30.6.15

Racconti. Un frammento da Stesicoro

Museo archeologico, Vulci
Achille e Aiace giocano a dadi.
Pittura vascolare attica V secolo a. C. 
Non è vero il racconto; tu non sei
salito sulle navi dai bei banchi,
né sei arrivato alla rocca di Troia.

In Lirici Greci, Stesicoro, Frammento 6, S.E. Dante Alighieri (Albrighi,Segati e C.), 1967

Traduzione S.L.L.

"da molto tempo...". Una poesia di Simone Zafferani (Terni, 1972)

Simone Zafferani
da molto tempo e per molto ancora
non posso fare a meno di voi
case dell'infanzia che instancabilmente
vengo a visitare ogni notte, carico
di morti accidentali e ricordi invincibili.
Oscenamente vengo a vedervi combaciando
me con me, con quello che ho lasciato ma
non ne ho mai abbastanza di voi
della vostra luce al crepuscolo - cerco
dove sistemarmi, mi affaccendo come un fantasma
che vuole attraversare le porte chiuse,
un uccello febbrile e ottuso che sbatte
sugli spigoli vivi del dolore.


Da L'imprevisto mondo, Milano, La vita felice, 2015

Le piccole rose. Una poesia di Vincenzo Mascolo (Salerno, 1959)

Vincenzo Mascolo
Verrà il tempo, mi dici,
che torneranno a fiorire le piccole rose
che abbiamo legato ai nostri balconi
con un filo di rame sottile
per tenerle al sicuro dal vento.

Verrà quel tempo, mi dici,
e allora di primo mattino
le scioglieremo ad una ad una
dal filo e resteremo a guardare
che si dischiudano al sole.

Ci sarà un tempo, ti dico,
per tutte le cose,
anche per vedere sbocciare
e poi sfiorire di nuovo
le nostre piccole rose.

Parole. Astensione (Jacopo Manna)


L'immagine di Ponzio Pilato in un dipinto di Duccio di Buoninsegna
 La parola “astensione” compare nella nostra lingua tardi, in maniera quanto meno dibattuta: Niccolò Tommaseo negli anni '60 dell’Ottocento inserisce nel suo celebre vocabolario il termine indicandolo come morto nel significato di “atto dell’astenersi”, specificando però subito dopo che “certi moderni” lo “usano per l’astenersi che fa dal dare i suoi suffragi l’elettore, o deputato, o altro simile” ma che “potrebbesi almeno dire «astenzione»” [con la zeta, ndr] così da richiamare più direttamente il latino “abstentio”, che si trova quasi esclusivamente nel linguaggio dei giuristi romani. Quanto al riflessivo “astenersi da una cosa”, viene cautamente spiegato che indica “non privarsene affatto, ma usandola con più o men parsimonia”. Gli anni in cui Tommaseo iniziò, dopo lunghissima gestazione, a pubblicare il suo fondamentale e interminabile dizionario furono allo stesso tempo gli ultimi della sua vita e i primi di quella dello Stato italiano: un intero mondo di termini e significati si radicava nel linguaggio comune, man mano che le novità del paese unito entravano a far parte della vita quotidiana di sempre più persone. Fra queste novità c’era pure la possibilità di votare: all’epoca ancora un privilegio per pochi tanto che, come abbiamo visto, il vocabolo con cui si indica la rinuncia volontaria ad esprimere la propria preferenza viene dato per defunto e allo stesso tempo per resuscitato. Si può usare questa prerogativa “con più o men parsimonia”? La parsimonia (sempre Tommaseo) è l’arte di “conservare, usare e distribuire gli averi, senza né prodigalità né avarizia, ma secondo il dovere e la convenienza” e cioè secondo una forma di ragionevole saggezza. Allora forse tutto dipende da ciò che ci spinge a tenerci lontani dal voto: se consapevoli che anche la nostra decisione di non scegliere è una forma di scelta, sappiamo di produrre comunque degli effetti. Forse.
Nelle ultime tornate elettorali l’astensione è andata crescendo e non è certamente un caso, in un paese che per decenni ha vantato la sua altissima percentuale di affluenza al voto; un dato che gli esperti tendevano - com’è noto - a valutare sempre secondo due interpretazioni opposte: come dimostrazione dell’eccellente salute della democrazia (garantita dalla partecipazione popolare) o viceversa del suo stato cronico (dimostrato dal fatto che ancora il sistema dei poteri non si era andato stabilizzando). Al momento è ancora legittimo considerare l’astensione un non-voto consapevole, una scelta di non scegliere fatta a dimostrare lo stato di malcontento ed insoddisfazione verso uno schieramento di forze politiche in cui troppi dichiarano di non riconoscersi. Quanto tempo dovrà passare perché, da rinuncia cosciente e significante, si degradi a pura e semplice dimostrazione di disinteresse? E quanto ne dovrà passare perché gruppi e partiti la smettano di calcolare i loro risultati elettorali esclusivamente in termini di percentuale senza curarsi delle cifre assolute? Le cifre assolute sono le sole che permettano di capire quanto uno schieramento, che il conteggio dei voti ha dichiarato vincitore, possa realmente spingersi in avanti nel suo sforzo di trasformare la società. C’è davvero bisogno di farlo notare?
Pare di sì: nel momento in cui scriviamo, i commenti delle segreterie sui ballottaggi sono tutti improntati a minimizzare le sconfitte o tracciare prospettive molto caute sulle vittorie: nessuno sembra prendere sul serio il fatto che nei settantotto comuni coinvolti la percentuale di votanti complessiva è andata sotto il cinquanta per cento.


“micropolis”, giugno 2015

Corso. Il piede sinistro come romanzo di formazione (Massimo Raffaeli)

