29.4.15

“Il re cascò per terra”. La principessa di Prussia racconta (Lucio Villari)

Accade, seppur raramente, che il lettore di un libro avverta, man mano che procede nella lettura, un vago disagio, la sensazione di essere ingannato, accerchiato da una specie di divertita congiura, da un accordo involontario creatosi tra il testo e l'editore ner confonderlo. E' quanto mi è .successo leggendo le memorie di Federica Sofia Guglielmina margravia di Bareith, che raccontano della vita di Corte in Germania dal 1706 al 1742. L'opera è pubblicata da Sellerio, nella collana «La memoria», con il titolo Il rosso e il rosa (traduzione di Alfonso Zaccaria, pagg. 241, lire 6.000).
E' un'edizione acrobatica, nel senso che l'editore ce la mette tutta per sfuggire al lettore e per disorientarlo. E diciamo perché: la traduzione è condotta su un testo francese indicato in calce senza indicazione di data e di luogo di stampa. Ora, è difficile credere che le memorie siano state scritte in francese; e, comunque, l'edizione francese deve essere ottocentesca, poiché la principessa è chiamata, nel titolo francese, margravia di Bayreuth, il nome, appunto, ottocentesco di Bareith. D'altro canto in una nota finale alla presente edizione, dovuta a Alberto Savinio (scritta quando? dove?), si parla di una edizione tedesca del 1910, un «grosso» volume di «seicento pagine fitte».

Militarismo e omosessualità
Ecco allora un doppio salto mortale: per passare dalle seicento pagine fitte alle duecentododici attuali di un volume formato tascabile (o ottavo piccolo) si sono dovuti operare tagli vistosi. Ma quanto è stato tagliato di queste memorie? E, soprattutto, dove sono avvenuti i tagli? Nel volume non c'è traccia di quei preziosi puntini sospensivi tra parentesi che sono, insieme, un segno tipografico e filologico. Nel risvolto di copertina si accenna a una «ampia scelta», ma senza ulteriori informazioni e spiegazioni che, in casi del genere, sono invece sempre obbligatorie. Si tratta di «forme» editoriali che, in altre occasioni, lo stesso editore Sellerio ha pure rispettato; esse servono a fare di un libro un testo di studio e di consultazione.
Terzo salto mortale, infine, con il titolo. Il rosso e il rosa starebbe a significare, secondo l'editore, «il rosso di un militarismo che arriva alla bestialità, il rosa dell'omosessualità che in quel bestiale rigore trasporre». Ebbene, nelle memorie di Sofia Guglielmina, del militarismo prussiano (suo padre. Federico Guglielmo I, era chiamato il «re sergente») c'è solo qualche traccia; del «rosa», poi, nemmeno l'ombra. Ma è questo rosa (inesistente) che, secondo l'editore, può, «col senno di poi, riportare alla Germania di Adolfo Hitler». A questo punto, il trapezista, e il lettore, perdono l'appiglio.
Non resta allora che affidarsi, fiduciosi, alle memorie di questa singolare principessa e sperare in una miglior fortuna. Sofia Guglielmina descrive molto bene l'ambiente e il clima familiare in cui è cresciuta. Le violenze che lei e il fratello (il futuro sovrano illuminista Federico II, il Grande) hanno dovuto subire da un padre nevrotico, malato di gotta, autoritario, corrispondono effettivamente al ritratto storico del personaggio. Costui non aveva niente della dolcezza e delle eleganze settecentesche di altri sovrani europei. Era rozzo e brutale; nei momenti d'ira o di malumore scagliava le grucce sulla figlia, sputava nel suo piatto e la picchiava. Odiava il principe ereditario al punto da chiederne l'esecuzione capitale quando il giovane Federico, non sopportando più le ingiurie paterne, si diede alla fuga insieme con un suo amico. Federico fu salvato a stento, per intercessione dei consiglieri del re; ma l'amico fu decapitato davanti ai suoi occhi. Certamente anche questo tragico episodio farà poi di Federico II un sovrano contraddittorio, scisso in una doppia personalità: l'intellettuale illuminato, il musicista, lo scrittore, e insieme il guerrafondaio provocatore e il militarista che conosciamo. Ma qui siamo fuori delle memorie di Sofia Guglielmina, che terminano proprio nel momento in cui inizia il regno del fratello (Federico II salì al trono nel 1740).
Di un'altra violenza è però testimone e narratrice Sofia Guglielmina. E' la violenza della malattia e del disfacimento dei corpi. Qui il Settecento privato, segreto, «sanitario», esplode (non lo si è visto anche nelle lettere di Mozart?) in una luce per qualche aspetto inedita. Di collassi, svenimenti, convulsioni, dissenterie, vaiolo, cancrene, fistole, flussioni, insomma di «presenze» del corpo sono piene queste memorie. E un libro sanguinoso, ma più che altro per i salassi e le emorragie.
Si sa quali erano le condizioni igieniche in quel secolo e come la medicina fronteggiasse a stento, o per nulla, le malattie. Tuttavia si ha l'impressione che la fantasia sbrigliata e il gusto fanciullesco per 1'orrido guidino spesso la mano della principessa. E necessario, infatti, non prendere per oro colato tutto quello che lei racconta. Agli occhi di una ragazza, turbata da difficoltà familiari, certe manifestazioni di malattia non potevano non assumere aspetti ancor più drammatici e ripugnanti. Leggendo il libro si ha quindi il sospetto che talvolta Sofia Guglielmina deformi la realtà. D'altronde lei stessa non esclude che siano labili, nella sua mente, i confini tra il reale e il fantastico. In una pagina delle memorie dice, improvvisamente: «Scrivo solo per divertirmi e mi compiaccio di non occultare i miei più segreti pensieri». Quanta verità c'è nella «segretezza» di questi pensieri?

