere. In questo grande saggio, tradotto, per la prima volta Italia, con grande abilità da S. Carpenetto e L. Guerci, preceduto dal coltissimo saggio di Luciano Canfora, Diderot difende in Seneca il filosofo disceso nel turbinio sordido della prassi. Nell'indifferenza dello stoico per le ricchezze elargitegli dall'imperatore, l'enciclopedista ribadiva la sua indipendenza nei confronti della donazione russa. La gratitudine senza sosta ribadita per la zarina era il vano tentativo di umanizzare un rapporto sostanzialmente fallito, di attenuare il gelo emanante dai doni elargiti con falsa generosità da un potere sordo ai suoi doveri. Diderot lavorò a questa difficile apologia con uno zelo reso ancora più commovente dal declinare della sua salute. In queste pagine l'illuminismo parla dell'inevitabilità del rapporto dell'intellettuale con il potere e dell'orrore, del fallimento inevitabile in esso implicito.
Tra le righe, sempre presente, ora esplicitamente, ora mascherato, Rousseau, l'amico di un tempo, appare, nel suo voluto isolamento, l'antitesi della generosa implicazione suggerita da Seneca e dal suo apologista e insopprimibile, nonostante gli attacchi, affiora il sospetto che quella sarebbe forse stata la via giusta, la soluzione impossibile a un problema insolubile.