Mariolino Corso
«Participio passato del verbo correre», perché in effetti non correva ma trottignava per rientrare a momenti nel gioco con affondi impensati e letali; o anche «il piede sinistro di Dio» come ebbe a definirlo sotto il sole di un torrido pomeriggio 1961 a Tel Aviv un tecnico israeliano abbacinato dalla maestria pittorica di quel mancino che sembrava pennellasse; «Mandrake», perché nascondeva la palla e la faceva riapparire come un coniglio dal cilindro o «Matto Birago» (così lo chiamava Gianni Brera) in quanto lunatico, refrattario alla dinamica del gioco e, finalmente, «Mariolino», vezzeggiativo con cui lo apostrofavano i tifosi.
Nato nel veronese a San Michele Extra il 25 agosto del 1941, cresciuto nell'Audace, ala sinistra dell'Inter fra il 1959 e il '73, anzi della Grande Inter guidata da Helenio Herrera, Mario Corso chiude l'ultimo endecasillabo di una formazione («Sarti Burgnich Facchetti...» ne era l'incipit, «Domenghini Suarez Corso» invece ì'explicit) che i ragazzi di allora recitavano a memoria come fosse una poesia. Non gioca da quarant'anni (chiuse la carriera con un biennio al Genoa, fra luci, ombre e un grave infortunio proprio al piede sinistro), ha avuto trascorsi non eccezionali da allenatore e da osservatore per la sua Inter, eppure Corso nel ricordo degli appassionati rimane un classico del nostro calcio, letteralmente un fuori-classe, cioè una figura di atleta o persino di artista che l'attuale calcio formattato (lo stesso che ha condotto sia la divisione del lavoro in campo sia
il principio di prestazione atletica a livelli demenziali e in sostanza suicidi) oggi arriva a ritenere un fastidioso enigma, un problema e in certi casi un deprecabile inciampo. È noto peraltro come Helenio Herrera, preparatore ossessivo e ligio alla dittatura degli schemi, ritenesse Corso la più sfacciata e ondivaga smentita al credo tecnico-atletico di cui si sentiva profeta e dunque pretendesse, ogni anno, dal presidente Angelo Moratti la cacciata di un reprobo che, nel silenzio glaciale dello spogliatoio, pare replicasse agli ispirati incitamenti del Mago col sibilo della sua voce veneta e sardonica, insomma con un Tasi mona...; è noto, altrettanto, come la cacciata del reprobo fosse regolarmente impedita non solo dalla passione che Moratti nutriva per il suo indocile pupillo ma anche, e soprattutto, per la stima di un compagno di squadra che non avrebbe potuto essergli più antipode, Luisito Suarez, un genio cartesiano che bene intendeva la necessità, nell'automatismo degli schemi, di un simile e sempre imprevedibile outsider.
(Non è un caso, nemmeno, che l'idolo di Corso fosse Omar Sivori, se in una foto del '63, scattata al Comunale di Torino prima di un acerrimo Juventus-Inter, si vede il campione italoargentino stringere la mano a Corso mentre con l'altra gli accarezza, con evidente affetto, il viso. Sembra un passaggio di consegne. Intemperante, permaloso e narcisista com'era, per Sivori non è affatto un gesto usuale: chi scrive può testimoniare che il vecchio Omar, quasi in punto di morte, ormai stemperate le vistose asperità del carattere, si riferiva a Corso come a uno dei più grandi campioni con cui aveva avuto l'«onore» - così disse precisamente - di giocare).
Ora, la parabola di Corso è tracciata nel volume, redatto a quattro mani con Beppe Maseri, Io, l’Inter e il mio calcio mancino (Limina, pp. 161, € 16,00). Non si tratta di un libro-intervista e nemmeno di una biografia in senso tecnico o storico ma, piuttosto, di un racconto autobiografico che lo sparring sa tradurre e stilizzare nella voce della prima persona. (Beppe Maseri, va qui rilevato, non è solo un vecchio amico di Corso ma è un decano del giornalismo sportivo, avendo esordito nel '73 sulle pagine del “Giorno” sotto l'egida di Gianni Brera e - per restare alle firme calcistiche di una redazione eccezionale -, di fianco a colleghi quali Mino Mulinacci, Gian Maria Gazzaniga, Piero Dardanello, Gian Mario Maletto e Mario Pennacchia). La voce narrante non tratta il decorso esterno della carriera di Corso né si sofferma sui trionfi di una squadra leggendaria ma indugia, viceversa, sul romanzo di formazione: la famiglia operaia, le scarpe consumate all'oratorio e nei campetti di periferia, poi, da minorenne, il gran salto a Milano, l'esordio fra calciatori acclamati (per esempio Skoglund e Angelillo), il vedere la propria e progressiva affermazione al cospetto del boom economico, mentre tutto cambia vorticosamente all'intorno, dentro e fuori del campo da calcio, con le luci di San Siro in notturna, le trasferte memorabili (la prima Coppa dei Campioni a Vienna, nel '64, l'Intercontinentale contro l'Independiente prima a Buenos Aires poi a Madrid per lo spareggio), il riconoscimento di una classe sovrana, sia pure prodigata a momenti e a ritmi, per così dire, ditirambici. E alcuni paradossi lì per lì insondabili: l'ambiguo, difficile, rapporto con la Nazionale (appena 23 presenze e 4 gol), forse spiegabile con l'annoso dualismo tra Mazzola e Rivera che impediva la presenza di un terzo atipico, ma resta che Corso, incredibile dictu, non ha mai disputato un Mondiale; il fatto che lo scudetto più suo lo abbia vinto al tramonto della Grande Inter, nel campionato 1970/71, giocando da trascinatore e uomo squadra, correndo come non aveva fatto mai in una irresistibile rimonta sul Milan di Rocco. D'altronde il suo repertorio era di pochi colpi, essenziali e micidiali: il dribbling portato da fermo, la rifinitura e talvolta la conclusione in gol, più spesso la beffarda stoccata di un Cyrano del football. Sua firma vera e propria era la punizione «a foglia morta», calciata ovviamente di sinistro e preferibilmente dal vertice destro dell'area, un colpo inferto con l'interno del piede e capace di attivare una parabola all'apparenza molle, prevedibile, ma di colpo spiovente e inabissata in rete. (Chi scrive ha potuto ammirarne la bellezza plastica durante un'amichevole estiva, in provincia, quando Corso indossava la maglia del Genoa: ancora più stempiato e svagato del solito, leggermente appesantito, anche in quella occasione tuttavia la foglia morta, il suo autentico coup de theatre, non aveva mancato il bersaglio scatenando un applauso plateale).
«Sono sempre stato una persona timida e di poche parole», così comincia il racconto autobiografico di Mario Corso. Nella sua svagatezza, e lo si scopre via via , dal racconto, c'è una forte, mai esibita, emotività ed è struggente per esempio venire a sapere come tre anni fa, la notte del trionfo interista sul Bayern a Madrid, quest'uomo si fosse impedito di vedere la partita in tv e si aggirasse invece nelle strade vuote del centro di Milano, con il cuore in allarme, in attesa trepidante di un sollievo e perciò di un boato. C'è una umanità sottaciuta, una malinconia sottile che esce paradossalmente dalla immagine estrosa del campione, il senso lancinante di un bene perduto nell'Italia di oggi, quello che riesce ad associare in una stessa persona un enorme talento e la perfetta normalità. A tutto ciò si riferiva, fingendo di parlare dell'Italia di ieri, un analista sociale troppo presto mancato, Edmondo Berselli, juventino di Campogalliano, il quale aveva dedicato a Mario Corso Il più mancino dei tiri ('96), un libro a futura memoria.


“la talpalibri alias il manifesto”, 6 ottobre 2013 

Gramsci e Labriola (Mario Spinella)

Questa breve nota su Gramsci e Labriola nacque come la voce Labriola di una progettata ( e mai realizzata) enciclopedia del pensiero di Gramsci. La riprendo dal “Calendario del popolo”, ove venne pubblicata come anteprima. (S.L.L.)
Antonio Labriola (Cassino 1843 - Roma 1904), filosofo italiano. Studiò a Napoli con Bertrando Spaventa, che gli fu guida alla conoscenza di Hegel e di Spinoza. Fu più tardi influenzato dal pensiero di Herbart. Dal 1874 professore di filosofìa morale all’Università di Roma. Nel 1876 rese pubblica la sua adesione al movimento socialista e si adoperò, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, per la fondazione del partito socialista e intrattenne un fìtto carteggio con Friedrich Engels. Nel 1896 pubblicò In memoria del manifesto dei comunisti; nel 1897 Del materialismo storico; nel 1898 Discorrendo di socialismo e di filosofia, in polemica con l’anarco-sindacalista Georges Sorel.
L’importanza di Labriola come marxista sta nell’avere affermato con forza l’autonomia del materialismo storico da qualsiasi materialismo metafìsico, l’importanza decisiva dell’azione (praxis) dei gruppi umani organizzati, il carattere anti-ideologico del pensiero e del metodo di Marx. Al marxismo Labriola rimase sempre fedele, in vivace polemica con l’amico B. Croce, che lo aveva abbandonato, dopo un’iniziale adesione.
Nella formazione di Gramsci l’opera di Labriola può considerarsi come essenziale; a lui sono dedicate molte note dei Quaderni. Anche se citato di rado negli scritti precarcerari, va ricordato il giudizio contenuto nell’articolo Achille Loria e il socialismo («Avanti!», ed. piemontese, 29.1.1918): «... la produzione intellettuale del socialismo italiano, che pure con gli scritti di Antonio Labriola aveva avuto un principio così fulgido e pieno di promesse». Tre settimane prima, nel numero del 5.1.1918 del settimanale socialista torinese “Il grido del popolo”, Gramsci aveva fatto pubblicare il terzo paragrafo del saggio di A. Labriola Del materialismo storico, con il titolo Le ideologie nel divenire storico.
Tale è l’importanza che Gramsci attribuiva all’opera di Labriola che, stendendo nel Quaderno 3 (1930) un progetto-programma per una «rivista tipo» scriveva che «la trattazione analitica e sistematica della concezione del Labriola» potrebbe costituire la sezione filosofica di una rivista di informazione critica, storica e bibliografica, dedicata —come dirà altrove (Quaderno 24,1934) — «a un lettore che ha bisogno per svilupparsi intellettualmente di avere dinanzi, oltre al saggio sintetico, tutta l’attività analitica nel suo complesso che ha condotto a quel risultato».
La ragione fondamentale di questo interesse per Labriola deriva, per Gramsci, dal fatto che «in realtà il Labriola, affermando che la filosofia del marxismo è contenuta nel marxismo stesso, è il solo che abbia cercato di dare una base scientifica al materialismo storico». Labriola infatti, preciserà Gramsci riprendendo l’argomento nel Quaderno 11 (1932-1933), fu il primo ad affermare «che la filosofìa della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficiente».
Non si trattava di una affermazione di rilievo secondario. Gramsci sottolinea che tale concezione, dell’autonomia del materialismo storico, era insidiata da due tendenze, che domineranno ancora a lungo nel campo «marxista». Da un lato quella che si rifà al filosofo russo Georgij Plechanov e ricade «nonostante le sue affermazioni in contrario» nel materialismo volgare e nel metodo positivistico. Dall’altro, quella che collega il pensiero di Marx in modo particolare a quello di Kant, «o ad altre tendenze filosofiche non positivistiche e materialistiche».
Nel porsi il problema di quali potessero essere le ragioni del prevalere di tali tendenze rispetto alla corretta impostazione di Labriola, Gramsci osserva che ciò derivava dal fatto che «nel periodo romantico della lotta... tutto l’interesse si appunta sulle armi più immediate, sui problemi di tattica in politica e sui minori problemi culturali nel campo filosofico». Ma, con la conquista dell’egemonia da parte della classe operaia e con la fondazione di un nuovo tipo di Stato, nasce «l’esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive». Anche da ciò — dalla situazione determinata dalla vittoria del proletariato nella Rivoluzione d’Ottobre — scaturiva «la necessità di rimettere in circolazione Antonio Labriola e di far predominare la sua impostazione del problema filosofico».
Coerentemente, Gramsci si avvale di molte posizioni tratte dall’opera di Labriola e dalla sua critica al positivismo e alla sociologia da esso ispirata, per polemizzare con l’impostazione del celebre e diffusissimo manuale di Bucharin La teoria del materialismo storico - Manuale popolare di sociologia, le cui posizioni fondamentali in campo filosofico si ritroveranno, del resto, nella Storia del partito comunista bolscevico redatto sotto la direzione di Stalin, che rappresentò sino al 1956 il fondamentale testo storico-teorico di massa nelle scuole dell’URSS. Malgrado questa valutazione così ampiamente positiva, Gramsci non risparmia tuttavia a Labriola talune non secondarie critiche, in particolare quella di farsi portatore, in qualche caso, «di uno pseudo-storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo»: quelle stesse caratteristiche che Gramsci riscontrerà in Giovanni Gentile. Questi rilievi critici, anche severi, testimoniano della costante attenzione di Gramsci a distinguere il proprio «storicismo» dallo «storicismo» ampiamente diffuso nella cultura italiana prefascista e fascista, che in luogo di essere «dialettico e progressivo» è invece «meccanico e retrivo».


“Il Calendario del popolo” n.293 – anno 33 ottobre 1977

Ezra Pound e i trovadori (Caterina Ricciardi)

«Ezra Pound non è un autore, è una letteratura»: così, riformulando la stereotipa convinzione che il poeta americano più avventuroso del Novecento si presenti come un'enciclopedia in versi ‘cantati', Roberta Capelli esordisce nella sua indagine - la prima sostanziosa in Italia - su Pound e la Provenza in Carte provenzali. Ezra Pound e la cultura trobadorica (1905-1915) (Carocci). Roberta Capelli non è una ‘poundiana', è un'esperta di filologia romanza, ovvero quel che ci vuole per parlare dall'altro lato della staccionata: come sempre, con Pound, bisognerebbe ‘cantare' a due o più voci. Dunque, ben vengano i contributi degli altri rami: si ricostruisce la quercia.
Nel caso della Provenza - un campo così specialistico - questo era necessario. La storia è lunga. Dopo lo Hamilton College, all'Università di Pennsylvania Pound doveva addottorarsi in Studi Romanzi, ed è a quello scopo che nel 1905 parte per l'Europa, puntando sulle biblioteche di Madrid, Parigi, Londra, e tornando a casa col profumo di Provenza e il bagaglio pieno. Il PhD non lo conseguirà mai, neanche quando, negli anni trenta, invierà ai suoi maestri la contestatissima, eppur geniale (oggi lo si vede meglio), edizione di Cavalcanti «rappezzata fra le rovine» (1932). No, l'America non lo riconosce: troppo ‘pasticcione'.
Con occhio selettivo e pesato, come sa fare un filologo, Carte provenzali si addentra in questo tragitto (nessun «pasticcione»), destinato a rivoluzionare la neonata e sbandata poesia del Novecento. I termini generali ormai li conosciamo e li abbiamo assimilati con altri strumenti (i nostri). Ma a padroneggiarli non bastano lo studio attento dello Spirito del Romanzo (1910), gli approfondimenti occasionali, o la bibliografia ad hoc. È bene infatti ripercorrere alle radici i modi/nodi di appropriazione via via conquistati dal re-inventore della cultura del trobar clus. Sappiamo che le albe, le vidas e le personae, le maschere sub specie translationis, della prima fase poundiana, volte a ridare vita e nuova eco a Arnaut Daniel, Bertran de Born, Bernart de Ventadorn, Peire Cardenal, ad altri e al raro Faidit (trovato, con Arnaut, all'Ambrosiana in traduzione musicale, grazie al bibliotecario e futuro papa Pio XI: Achille Ratti), non vengono solo da Robert Browning o dalle provvisorie, lacunose edizioni di allora, e le letture misteriche, non «nozionistiche» (quindi, da Pound benamate), di Joséphin Péladan, rifinite con un pizzico di Remy de Gourmont, ma dai gangli tecnici, musicali - e dallo «spirito» - della poetica occitanica, più aperti a chi della materia ne sa di più: alle radici. Ecco dunque la necessità di parlare nell'armonia del «contrappunto».
E, parlando d'‘amore', com'era d'uso in Provenza, non si può non apprezzare, per esempio, il ragionamento che Capelli ci propone, partendo dalla canzone Dompna, puois, la «donna composita» («patchwork») da cui ci si congeda, di Bertran de Born, per giungere alla domna soisseubuda (la femminilità angelicata, la «donna ideale»), il «fantasma» che, con l'altra imperiosa, si trascinerà nei Cantos attraverso ipostasi incontrate nella Storia e nella vita, tutte figlie di madri mitologiche. O, parlando di guerra, com'era d'uso in Provenza, fa piacere apprendere che si chiama plazer «l'elogio di ciò che piace e quindi, nello specifico di Bertran de Born, della violenza dello scontro guerresco». E nella straordinaria Sestina Altaforte (1909) Pound lascia che Bertran canti il suo plazer («Maledica per sempre Iddio quelli che gridano ‘Pace'»), ma poi, rispedisce quel Bertran «all'Inferno», dove l'aveva trovato in Dante (canto XXVIII), perché, secondo la razo (la prosa esplicativa) ad Altaforte, «seminatore di discordie».
Con la ricerca di nuovi documenti, la bibliografia precedente e l'arte giusta, grande aiuto a questo volume viene dal corposo Ezra Pound to his Parents (1895-1929), le lettere ai genitori, apparse nel 2010. Valeva la pena aspettare la conclusione di un lavoro così lungo e complesso (‘filologico'), perché ora esso apre l'accesso a infiniti percorsi di orientamento e di scoperta: fonti, letture, ‘ritrovamenti' casuali, date e spostamenti spaziali del primo Pound vagabondo, il percorso provenzale incluso. Le lettere ai genitori sono - con il Companion ai Cantos di J.F. Terrell - uno strumento ormai inevitabile, per cominciare, come fa Capelli in Appendice (per esempio: sulle edizioni usate da Pound), a ripercorrere - e ad assestare - le strade. E a questo fine basterà ricordare gli echi del «refrain» della lauzeta (l'allodola) di Bernart de Ventadorn (Bertran e Bernart: magari un «indice dei nomi» qui non avrebbe disturbato), scoperto allo Hamilton College nel 1905, e ritrovato nei Canti Pisani a rispondere - in modo struggente - cantando «in contrappunto».


alias domenica 6 ottobre 2013

29.6.15

L'usura come strategia politica (micropolis)

Il secondo editoriale di “micropolis” del 27 giugno 2015 è stato impaginato prima degli ultimi sviluppi della crisi greca; mi pare che ciò non gli tolga nulla della sua efficacia analitica, critica e propositiva. (S.L.L.)

Il Fondo monetario internazionale vuole entro il 30 giugno il rimborso del prestito fatto alla Grecia. Per farlo Tsipras dovrebbe ricevere dall’Unione europea gli oltre sette miliardi di prestiti promessi. Per avere il nuovo prestito dovrebbe accettare le imposizioni dell’Unione che significano nuova miseria, meno pensioni, salari più bassi, meno servizi, nuove tasse: quelle che vengono chiamate, con termine improprio, riforme. In altri termini i soldi entrano per rientrare velocemente nelle tasche dei creditori con il gravame degli interessi, senza nessun alleggerimento della crisi ellenica, che anzi tende ad avvitarsi su se stessa. Finora le misure imposte ed adottate dai precedenti governi hanno portato ad un aumento del debito, senza determinare nessun accenno di ripresa. Il ricatto è che se non si accettano le condizioni dell’Unione la Grecia fallirà ufficialmente - nella sostanza è già fallita - subendo le conseguenti convulsioni sociali ed economiche.
Non sappiamo, mentre scriviamo, cosa succederà entro il 30 giugno, se si andrà o meno ad un accordo onorevole, ad una mediazione tra le parti. Se tuttavia non si arriverà ad un accordo e si giungerà al fallimento della Grecia ciò non sarà esente da rischi e contraccolpi sull’insieme dell’Unione e soprattutto sui paesi più deboli, segnatamente quelli mediterranei, Italia inclusa. Appare, per altro verso, evidente come sulla Grecia si giochi una partita tutta politica. L’Europa è quella che è e chi pensa di mettere in discussione, soprattutto da sinistra (da Syriza a Podemos), politiche, gruppi di comando, assetti costituiti, deve essere tacitato. Se ci si pensa è la stessa logica che viene applicata alle politiche dell’immigrazione e spiega l’isolamento in cui viene lasciata l’Italia e i muri fisici e polizieschi che vengono elevati contro i migranti. Siamo insomma di fronte ad una guerra combattuta sul continente con armi non convenzionali.