“il manifesto”, ritaglio senza indicazione di data, probabilmente1986

Il cane con un occhio solo. Un racconto di Mario Bellatin

Mario Bellatin
In questo paese, durante gli ultimi quattro anni, sono morte più di quarantamila persone in circostanze violente. Oltre all'inusuale quantità di vittime, quello che salta agli occhi è la crudeltà e l'apparente assurdità con cui questi crimini sono stati compiuti. In mezzo a questa violenza sfrenata, il mio amico Camilo si trova ricoverato in ospedale. Soffre di un cancro che inizia a espandersi, di un cancro provocato, forse, dal non aver considerato in tempo la sua condizione di portatore di Hiv. 
Il mio amico Camilo è un militante. Ha partecipato a quante campagne gli è stato possibile a favore dei diritti delle minoranze. Ha intrapreso anche iniziative affinché le persone si facciano gli esami il prima possibile per conoscere la propria condizione di portatrici o meno del virus dell'Hiv. È strano che proprio una persona con la sua storia clinica non si fosse mai sottoposta a un esame simile. Quando gliel'ho chiesto mi ha detto, guardandomi fisso negli occhi, che aveva avuto paura dei risultati. Quando gli ho ricordato che lui sapeva perfettamente che un risultato positivo scoperto in tempo dava alle persone la possibilità di vivere una vita normale, si è messo a piangere. 
Il fatto è che quando hanno scoperto la presenza di un cancro linfatico nel suo corpo abbiamo dovuto affrontare un problema in più: Camilo ci ha proibito di informare qualcuno, e men che meno la sua famiglia, della presenza del virus nel suo sangue. Abbiamo mantenuto questo atteggiamento per circa una settimana. Ho parlato, controvoglia, con il suo medico curante per chiedergli di occuparsi del caso con discrezione. Camilo in quel periodo, ancora padrone di una forte vitalità, si appellava al fatto che fosse un diritto che aveva come individuo quello di decidere chi dovesse sapere o meno la verità sul suo corpo. Noi, parlo di me e di un altro amico, ascoltavamo in silenzio le sue argomentazioni e pensavamo che per certi versi potesse avere ragione. 
Nel frattempo, i medici e le infermiere entravano e uscivano dalla stanza. Facevano diversi esami. Portavano via il corpo di Camilo e lo restituivano alcune ore dopo, generalmente esausto. Quando i medici hanno chiarito il caso, cioè quando sono arrivati al punto in cui erano quasi sicuri delle condizioni del paziente e delle misure che avrebbero dovuto adottare, ci hanno detto che non potevano continuare a mantenere la discrezione. Poi hanno riempito sulla testiera del letto di Camilo un foglio su una cartella che diceva tutte le malattie di cui soffriva il paziente. Si trattava della cartella clinica a cui a partire da quel momento gli impiegati dell'ospedale avrebbero fatto riferimento per cercare di portare avanti il caso. Chiunque entrasse nella stanza avrebbe potuto leggerla. 
È quello che è successo. L'ha letta sua madre e da allora il problema più grande non è stato la cura che doveva seguire Camilo ma lo scontro tra una madre e un figlio per aver vissuto una relazione basata sulla menzogna. La madre, una stimata scienziata, ha detto tra le urla che quella situazione l'aveva descritta in uno dei suoi saggi più conosciuti, in cui parla di situazioni difficili da spiegare. Aver scoperto che suo figlio era vittima del cancro l'ha condotta al fatto che ha descritto nel suo libro in cui parlava di un'istituzione conosciuta come la Cittadella Finale. 
L'edificio, situato in periferia, in una determinata zona del paese che si conosce come il Paradiso delle Donne Assassinate, Ciudad Juárez, dove rinchiudono a forza le persone affette da malattie trasmissibili, è stato creato con lo scopo di evitare che il contagio si diffonda tra la popolazione. Lo scritto parla di una società in cui gli abitanti, per ragioni abbastanza complicate che hanno a che vedere con una certa impronta di carattere politico, accettano ben volentieri la reclusione e spesso rifiutano il libero arbitrio. Alcuni cittadini chiedono addirittura, anche se sono sani, di essere confinati. Lo fanno perché, in generale, le condizioni di vita all'interno sono meno difficili rispetto a fuori dato che, per mettere a tacere in qualche modo le proteste che suscita tale metodo di isolamento, si danno ai reclusi vantaggi di cui non godono le persone sane. Molti internati sono giovani drogati, anche se nella Cittadella Finale è proibito il consumo di stupefacenti. La madre parla nel suo saggio del traffico di sangue infetto, che ricevono quelli che vogliono avere un motivo di essere ricoverati, in cambio di partite di anfetamine che vengono introdotte attraverso i rombi della rete di recinzione. 