C’è più di un motivo di preoccupazione e più di una buona ragione per intensificare l’opposizione nei confronti delle politiche europee. Carlo Rosselli quando scoppiò la guerra civile in Spagna lanciò la parola d’ordine “Oggi in Spagna, domani in Italia” per mobilitare l’antifascismo italiano ad accorrere in difesa della Repubblica spagnola. In maniera diversa si può affermare che quanto sta avvenendo oggi in Grecia può avvenire domani in Italia. E’ un motivo più che sufficiente per mobilitarsi al fianco del governo e del popolo greco.

"micopolis", anno XX, n.6  27 giugno 2015

"Laudato si". L'enciclica francescana del papa gesuita (Eros Barone)

Un’enciclica sulla duplice riconversione, ecologica e cristiana: così può essere definita l’enciclica dell’attuale pontefice, “Laudato si’”, documento di quasi duecento pagine che prende il nome dall’invocazione di Francesco d’Assisi nel “Cantico delle creature”. Il testo (redatto, lo si ricordi, da un esponente dell’ordine dei Gesuiti che ha scelto di ispirarsi, fin dal nome, al fondatore dell’ordine dei Francescani) contiene denunce molto dure contro gli egoismi e la miopia che nascono da una concezione ultracapitalistica dello sviluppo e contro i danni che ne derivano all’umanità e in particolare alla parte più povera di essa, nonché all’ambiente. Degna di apprezzamento è anche l’ottica che caratterizza il documento pontificio, ossia lo sforzo di sviluppare un dialogo non limitato ai soli credenti, ma esteso anche ai seguaci di altre confessioni o religioni e agli stessi non credenti. Tale dialogo nel capitolo 5 dell’enciclica viene perciò individuato, in coerenza con gli orientamenti del Concilio Vaticano II, come strumento per affrontare e risolvere i problemi.
È un documento ambizioso questa enciclica, come dimostra una rapida rassegna degli assi tematici portanti e degli autori che vengono richiamati. Tra i primi, vanno segnalati «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita». Fra i secondi, è doveroso richiamare il canonico ‘doctor angelicus’, Tommaso di Aquino, e il meno canonico Teilhard de Chardin, il naturalista gesuita che, sfiorando pericolosamente il panteismo, ha elaborato un’interpretazione cristiana dell’evoluzionismo darwiniano.
Alcuni ‘flash’ sui temi cruciali della “crisi ecologica” sono utili a dare un’idea dell’importanza di un documento che per la sua estensione è un vero e proprio libro. Dopo aver sottolineato che l’impatto dei mutamenti climatici ricade sui più poveri, che la vitale risorsa dell’acqua è il più importante ‘bene comune’ dell’umanità, che la biodiversità va preservata e che il debito ecologico chiama in causa la responsabilità del Nord del mondo verso il Sud del mondo, papa Francesco, ricordando il fallimento dei Vertici internazionali sulle questioni dell’ambiente, stigmatizza la “debolezza delle reazioni”, la diffusa irresponsabilità” e la mancanza di una cultura adeguata e della disponibilità a cambiare stili di vita, produzione e consumo. Nel secondo capitolo, rifacendosi al racconto biblico della creazione, il papa rilegge le problematiche precedenti alla luce delle Sacre Scritture, ribadendo i postulati cristiani. Il terzo capitolo dell’enciclica è quello filosoficamente più impegnato e socialmente più radicale, poiché in esso l’autore, dopo aver esaminato gli effetti della crisi ecologica, affronta l’analisi delle cause attraverso un confronto con la filosofia e con le scienze umane. Importanti sono, in questo àmbito, le riflessioni sulle potenzialità, sui limiti e sui pericoli della tecnologia che, come afferma il papa con accenti marxisti, «dà a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio economico impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero». Pertanto, le radici umane della crisi ecologica sono, a giudizio di papa Francesco, da ricondurre a due vizi, ad un tempo, cognitivi e morali: un “eccesso di antropocentrismo”, per cui nel suo rapporto con l’ambiente e con i suoi simili l’essere umano assume una posizione autoreferenziale centrata esclusivamente su di sé e sul proprio potere, e il relativismo, tradizionale bersaglio, quest’ultimo, della polemica condotta dai suoi predecessori (Wojtyla e Ratzinger). Sempre in linea con la dottrina sociale della Chiesa esposta da questi ultimi papi risulta poi la trattazione di due ordini di problemi: l’uno attinente al lavoro e l’altro ai limiti del progresso scientifico con un particolare riferimento agli OGM.

Sennonché, malgrado l’ampia e analitica disàmina che il papa svolge sulla fenomenologia della crisi ecologica e le buone intenzioni al servizio delle quali egli la pone, permangono, e non potrebbe essere diversamente considerando la fonte, l’istituzione e gli obiettivi dell’autorità da cui promana il dettato, una serie di contraddizioni che, se non tolgono all’enciclica la sua importanza, ne pregiudicano largamente la coerenza ideale e ne vanificano l’attuazione pratica. La prima contraddizione, già segnalata dai più avvertiti studiosi delle dottrine sociali cattoliche (e per il suo contenuto l’enciclica in questione appartiene pienamente a questa categoria), consiste nel cercare di costruire tali dottrine a partire da un messaggio religioso sui fini ultimi della vita umana, a partire quindi dal primato dei beni dell’anima rispetto a quelli del corpo, di quelli spirituali rispetto a quelli temporali, della morale rispetto all’economia. Come sfuggire allora all’implacabile realismo di Marx, che ha qualificato le concezioni di questo tipo come “fiori gettati sulle catene dello sfruttamento”? Inoltre, la prospettiva che caratterizza l’enciclica è pur sempre quella, formulata alla fine dell’Ottocento nella “Rerum novarum” di Leone XIII, ripresa nella “Centesimus annus” di Giovanni Paolo II e teorizzata dalla scuola tedesca di Colonia, dell’‘economia sociale di mercato’, che è quanto dire della conciliazione tra il profitto e il salario, tra un capitalismo ‘cattivo’ ed un capitalismo ‘buono’, che ognun vede quanto sia oggi praticabile, in tempi di prolungata crisi economica, disoccupazione di massa e crescente sfruttamento dei lavoratori. Così, l’uso di un linguaggio anticapitalistico da parte degli estensori di detti documenti serve, in genere, a dissimulare la sostanza retriva dell’ideologia della conciliazione e della rassegnazione, più o meno temperate dall’azione correttiva di un ‘capitalismo compassionevole’, in essi formulata (come già notava Marx nel “Manifesto del partito comunista”, esaminando quella variante del socialismo feudale che è il ‘socialismo pretesco’, «non c’è cosa più facile che dare una tinta socialistica all’ascetismo cristiano»). La conclusione è dunque la seguente: proprio perché dalla stessa disàmina papale si evince che i problemi sono radicali, occorre una soluzione altrettanto radicale. Non basta denunciare gli abusi di questo modo di produzione sempre più ecocida e genocida, ma occorre rovesciarlo e sostituirlo con un modo di produzione rispettoso degli equilibri naturali, che allevii la fatica umana attraverso la scienza e la tecnologia e sia razionalmente e collettivamente controllabile dalla società; parimenti, non basta invocare un’“ecologia integrale” come nuovo paradigma di giustizia (vedi il capitolo quarto dell’enciclica). Occorre invece prendere atto che «lo spirito della produzione capitalistica è antitetico alle generazioni che si succedono» (Marx) e trarre da questa constatazione tutte le conseguenze che ne derivano, aggredendo le vere cause dell’attuale crisi ecologica e umana, che non sono l’antropocentrismo e il relativismo, ma il capitalismo e la sua inestinguibile sete di profitto e di dominio.

La lunga vita felice di Maurizio Mori (micropolis)

Il 15 giugno alle 18,30 è morto Maurizio Mori. Morto e non scomparso, come si recita per addolcire una perdita.
Non scomparirà almeno fino a quando usciranno ogni mese, come avviene da venti anni, le sedici pagine di “micropolis”, il giornale che ha contributo a fondare e di cui fino all’ultimo è stato attivo redattore e animatore. Noi, i suoi compagni, siamo impegnati ad impedire che si affievolisca non solo il suo ricordo, ma soprattutto la sua lezione, il suo stile di lavoro e di comportamento, quel mix tra impegno culturale e politico che ha contraddistinto per oltre settanta anni la sua militanza nel movimento operaio.
Maurizio, come confessava lui stesso, ha avuto una vita lunga, piena, felice. Ha fatto le cose che gli piacevano, ha coltivato le sue passioni per tutta la sua esistenza (il cinema, il calcio, i viaggi, le mostre d’arte, ecc.), ha svolto il lavoro che voleva fare, ha potuto soddisfare la sua inesauribile curiosità, essere fino in fondo coinvolto nella battaglia politica e civile. Su questo terreno è stato impegnato a Perugia, in Italia, negli scacchieri più tormentati del mondo (il Nicaragua, il Libano, la Bosnia). In questi luoghi si recò come organizzatore sanitario e come militante politico. Per lui si trattava di esercitare una presenza internazionalista, rifiutando ogni forma di volontariato irenico. La scelta era quella di schierarsi nettamente con coloro che subivano la violenza e l’oppressione diretta o indiretta dell’imperialismo: i sandinisti, i palestinesi, i bosniaci. La sua pratica dell’impegno si coniugava, peraltro, con un esercizio costante della critica, con il rifiuto di ogni mito e dei luoghi comuni della sinistra, di cui censurava in modo spietato e puntiglioso errori e orrori, limiti, vizi e opportunismi.
Così la sua adesione alle diverse esperienze politiche e organizzative (in gioventù al Psiup e a Iniziativa socialista, la corrente di sinistra antistalinista di quel partito, poi al movimento trotzkista, al Manifesto e al Pdup per il comunismo e, infine, a Rifondazione comunista) è stata sempre laica, priva di quel tratto fideistico che contraddistingue normalmente la militanza di partito. Da tutte si è distaccato dopo averne constatato e combattuto i limiti culturali, le derive burocratiche e, specie in Rifondazione, la trasformazione del partito in veicolo di carriere politiche più o meno durature. Per Maurizio di politica non si doveva vivere, ma si doveva invece servirla, salvaguardando la propria autonomia di giudizio e, in definitiva, la propria libertà.
Dietro tale concezione c’era una idea di militanza oggi fuori moda, ma che forse resta una delle chiavi di volta per una ripresa, non si sa quanto possibile, di una sinistra capace di suscitare speranze e di coltivare ideali. In tale quadro era implicita una coerenza che era fedeltà ad un corpo di analisi maturate nel tempo, ad una ipotesi di socialismo diversa da quelle sperimentate e fallite nel corso del Novecento. Una coerenza che assumeva come elemento portante la categoria della totalità come interconnessione tra il contesto internazionale e le realtà nazionali e locali.
Come altri compagni della sua generazione la sua fedeltà non è mai stata ad una organizzazione, considerata sempre come strumento, ma ad un progetto che traeva le sue origini nella tragedia del fascismo e della guerra, che da giovane aveva visto e vissuto. Con questo retroterra si poteva anche restare in minoranza, subire l’isolamento, ma non si poteva essere minoritari. Era necessario assumere la complessità del presente, il suo rapporto con il passato, coniugando per quanto lo permettessero i tempi, analisi e pratica politica. Niente a che spartire con il settarismo dei piccoli gruppi, con l’estremismo ideologizzante, quanto piuttosto un’intransigenza che nasceva dalla consapevolezza che forse una via d’uscita dalle secche del socialismo contemporaneo potesse essere ricercata nel tentativo di ricostituire un rapporto tra l’esperienza del passato e la complessità del presente.
Una lunga vita felice, come si è già detto, quella di Maurizio a cui è rimasto forse il rammarico di non poter riuscire a vedere come si chiuderà la difficile fase politica che stiamo vivendo; lui sempre convinto, finché ha vissuto, che anche nelle situazioni peggiori ci sia una via d’uscita, sia possibile fare qualcosa, che fino a quando non ci si dà per vinti non si è mai definitivamente sconfitti.
A chi lo ha conosciuto e, soprattutto, ai redattori di “micropolis” - alcuni dei quali hanno avuto con lui un sodalizio politico e umano di mezzo secolo resta la fortuna e il privilegio di essere stati, e continuare ad essere, suoi amici e compagni.

Editoriale di micropolis, anno XX, n.6, giugno 2015

Postilla
Si tratta di un editoriale non firmato, che nasce dal confronto in redazione ed esprime un pensiero collettivo. Ma chi ha scritto l'articolo, secondo me bellissimo, è Renato Covino. E' lui che dobbiamo ringraziare per aver saputo comunicare con tanta efficacia sentimenti e giudizi in cui ci riconosciamo. (S.L.L.)

La poesia del lunedì. Franco Trincale (Militello in Val di Catania 1935)

ANGELI SENZA ALI
Ecco il cartello accanto al quale
è morto oggi un manovale
ufficio vendite oppure affitto
in quel cartello c’è ancora scritto.
S’arrampicava fin sopra il cielo
inalberando alti palazzi
e lavorava con la speranza
di possedere solo una stanza.
E sarà quella pensava spesso
mentre fissava al muro il gesso.
Vedi amore quella parte
con le mie mani l’ho fabbricata
e se un giorno sarà la mia
metto il ritratto di te Maria.
Mentre innalzava i suoi castelli
salendo in cielo fin sulle stelle
è morto in volo quel manovale
come un angelo senza le ali.
Si è sfracellato dove c'è scritto
ufficio vendite oppure affitto.
Chissà perché in questo mondo
fin da che è mondo non è accaduto
che morisse lavorando
un cavaliere del lavoro.
A morire nei cantieri
nelle fabbriche nelle miniere
sono gli angeli senza ali
operai e manovali.

28.6.15

La Serenissima e i contadini: un feroce sistema di tasse e balzelli (Beatrice Andreose)

La syatua del Ruzante a Padova
Citata, vezzeggiata, invocata e rimpianta. La Lega Nord indica nella Repubblica Serenissima il più alto grado di civiltà raggiunto dalla storia veneta. Ma ne siamo certi? Una lettura meno superficiale e viziata da ideologia dimostra che essa fondava la sua ricchezza e la sua forza sullo sfruttamento del lavoro contadino perpetrato attraverso un sistema fiscale che impoveriva fino alla fame gli abitanti dei contadi e della terraferma in generale. Le magnifiche sorti del buon governo erano monopolio dei raffinati e ricchi cittadini veneziani, categoricamente esclusi invece i residenti dell’entroterra veneto costretti a condurre esistenze infami. Venezia città capitale. Tutte le altre, suddite. E sudditi erano soprattutto i contadini e i miserabili delle plebi urbane. Lo sottolinea un testimone eccellente di quel tempo. Rivolgendosi al potentissimo Cardinale Francesco Cornaro,
Angelo Beolco, detto il Ruzante, nella Seconda oratione scrive: «...E vi dirò di più, che quanti stanno nel Pavano sarebbero venuti anche loro, se non fosse che essi sono così secchi e così consunti dalla fame che si potrebbero soffiar via e, come si dice, sono più leggeri di un moscerino» e ancora «In conclusione, questo mondo è diventato come una terra incolta. Guardate se vedete più un innamorato. Vi so dire che la fame gli ha cacciato l’amore via dal culo. Nessuno osa più innamorarsi, per non prendersi spesa in casa; e quei singhiozzi e quei sospiri che si solevano trarre per amore, adesso si traggono per la fame».
Siamo nel 1529. Pochi anni prima era stata combattuta la devastante guerra di Cambrai che contrappose le principali potenze europee alla ricchissima Serenissima, già in possesso di un vasto impero sul Mediterraneo e impegnata in una guerra di conquista della terraferma romagnola e lombarda. Il Ruzante, l’esempio più alto e genuino del teatro veneto nel Rinascimento,svela il rovescio delle immagini idealizzate, trasmesse sino ad oggi dalla grande pittura veneta del '400-’500 e da gran parte della letteratura ufficiale dello stesso periodo. Descrive come il senso di superiore armonia della Repubblica si fondasse sui sacrifici del ceto contadino, il gruppo iniziale del successivo proletariato protagonista, alcuni secoli dopo, della lotta di classe. Fame e miseria, carestie ed epidemie accompagnavano gli anni '20 del 1500, epoca in cui la Dominante dovette far fronte a tutte le sue risorse per affrontare le orde lanzichenecche che devastavano le campagne del veronese e del bresciano arrivando fino al bergamasco. Per sostenere gli ingentissimi oneri bellici lo stato veneto ridusse le spese razionalizzando e centralizzando l'amministrazione statale, prese denaro a prestito da privati, sfruttò in tutti i modi il debito pubblico.
Non solo. Allora come oggi, quel potere alienò i beni demaniali e gli uffici. Soprattutto torchiò il più possibile i sudditi, aumentando le vecchie imposte e introducendone di nuove, costringendoli a prestare grosse somme di denaro allo Stato e a mantenere gli eserciti in armi. Spesso tutto questo non bastava, così la bancarotta fu inevitabile.
Nulla di nuovo insomma sotto il cielo. Gli aristocratici veneziani fondavano il loro privilegio e ne traevano alimento per esercitare il loro indiscusso potere. Una veloce analisi dell'imposizione fiscale rimessa in piedi dopo la guerra di Cambrai lo dimostra. Dure le imposte applicate allo Stato «da tera», ovvero ai territori dell'entro terra padano-veneto che, assieme al Dogado e allo Stato da Màr, costituivano le tre ripartizioni in cui era suddiviso lo Stato veneziano. Vi erano le «gravezze» o «angherìe» e i dazi, come quello sul sale, riscossi in funzione della ricchezza dei sudditi o del loro numero e imposti con una quota fissa alle comunità ai corpi del contado o alle arti. Per le sue guerre Venezia chiedeva ai sudditi della terraferma una imposta diretta come la «dadia delle lance», calcolata in base al valore dei beni posseduti e pagata da ognuno insieme al «corpo» a cui apparteneva che poteva essere il corpo della città o quello del territorio. Ad essa le comunità si opponevano in tutti i modi tanto che all'inizio del ‘500 il gettito annuo dell'imposta era molto ridotto e, comunque, non più adeguato alle necessità della Serenissima. Sino al 1446 i veneziani la evadevano sistematicamente, obbligando gli abitanti dello «stato da tera» a contribuire al loro posto. I contadini e i piccoli proprietari, cosi magistralmente rappresentati dal Ruzzante, erano stati rovinati dagli eserciti in lotta che avevano devastato le campagne tanto che i più poveri si trovavano costretti a vendere a prezzi bassissimi molta terra ai cittadini facoltosi. Ed al danno si aggiungeva la beffa perché la campagna, causa i vecchi estimi, continuava a contribuire anche per le proprietà passate alle città tanto che nel 1516 si registrarono tumulti e sommosse per il riaggiornamento degli estimi stessi.
In quell'anno a Treviso il Podestà e Capitano Nicolò Vendramin avvertiva, ad esempio, l'urgenza di una riforma degli estimi poiché «li poveri contadini lo quali hanno alienato il suo, hanno etiam perso gli animali, et bona parte de lor famiglie son mancate e minate. Et butandose sopra l'estimo vechio, seguiria questo grandissimo inconveniente che bisogneria astrenzer dicti contadini a pagar de cose che non hanno, che seria un meter tuto el paese sotosopra».
Il territorio chiedeva che i proprietari dei beni venduti dopo il 1509 pagassero regolarmente le imposte col comune nel quale abitavano eliminando così il tradizionale predominio della città sulla campagna che aveva nel privilegio fiscale uno dei suoi cardini. La città di Vicenza fornisce un esempio. Su un totale di 14000 ducati, nel 1518, il riparto attribuiva 1539 ducati della dadia al clero, 4166 alla città e ben 8322 al territorio.
Una palese ingiustizia tanto che la Serenissima intervenne aumentando d'autorità la quota della città di più del 30% e riducendo quella del distretto del 25%.
Oltre alla dadia delle lance venivano imposti anche oneri personali come i lavori pubblici o gli obblighi militari. I contadini erano reclutati come rematori, soldati o guastatori. Scavare canali, realizzare gli argini o portare legna giù dai boschi, erano lavori imposti esclusivamente ai contadini che li dovevano svolgere gratuitamente. Se un Contarmi, patrizio veneziano, o uno Zabarella, nobile padovano, possedevano a Pernumia campi irrigati dall'acqua dei fossi che i distrettuali tenevano puliti e che avevano eretto, ebbene quei signori non pagavano alcuna moneta per quei lavori! Non bastassero le gravezze, i Consigli cittadini, incaricati di rilevare la capacità contributiva di ciascun residente del centro urbano e del distretto, aggiungevano anche la tassazione locale.
Questa la panoramica dunque, per quanto concisa, delle condizioni in cui versavano i residenti dei contadi (leggermente diversa quella dei residenti nelle città, soprattutto se nobili), nel corso della lunga dominazione veneziana.
Nel 1997 i Serenissimi occuparono il campanile di San Marco. Alcuni di loro provenivano dalla pancia del più profondo nord-est, il basso padovano. Una cosa è certa. I loro antenati, contadini padani, facce arse dal sole, cappello di paglia in testa, abiti grezzi, bifolchi insomma, spesso davanti al giudice per far valere i loro diritti contro gli aristocratici veneziani, non avrebbero gradito la ribalderia dei loro insipienti pronipoti!