La Cittadella Finale è circondata da una rete di filo spinato che l'umidità ha riempito di ruggine. Durante la notte d'estate a cui si riferisce la madre, un membro della Banda degli Universali si avvicina all'istituzione accompagnato da uno dei suoi cani da combattimento più anziani. La madre chiama Banda degli Universali i gruppi di giovani che il sistema relega ai sobborghi nelle città industrializzate. Una volta davanti ai rombi, l'Universale di cui parla la madre si toglie la camicia, gli stivali militari e gli strettissimi pantaloni gialli che indossa. 
Il corpo pallido rimane nudo sotto la luce di una luna che illumina una campagna deserta. L'unica cosa che conserva sono delle polsiere da cui fuoriescono alcune punte d'acciaio. Il cane da combattimento al suo fianco inizia a lanciare lievi guaiti. Lo fa indicando con il muso l'interno della Cittadella Finale. Il cane ha solo un occhio. Sul dorso mostra una serie di tagli provocati sicuramente da uno dei tanti combattimenti a cui è stato obbligato. Si agita quando sente che alcune persone si avvicinano dall'altra parte. 
Compaiono tre giovani di età simili a quella dell'Universale. Come tutti i reclusi sono vestiti con una tuta da lavoro blu scura in cui è cucito lo stemma dell'istituzione. Chiedono se l'Universale ha portato le pastiglie. Dicono inoltre che non è necessario che si tolga i vestiti. L'Universale non risponde. Dà al cane l'ordine di calmarsi. Consegna una serie di tubetti di pastiglie e offre poi la vena del braccio destro avvicinando ancora di più il corpo alla rete. Uno dei reclusi estrae dalla tasca una siringa con una sostanza scura. Attraverso i rombi l'Universale riceve il sangue infetto senza fare nessun gesto. I reclusi spariscono nell'oscurità. Prima assicurano l'Universale che non c'è possibilità di errore. Hanno mescolato il sangue di tutti e tre. Vedendoli correre, il cane fa un salto. Vuole inseguirli. Emette un paio di guaiti prima di tacere di nuovo. L'Universale guarda il segno che l'ago gli ha lasciato nel braccio. Dopo aver passato le dita sul punto che ha scelto scaccia il cane e si veste lentamente. Esita prima di mettersi gli stivali. Poi raccoglie la siringa abbandonata a terra e la lancia dall'altra parte con un movimento brusco. 
Una volta che la madre si calma, chiama Camilo come suo figlio il guerriero. Come il personaggio che riuscirà a vincere il cancro. Sembra che voglia trasformare suo figlio in un elemento di qualche libro dove possa descrivere le cose facili da spiegare. È così che da quel momento il mio amico Camilo è nelle mani delle indicazioni scritte sulla cartella appesa sopra il suo letto. La prima chemioterapia non provoca maggiori risultati negativi. Il mio amico Camilo esce dall'ospedale con la testa rasata e un paio di denti in meno, si tratta dei denti finti che devono essere asportati a qualsiasi persona affronti un trattamento di chemioterapia.
Una delle prime cose che fa è andare al suo bar preferito, rivedersi con i suoi amici di sempre. Mi rifiuto di accompagnarlo. Prima di tutto perché so che, a differenza dell'edificio descritto dalla madre, il mio amico Camilo porterà la sua libertà verso limiti inimmaginabili. Ingerirà la maggior quantità di cocaina possibile per poi fare il giro delle stanze buie cercando di fare sesso non protetto.
La seconda seduta di chemioterapia è più dura. Il mio amico Camilo non esce più con lo spirito di sempre anche se alla sua uscita non rinuncia ad andare al bar e farsi qualche tiro. Alla terza va direttamente dall'ospedale a casa di sua madre, che cerca di curarlo nel miglior modo possibile prestandosi addirittura, dopo aver seguito un corso improvvisato dalle stesse infermiere dell'ospedale, a iniettare lei stessa a suo figlio le sostanze rivitalizzanti di cui ha bisogno chi ha affrontato un simile decorso.
La madre, come c'era da aspettarsi, si è punta un dito durante il procedimento. Camilo non ha retto la quarta seduta. I suoi organi hanno smesso di funzionare. In ospedale è stato dichiarato inguaribile. Nonostante tutto, è ancora in vita. Hanno appena scoperto che il cancro si è esteso a tutto il corpo. Sperano che esca da questo viaggio di andata e ritorno per la morte affinché dica, con i suoi cinque sensi, se vuole vivere o no. Intanto, continuano a comparire fosse clandestine nella parte nord del paese. Hanno appena catturato un gruppo di bambini sicari e un uomo che ha riconosciuto di aver fatto sparire con l'acido circa trecento cadaveri.
(traduzione di Chiara Muzzi)