“alias il manifesto” 14 gennaio 2012

99. Inni e parole che scatenano sogni (Franco Bergoglio)

Wilson Pikett
«Noi siamo il 99 percento della popolazione che subisce il sistema, voi l’1 percento che ne gode gli sproporzionati vantaggi». Lo slogan degli indignati si presenta quanto mai efficace e carico di un populismo che rompe con alcune parole d’ordine classiche della sinistra. Prendiamo la pietra angolare marxista della lotta di classe: divideva la società in proporzioni diverse e nessuno pensava che la vituperata borghesia fosse tanto esigua. Invece gli «indignados» americani pretendono di parlare a nome di tutto il paese, eccezion fatta per il manipolo di potenti che lo rovina. Una maggioranza tanto schiacciante (sulla carta) da far apparire una banda di delinquenti la minoranza che detiene le leve economiche. Ma qual è la provenienza di questa parola d’ordine messianica che divide il bene dal male in maniera tanto schiacciante? In un recente filmato comparso su youtube Angela Davis conciona il pubblico al grido di «Occupy Philly», occupiamo Philadelphia. Angela, militante di lungo corso della sinistra, utilizza la retorica americana «da predicatore» che ha influenzato l’oratoria dei politici di colore di estrazione religiosa (ma non solo), da Martin Luther King a Jesse Jackson, dai rivoluzionari come Malcolm X fino al sogno infranto di Obama. Angela Davis affronta il pubblico con la pratica del salmo responsoriale: all’affermazione dell’officiante fa da immediato contraltare la risposta in coro dei fedeli: è la tecnica del «call and response», tipica del gospel, del blues, del jazz. Il drappello dei credenti si scalda al rauco arringare del predicatore mentre tuona di inferno e dannazione o zufola di paradiso e salvezza: un'esperienza distante da quella della sinistra tradizionale legata al comizio politico o sindacale di piazza. Ecco perché una parola d'ordine così può derivare da un gospel: 99 and a Half Won't Do (99 e mezzo non bastano, dobbiamo essere 100). Come per il 99 percento degli indignati contro l’1 percento: la lotta del bene (grande) contro il male (piccolo, infimo) è simile in questo celebre inno, ancora oggi cantato nelle congregazioni nere. Il testo si rifà alla parabola del buon pastore citata dai vangeli di Matteo e Luca. Gesù narra che il pastore, accortosi che le sue pecorelle sono novantanove e non cento, si mette in cerca di quell'unica smarrita. Egli tornerà felice dal resto del gregge solo quando l'avrà trovata. Il regno dei cieli appartiene a tutti e il pastore deve cercare di salvare l'anima del singolo peccatore più che gioire delle coscienze già redente. Una canzone dalla lunga storia. L'ultima versione l'hanno cantata il diacono Joseph Carter Jr. e il ministro Leslie Sims Jr. nel disco Sing Me Back Home (2006) inciso dai New Orleans Social Club per raccogliere fondi dopo l'uragano Katrina, ma il brano aveva assunto già negli anni Cinquanta un valore secolare a fianco di quello religioso: non tutti i cittadini godevano della piena libertà e i neri volevano conquistarsi un posto nella società americana, non solo ambire al regno dei cieli. Per gli afroamericani la speranza messianica consisteva nell'arrivare a un'America che non fosse più un inferno ma il paradiso in cui entrare come comunità.
Le classiche versioni rese dal gruppo gospel Harmonettes o dalla cantante Rosetta Tharpe giocano sul doppio registro: significato religioso visibile e accezione politica in filigrana. La carica potenzialmente eversiva rimase al brano anche quando negli anni Sessanta Wilson Pickett ne fece una versione r'n'b tostissima, reclamando furioso di voler possedere tutto il cuore della sua bella e di non accontentarsi del novantanove e mezzo. Dalla chiesa alle classifiche, dall'amore sacro a quello profano; ma il messaggio resta: vogliamo tutta la libertà non quasi tutta. Il fatto che dietro il ruggente Pickett graffiasse anche un riff del giovane Hendrix ne amplifica l'ascendente sul rock. Cover successive di questo brano arrivano dai Credence Crearwater Revival (versione bianca e dura), da Buddy Guy (blues rock), Mavis Staples (soul). Fa anche capolino durante un tour mondiale di Springsteen. Insomma novantanove continuano a non bastare, bisogna fare cento e cancellare (o convertire) quell'uno. Impresa faticosa. Non era l'inventore Edison ad affermare - riecheggiando anch'egli la parabola del buon pastore - che: il genio richiede un 1 percento di inspiration e un 99 di perspiration (sudore)? Un pizzico di genio e tanta buona volontà: vale per il gospel, per il rock e forse anche per gli indignados.