PROFILO DI MARIO BELLATIN
Uno stile disadorno e insieme enigmatico
Considerato uno degli scrittori più interessanti e innovativi dell'America Latina contemporanea, Mario Bellatin è nato a Ciudad de Mésico nel 1960, da genitori peruviani, ed è cresciuto in Perù, dove per due anni ha studiato teologia per poi laurearsi in Scienza delle Comunicazioni all'Università di Lima. Ha anche frequentato, nella seconda metà degli anni Ottanta, la Scuola internazionale di Cinema e Televisione di San Antonio de los Banos, a Cuba. Nel 1995 si è trasferito di nuovo in Messico, dove nel 2001 ha creato la Escuela Dinámica de Escritores, una singolare scuola di scrittura che nel 2010 è diventata anche casa editrice. Nel 1986 ha pubblicato a Lima il suo primo libro, Mujeres de sal, al quale sono seguiti, negli anni, numerosi titoli caratterizzati, oltre che dalla brevità, da una scrittura via via più frammentaria e disadorna, la cui semplicità iperrealista chiede al lettori di decifrare e interpretare anche ciò che l'autore sceglie di tacere. 
Tra le venticinque opere di Bellatin pubblicate fino a oggi, ricordiamo Efecto Invernadero (1992), Canon perpetuo (1993), Salon de belleza (1994, inserito nel 2007 tra i «Cento migliori romanzi in spagnolo degli ultimi venticinque anni»), Damas Chinas (2006), El jardin de la señora Murakami (2000) , Flores (2000, Premio Xavier Villaurrutia), La escuela del dolor humano de Sechuán (2001), Jacobo el mutante (2002), Perros héroes (2003), Lecciones para una liebre muerta (2005), El gran vidrio (2007, Premio Mazatlán de literatura), Los fantasmas del Masajista (2009), Disecado (2011), La clase muerta (2011). Nel 2005 Alfaguara ha pubblicato una raccolta dei suoi testi nel volume Obra reunida. Le opere di Bellatin sono pubblicate in una decina di paesi, tra cui la Francia (dove nel 2000 è stato finalista al Premio Médicis per il miglior romanzo straniero pubblicato in francese), gli Stati Uniti (dove il «New York Times», con il quale lo scrittore saltuariamente collabora, gli ha dedicato una recensione entusiasta), in Germania e in Italia, dove sono usciti «Dama cinese» (Bookever 2007,) e «Salone di Bellezza» (La Nuova Frontiera 2011). Il racconto che pubblichiamo per gentile concessione dell'autore è finora inedito.

"il manifesto", 19 luglio 2011  

27.8.14

Roma imperiale. I ritratti del potere (Caterina Mascolo)

Ho trovato questa recensione di una mostra ai Musei Capitolini su un vecchio “alias” e mi è sembrata nella sua brevità assai ben fatta, giacché riesce a dare agilmente conto di una questione centrale nella storia dell'arte antica e a suggerirne le implicazioni teoriche. E per di più invoglia ad una visita (o, per chi legge in ritardo, la fa rimpiangere).
In rete ho poi scoperto che al tempo dell'articolo Mascolo aveva 22 anni. Mi sono commosso. Da vecchio, pedante professore ho notato qualche giovanile intemperanza stilistica, e la cosa mi aveva tirato fuori una lacrimetta; ora l'intenerimento addirittura mi fa sperare: se ci sono in giro ragazze così brave, non tutto è perduto. (S.L.L.)
Ritratto di Caracalla 
«Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento» (H. Cartier-Bresson). Anche il ritratto di qualsiasi individuo, nell’antichità greca e romana, si presta a essere interpretato come un manifesto per l’eternità e come un mezzo per sconfiggere la morte attraverso la salvaguardia della fisionomia. Non va però trascurata la fondamentale funzione dell’effigie con il personaggio ancora in vita; basti pensare allo scopo celebrativo dei ritratti degli imperatori, che, sparsi e riconoscibili in tutto l’impero, veicolavano una sorta di biografia «facciale» autorizzata del dinasta, aspetto affrontato anche dalla mostra I ritratti Le tante facce del potere, ai Musei Capitolini fino al 25 settembre (a cura di Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce).
Ma cosa si intende per ritratto? Tre le condizioni fondamentali stabilite a suo tempo da B. Schweitzer e in parte ancora condivisibili: la raffigurazione di un personaggio specifico, la riconoscibilità dello stesso nella sua unicità e la riproduzione non solo fisionomica, ma anche caratteriale del soggetto (del resto Cicerone considerava il volto «lo specchio dell’anima»).
Il ritratto romano si è da sempre configurato, nell’ambito dell’antichistica, come uno dei temi più dibattuti: già J. Wickhoff vi riconobbe una delle forme artistiche più originali e autonome dell’arte romana; da tale premessa gli studi degenerarono in considerazioni razziali sulla presunta genuinità, tutta autoctona, dei volti della Roma repubblicana (IV-I secolo a.C.). La consistenza delle presunte energie indigene è stata però da tempo sconfessata, mentre maggiore attenzione si è prestata di recente ai processi di rielaborazione o semplificazione dei modelli greci.
Così la sezione iniziale della mostra «Egitto, Grecia, Roma» consente un eccezionale, per quanto complesso (per archeologi e non), accostamento tra la ritrattistica dell’Italia centrale in terracotta, bronzo e marmo e diverse creazioni greche, come il ritratto del commediografo Menandro: ben si comprende allora come le formule fisionomiche e formali elaborate in Grecia vengano recepite con prontezza sul suolo italico. Un’altra erronea tendenza ha riconosciuto nel ritratto antico un’evoluzione rettilinea, con esordi «ideali» culminati nel «naturalismo»/«verismo» dei tratti (termini spesso usati come sinonimi, senza che lo siano).
Eppure, non si può essere schematici nel tracciarne la storia e non lo si può fare con i nostri parametri di giudizio; che errore, infatti, considerare un ritratto «ideale» come non individuale (e di converso, pensare che qualche ruga basti a rappresentare con fedeltà un personaggio!); piuttosto, i due poli sono tra loro comunicanti, a volte persino sovrapposti. L’ossessione di ricercare la verosimiglianza in questi volti è poi tutta moderna: d’altronde, già Plinio il Vecchio denunciava il crollo di popolarità del ritratto somigliante… Semmai, le ricerche attuali tendono a cavillare – eccessivamente? – sull’aspetto formale, vivisezionando ogni disposizione di capigliatura mediante una precisa conta dei riccioli per l’individuazione dei tipi degli imperatori come dei «privati». Iper-reazione ai tentativi psicologizzanti di un tempo?
Se è meglio non cadere in facili equazioni (una bocca serrata nel III d.C.? Ovvio, è un’età d’angoscia!), le letture solo analitiche di queste immagini consentono sì una precisa datazione al quarto di secolo, ma rischiano di trasformarsi in studi esangui e di trascurare l’impatto dei ritratti sugli spettatori antichi. Nel catturare i tratti individuali di qualsiasi personaggio la realtà si intreccia alla finzione, l’arte alla mimesi; i piani si amalgamano a tal punto da non consentire più una lucida distinzione tra i diversi intenti. La maschera «pirandelliana» ben si applica specie sui volti dei potenti: la bocca serrata di un Traiano corrisponde a un atteggiamento reale che fu dell’Optimus, o è piuttosto un piglio energico costruito ad arte, quasi a mo’ di spot elettorale? O ancora, l’«espressiva volgarità» di Vespasiano ricalca i tratti di un provincialotto asceso alla porpora o mira a marcare quei requisiti di praticità e concretezza necessari dopo la caduta del vanesio Nerone?
A proposito di maschere. È proprio da quelle in cera degli antenati, tanto efficacemente descritte da Polibio – altrimenti sconosciute per via archeologica, se non in pallidi riflessi –, che l’esposizione prende avvio, snodandosi poi attraverso altre sezioni tematiche. Possono principi e privati uniformarsi agli dèi, almeno sul piano figurativo? Come si ricostruiscono le fisionomie di illustri predecessori e celebri personaggi (Omero, Esiodo etc.) senza che se ne conoscano i precisi tratti? Quale il linguaggio dei corpi, delle vesti e degli attributi? Le teste che spesso ci paiono mozzate vanno infatti ricollocate su statue stanti in varie pose, in abiti civili, loricate o nude; ciascuna tipologia comunicava uninsieme di messaggi che consentivano allo spettatore antico di interpretare
l’immagine senza – o quasi – margine d’errore. Ancora: la tendenza a copiare le mode dei vip (ossia, i membri della famiglia imperiale) si riscontra anche nel mondo romano: l’adesione ai modelli è tanto entusiasta da non limitarsi, in alcuni casi, a soli prestiti d’acconciatura, ma da estendersi persino alle stesse fisionomie. Ecco dunque perché tanti piccoli Traiani di ogni ceto sfilano in mostra, assecondando una tendenza che oggi avrebbe dell’inquietante: basti immaginare ogni cartellone pubblicitario con i volti calcati su quello del leader politico di turno…
Una Vanity Fair è infine assicurata dalle matrone romane, algide e belle come dee, pettinate con vistose ed elaborate acconciature che si spingono fino al kitsch estremo (per il nostro gusto): sensuali corpi divini – replicati da statue di Afrodite, ad esempio – in un curioso patchwork possono infatti abbinarsi a teste persino di anziane.
In conclusione, la mostra funziona sul piano estetico/scientifico, e il voluminoso catalogo si pone come un prezioso vademecum non solo per l’allestimento, ma anche per l’intero stato della questione.

“alias – il manifesto”, 2 luglio 2011

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