“alias il manifesto”, 14 gennaio 2012

Reaganiani contro il rock. Bufale e predicatori (Guido Mariani)

Il predicatore televisivo Paul Crouch
Nel 1981 il pastore evangelico Mills lanciò dalle radio Usa una campagna contro il rock. L’accusa? Alcune note canzoni, se ascoltate al contrario, rivelavano messaggi satanici o inviti a delinquere. Secondo alcune teorie prive di ogni base scientifica, questi versi nascosti, identificati con il termine «backmasking», venivano percepiti dal subconscio e potevano plagiare l’ignaro ascoltatore.
In altre epoche l’accusa sarebbe caduta nel vuoto accompagnata da una risata, ma era appena iniziata l’era di Ronald Reagan e gli Usa archiviavano la ribellione e la licenziosità degli anni ’70 riscoprendosi puritani e conservatori. A pagare fu la musica. La strampalata battaglia di Mills venne sposata e resa popolare dal noto predicatore televisivo Paul Crouch, fondatore del network religioso Tbn, e da altri fondamentalisti evangelici e il rock ritornò ad essere «la musica del demonio». La fobia portò alcuni stati Usa come l’Arkansas e la California a varare provvedimenti legislativi per monitorare e reprimere il fenomeno.
A trent’anni di distanza, nessuno pensa più che i dischi vadano ascoltati al contrario, anche perché i dischi non esistono più. Se alcune canzoni hanno legato la loro fama a queste bizzarre accuse, ci sono stati anche artisti che si sono divertiti nel corso del tempo a nascondere inconsueti «messaggi subliminali» o sberleffi nelle loro canzoni. Anche nel nostro paese. Come Elio e le Storie Tese che nel pezzo Messaggio satanico (1989) ci infilarono addirittura un «buon compleanno» cantato al contrario!

“alias il manifesto”, 26 novembre 2011

25.6.15

Classici medievali. Il Tristano di Beroul (Mario Mancini)

«Nell'ondeggiante oceano, / nell'armonia sonora, / nell'alitante Tutto / del respiro del mondo /naufragare, / affondare, / senza coscienza, / suprema voluttà!» («In dem wogenden Schwall, /in dem tönenden Schall, / in des Weltatems / wehendem All, - / ertrinken, / versinken, -- / unbewusst, - / höchster Lust!»). Sono le ultime parole del Tristan und Isolde di Wagner, che ha dato forma indimenticabile alla leggenda dei due amanti, trasfigurando l’amore impossibile che conosce l’unione solo nella morte, la negazione finale della volontà alla vita di Schopenhauer, il suo radicale nichilismo, in una fascinosa melodia infinita, dolce e terribile. Wagner prende le mosse dal Tristan (1210 ca.) di Gottfried von Strassburg - lo legge nell’edizione del 1823 di Friedrich Heinrich von der Hagen e nella versione condotta nel 1844 da Hermann Kurtz - che a sua volta si ispira a un Tristano antico-francese, giuntoci solo in frammenti e opera di un poeta dell’Inghilterra normanna, Thomas (1150-60 ca.). Gottfried rende palese omaggio al suo predecessore, che chiama «Thomas von Britanje», così vicino alla lancinante tensione della sua opera, pervasa d'amore e di morte, al suo «strano lamento». Ma il Medioevo, così ricco di tensioni, di vertiginosi esperimenti, ci offre, oltre al Tristano di Thomas, un altro grande testo, il Tristano di Béroul (1160-80 ca.): un testo completamente diverso, quasi che Béroul volesse «capovolgere» l'opera del rivale. Invece della distanza, della lacerazione, dell'esaltazione e del lutto, viene messa in scena, con colori epici, quella che potremmo chiamare un'arte dell'incontro amoroso. Il lettore moderno può ora leggere Béroul nella bella traduzione, con testo a fronte, di Gioia Paradisi (Tristano e Isotta, Edizioni dell'Orso), che si confronta anche con i problemi testuali - l'opera ci è giunta in un unico manoscritto, ma numerosi sono i punti controversi - e mette in luce, senza temere l'ombra di Thomas, la grandezza di questo romanzo: la «dismisura amorosa» dei protagonisti, i tratti epici e potentemente arcaici, il ritmo travolgente, ricco di suspence e di colpi di scena.
In Béroul l'eros è «dispensatore di piacere e di medicina del dolore». Anche nella vita di stenti, davvero selvaggia, che gli amanti, fuggiti dalla corte, conducono nella foresta del Morrois, Béroul sottolinea come la simmetria della loro condizione sentimentale cancelli la sofferenza: «Ciascuno sopporta le privazioni con lo stesso animo, / perché l'uno per l'altro non sente che bene»
(«Chascun d'eus soffre paine elgal, / qar l'un por l'autre nesent mal). E nella scena notturna in cui Tristano, per evitare di lasciare le sue impronte sulla farina che il nano malefico che li spia ha sparso sul pavimento, raggiunge con un grande balzo il letto della regina, l'eroe neppure si accorge di un'antica ferita che si è riaperta: «La ferita si apre, sanguina tanto, / il sangue che ne esce lascia il segno sulle lenzuola: / la ferita sanguina, non la sente, / perché è tutto intento al suo piacere». («Sa plaie escrive,forment saine, / le sanc qui n'ist les dras ensaigne: / la plaie saigne, ne la sent, / qar trop a son delitentent»).
Per Béroul Tristano è un marginale, irrimediabilmente, perché il «folle amore» che lo domina, e che lo lega alla regina, non è compatibile con l'ordine feudale della corte. Questo è difeso dai baroni, che spiano gli amanti, che non si stancano, mossi anche dall'invidia, di denunciarli al re. Su di loro, a più riprese, si scatena l'ira omicida di Tristano. All'audacia dell'eroe risponde, specularmente, l'astuzia di Isotta, capace di dissimulare, di superare, mentendo, le situazioni più drammatiche. Come nella grande scena del Mal Pas. Qui Isotta davanti alla corte diArtù, che sarà garante del suo giuramento e che la difenderà da ogni ulteriore sospetto, affronta il iudicium Dei, per allontanare da sé l'accusa di aver commesso adulterio con Tristano. Travestito da lebbroso, coperto di stracci, Tristano la prende in groppa per farle attraversare la palude del Mal Pas, e così Isotta può pronunciare, trionfalmente, la sua «verità»: «Ora ascoltate il mio giuramento, / del quale il re Artù qui presente è garante: / in nome di Dio e di sant'Ilario, / su queste reliquie, sul reliquiario, / su tutte le reliquie che non sono qui / e su tutte quelle sparse per il mondo, / mai tra le mie cosce entrò uomo / eccetto il lebbroso che si fece bestia da soma / e che mi portò oltre il guado, / e il re Marco, mio sposo». In questa grandiosa recita dell'ordalia, Isotta è maestosa regina, splendida nelle sue vesti foderate di bianco ermellino, con un cerchio d'oro nei capelli, e insieme, piantata sul dorso del falso lebbroso, un'impavida virago, una sfrontata i baccante: «Li guardano tutti, re e conti. / Isotta monta sulla stampella, / sale con le gambe a cavalcioni. / Tristano un po' di volte fa finta di cadere, / fa la faccia come se soffrisse. / Isotta la bella lo cavalcò, / una gamba di qua, una di là»(«Yseut la bele chevaucha, / janbe dega, janbe dela»).
La storia ci trasporta in un mondo arcaico. Tristano non impugna la spada come un cavaliere cortese, ma scocca frecce micidiali dal suo arco che non sbaglia mai, dall'«Arc qui ne faut». Nel filtro amoroso converge anche un motivo ben attestato nel folklore celtico, quello del «vin de royauté», della bevanda magica che viene offerta al re la sera delle nozze, a garantire il potere regale nei miti in cui un umano sposa una divinità femminile legata al territorio e garante della sovranità. Dio non è un giudice che condanna l'adulterio della coppia e il molteplice gioco dei loro inganni, è piuttosto loro complice, un tratto decisivo e deviante che Gioia Paradisi mette bene in luce: «Aldilà dell'irresponsabilità oggettiva determinata dalla bevanda magica, la partigianeria del Dio cristiano verso Tristano e Isotta credo possa rinviare a un'estraneità (o a un'alterità) del concetto di “Dio” rispetto ai significati più profondi della vicenda». L'arcana coercizione esercitata dal filtro, neutralizzando la volontà degli amanti, li colloca in una dimensione dove la sanzione religiosa e morale non vale più nulla. Quando l'eremita Ogrino chiede loro di pentirsi e di rinunciare al «pechié», al peccato nel senso cristiano del termine, Isotta rifiuta e ribadisce che il suo attaccamento a Tristano si deve al filtro magico che hanno entrambi bevuto. L'eremita, sconsolatamente, non può che prendere atto dell'impossibilità di impartire loro la penitenza: «Il fallimento di Ogrino mostra che contro il potere straordinario di Amore nulla può la condanna del peccato e la paura della morte dell'anima agitata dall'uomo di chiesa».
In questo mondo arcaico, alternativo alla corte, e alla morale della chiesa, i nostri eroi si muovono con una selvaggia agilità. Se il Tristano di Thomas, di Gottfried von Strassburg, di Wagner, ci offre un'iniziazione piena di pathos alle altezze sublimi della voluttà e del nulla - Gottfried si rivolge ai «nobili cuori», agli «edelen herzen», «che insieme portano nel cuore / dolce amarezza, amato dolore, / palpiti di gioia, tormento del desiderio, / vita felice, triste morte, / morte felice, triste vita» - Béroul vuole percorrere un'altra strada. Accompagna i protagonisti e le loro rocambolesche avventure, innumeri e sempre diabolicamente vitali - agguati, travestimenti, roghi e fughe, giuramenti blasfemi - con un senso di gioiosa partecipazione, e invita il lettore, che accetta volentieri, a farlo con lui.


“la talpalibri alias il manifesto”, 6 ottobre 2013

Juan Gelman. L'Argentina nel cuore e nei versi (Franco Avicolli)

E' morto Juan Gelman (1930 – 2014), poeta e argentino. Trattandosi di un poeta c’è da chiedersi se è morto veramente. Perché i poeti pensano alla signora con la falce come fosse la negazione della poesia, metafora del vuoto, un foglio bianco e muto. I1 poeta cancella la morte con la parola e può dire con Juan Gelman: «Queste parole sono più vere di me» (La pretesa). «Ciò che nomina/ ha il mare che porta lontano» scrive il poeta argentino in Divergenze, una delle sue poesie più recenti, «nella sua casa tutti possono entrare/ e il suo tempo non cessa/ in ogni bocca». Ora, egli è morto, ma già ha richiamato alla vigilanza perché da qualche parte appariranno le sue mani «spinte dalla sua rabbia immortale» (La fine).
Walt Whitman, dal suo canto, si allontanava «come l’aria» e «per rinascer dall’erba che amo». Per trovarlo bisogna cercarlo «sotto la suola delle scarpe», perché, comunque «in qualche posto mi sono fermato e t’attendo», recitava.
Il poeta sente la precarietà delle cose, precede la loro scomparsa o l’accompagna. Ed è proprio questa la vicenda storica e umana di Juan Gelman. Il suo tempo si intreccia con l’Argentina della seconda metà del secolo scorso delle molte incertezze e delle rovinose cadute. Soffrì sulla propria pelle e pesantemente la tragedia dei desparecidos. I generali golpisti gli tolsero Buenos Aires, lo costrinsero ad «andare diviso in due» (Habana-Baires) e gli uccisero un figlio. Vagò senza il conforto della sua esistenza e cercò la nuora rapita con lui. Gli dissero che aveva partorito, ma non dove. Trovò la nipote quando aveva 24 anni, ma non più la sua città («quasi vivo,/ scrivo versi dapprima pianti/ perla città dove sono nato»). È morto a Città del Messico dove risiedeva da una ventina di anni.
Fu comunista, castrista, guevariano, montonero, traduttore, giornalista e non smise mai di essere poeta pensando al necessario piuttosto che all’utile. «Con questo poema non prenderai il potere» scrive e neppure servirà agli operai e ai maestri per vivere meglio, per mangiare o per avere qualche vantaggio, ma «si siede a tavola e scrive» (Fiducia).
Lascia una poesia coinvolgente e affabulatrice, piena di volti, di voci e personaggi incontrati, di luoghi che egli considera sempre sotto lo stesso cielo. È tra le più alte e civili di lingua spagnola.
In una lettera del 9 maggio 1980 da Roma dove vive da esiliato, scrive: «Tutti gli uomini sono umani e quello che c’è in me dovrebbe essere negli altri... Posso offrire solo i raggi della luce che illuminavano la lotta per la felicità, la generosità della morte, cioè della vita...».
E non c'è dubbio che sia il lascito di un poeta generoso e profondo.


“Il Sole 24 ore Domenica”, 19 gennaio 2014

Ezra e Hilda. Una cronaca semitragica (Caterina Ricciardi)

Speriamo che in Italia sia giunto il momento di H.D., Hilda Doolittle, poetessa americana della banda modernista dominata dai maschi (Yeats, Joyce, Eliot, Lewis, Lawrence, Hemingway, Pound), geni, inventori, re-inventori, sperimentatori, esploratori, battitori di piste, ‘trovatori', trasgressori, misterici, iconoclasti, occultisti, esotici, classicisti, eterodossi, futuristi, peccatori ecc.: difficile dirle tutte. In fondo alla coda c'è lei, Hilda, «Santa Hilda», la ragazza di cui Pound s'innamorò a casa, a Filadelfia, facendone la sua fidanzata. E tale restò, per sempre. Sempre fedele al «pounding, pounding, pounding», il severo ticchettio del bastone del dandy/cowboy Pound, giovane spavaldo a Londra, quando si scorciava la strada nella coterie bohémien-intellettuale di Kensington.
Contro il volere dei genitori lei lo raggiunse, e lì, a Londra, la promessa si ruppe. Presero strade diverse ma restarono sempre l'un l'altro fedeli, lui in modo paternalistico. Fin troppo, come quando, in una saletta da tè del British Museum, inventò, a tavolino con altri sodali, quell'Imagismo che inaugurò (1912) la scena poetica del nuovo Novecento. In quell'occasione, correggendo una poesia di lei, le amputò il nome. Così «Santa Hilda», la «driade», «figlia dell'erba», divenne l'imagista H.D, e lei restò fedele all'anonimo monogramma. È il destino delle donne.
Speriamo, dunque, che sia giunto il momento di lei in Italia, dove gli studi accademici non sono mancati come, invece, è mancata l'editoria di mercato. In verità, già nel 1994 Massimo Bacigalupo (dopo Mary de Rachewiltz) ci aveva provato a stuzzicarla con un volume di tutt'attrazione, un ‘diario' scritto nel 1958 ma pubblicato nel 1979, cui il curatore aggiungeva un breve epistolario intercorso fra i due fidanzati dopo il 1958. Oggi Fine al tormento - Ricordando Ezra Pound (Archinto) torna meritoriamente in libreria, rinfrescato, aggiornato, arricchito, e in formato più piccolo (come s'addice a una donna, che sia «patchwork» o «soisseubuda») e più maneggiabile. La novità è - non in prima traduzione - Il libro di Hilda (1908), un quadernetto da E.P. consegnato a Hilda, prima di partire per l'Europa. Conteneva infiorettate poesie d'amore (oggi di grande innocente splendore).
Fine al tormento è una cronaca semitragica. Racconta dei mesi precedenti il rilascio di EP dal manicomio criminale St. Elizabeths a Washington. Grazie agli appelli internazionali, il poeta settantenne era alla fine del suo tormento fra i pazzi: ancora forte, atletico, irridente, pronto a continuare la sua attività. Ma lei, cui nel Libro di Hilda si chiedeva «Santa Hilda, prega per me», tribola, in Svizzera, in attesa del rilascio, dando sfogo a un percorso in flashback che è un intenso meditare sulla loro vita e sulla scrittura, sostenuto da citazioni dalla poesia di Pound ma soprattutto dai ricordi (intenzionalmente o no) svagati, come nell'incipit: «Neve sulla sua barba. Ma non aveva barba, allora. Neve soffia giù da rami di pino, polvere secca sull'oro rosso.... O forse portava un cappello floscio, un cappello tirato giù sugli occhi? Una maschera, un travestimento? Gli occhi sono il suo tratto meno notevole. O mi sbaglio? Sembrano piccoli. Il colore? Verde-ciottolo? Certo non insignificanti. Un chiar di luna gotico, come lo chiamano, filtra attraverso questi alberi incisi. Freddo? Una sorta di rigor mortis. Sono congelata in questo momento». Anche quando scrive prosa (sebbene si tratti di prosa così personale), Hilda scrive in versi. Prosa però ne ha lasciata.
Ha, infatti, delegato ai postumi una serie di romanzi, o prose fra autobiografia e centone classicista. Marina Vitale ne ha scelto uno per l'esordio italiano della narratrice. Il dono (Iacobelli), il dono di «una capacità fatta di rimembranza e divinazione», è ambientato in una Londra tuonante di bombe tedesche cui risponde la memoria pronta a «ri-vivere un passato che è sempre presente». L'America, eterno punto di riferimento degli esuli americani, si sostituisce a una Londra ferita, offrendo il placebo dell'eredità migratoria dei bisnonni Doolittle - di religione morava - in Pennsylvania, una storia ‘culturale' che, fra risonanze antiche e liriche decadenti, emerge anche in Hermione il romanzo più bello di H.D., dedicato alle prime schermaglie d'amore con EP.
Vite tormentate, quelle di Hilda Doolittle e Ezra Pound, ciascuno nella sua gabbia di trasgressioni (numerose anche quelle dilei), e dirimorsi e ricordi, entrambi prigionieri della poesia e di un po' di amorosa reciproca gelosia, mai smussata. Oggi possiamo cominciare a seguirle anche in Italia quelle vite di nostalgia e desiderio, perché, scrive Bacigalupo, «in fondo non si sono chiariti a se stessi. Sono rimasti irrisolti e contraddittori», come «comete affascinanti e inafferrabili».


“la talpalibri alias il manifesto”, 6 ottobre 2013

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