Pupazzo disarticolato
C'è una divertita impertinenza, infatti, nel modo in cui Sofia Guglielmina descrive, ad esempio, le visite di Stato compiute a Berlino, in occasioni diverse, dallo zar Pietro il Grande, dal re di Polonia e dal re d'Inghilterra. Del gigantesco zar racconta, comicamente, di un attacco di convulsioni che lo colpisce, trasformandolo in un disarticolato pupazzo, durante il pranzo ufficiale. Insiste con il re d'Inghilterra che, sempre durante un pranzo di gala, si sente male e comincia a barcollare («cadde sui ginocchi, la parrucca da un lato e il cappello dall'altro»). Del re di Polonia le piace poi descrivere gli stravizi e la inestinguibile passione per le belle donne («... le sue amanti gli avevano dato trecentocinquantaquattro figli») e parlare di lui, in visita a Berlino, come di un uomo affascinante, ma «mal ridotto», con una cancrena al piede, salvato solo grazie all'amputazione di due dita («la piaga era ancora aperta e lui soffriva indicibilmente»).
Detto questo, le memorie di Sofia Guglielmina sono di piacevolissima lettura e, a suo tempo, saranno state certamente un antidoto prezioso per quanti immaginavano il Settecento e la vita di Corte nella prima metà del secolo secondo una rappresentazione, affabile e di maniera (alla Meissonnier o alla Mariano Fortuny, per intenderci), che è stata dura a morire. Anche nelle spiritose invenzioni di Sofia Guglielmina c'è però il segno del mutamento dei tempi. La cultura dell'illuminismo, fatta anche di irriverenza, di ironia, di lucidità e di follia ha lambito certo la principessa prussiana che, nel turbinare dei ricordi, non risparmia se stessa (si vedano le pagine, in allegro moderato, del suo arrivo, novella sposa, al palazzo del margravio di Bareith; una casa sbilenca, dissestata e povera e il suocero — tanto per cambiare — con un tumore alla bocca), né il suo amato fratello Federico, la cui fidanzata non è per nulla risparmiata (graziosa sì, ma antipatica e «sfigurata dai denti, neri e irregolari»).

Che non cominci anche da queste insidiose ed esagerate memorie la fine dell'Ancien Regime?

"la Repubblica", ritaglio senza data, ma 1982

Insultare stanca. Una poesia di Enzo Costa

Enzo Costa
Ho sputato in faccia
alla nota marchesa
mi ha gridato "magnaccia!"
ho gradito l'offesa.
Ho lanciato via radio
a un famoso regista
un insulto da stadio
mi varrà un'intervista
nella quale darò
dell'immane cretino
a chi ancora non so
so che farò casino
cosa che non mi pesa
anzi, mi è congeniale
lo capì la marchesa
col suo insulto geniale.
Mi volete arrogante?
eccomi, sono pronto
anche un po' ributtante?
c'è un aggravio sul conto.
In tivù non ho freno
inveisco a gettone
un juke-box dell'osceno
paghi e grido "coglione!".
Una tantum son buono
dolce, beneducato
così pure funziono
mi hanno assicurato
purché poi io riprenda
a insultare berciando
è una lotta tremenda
contro il telecomando
per sconfiggere il quale
ho tenacia da mulo:
non cambiate canale
tra un po' urlerò "culo!".

1993

dalle Rime bacate (nel sito enzocosta.net)

28.4.15

Isis. Un ripugnante riflesso (Lanfranco Binni)

Il testo che segue è la prima parte di un articolo dal titolo Un'altra storia pubblicato su “Il Ponte” di marzo 2015. Il titolo è mio. (S.L.L.)

Delle origini in Iraq e in Siria dello «Stato islamico», finanziato e armato dagli Stati Uniti, e sottotraccia da Israele, per disgregare lo stato siriano con l’obiettivo strategico di attaccare l’Iran ed eliminare due importanti retrovie di sostegno al popolo palestinese, ormai sappiamo tutto. È lo stesso Obama, nella recente intervista del 19 marzo, a riconoscere il ruolo statunitense nella nascita dell’Isis, sia pure attribuendola alle conseguenze della guerra irachena di Bush e sottraendosi alle responsabilità della sua presidenza. Sappiamo anche che l’Isis, strumento del capitalismo senile occidentale e delle sue strategie geopolitiche, svolge oggi un ruolo di attrazione di soggettività radicali nei paesi arabi e nei paesi occidentali, innestando sul disegno eterodiretto dinamiche diverse e più complesse le cui radici affondano nei processi di esclusione sociale nei paesi arabi e di islamofobia e razzismo nei paesi occidentali: contro il neocolonialismo l’odio per l’Occidente, contro lo «stato ebraico» lo «stato islamico», contro i simboli del «moderno» integralismo occidentale i simboli di un integralismo islamico delle origini, contro le tute arancione dei prigionieri di Guantanamo le tute arancione dei prigionieri dell’Isis, contro le tecniche e i mezzi della comunicazione occidentale il loro impiego con contenuti opposti e speculari. Ma l’aspetto principale dell’Isis, nonostante l’attrazione di giovani guerriglieri in parte estranei a motivazioni di ordine religioso, resta la sua funzione di disgregazione terroristica degli assetti geopolitici nelle sue aree di intervento, al servizio delle strategie occidentali di creazione del caos che giustifichino gli interventi successivi delle potenze «democratiche».
Insomma, l’Isis è stato un ottimo investimento produttivo. Come ha detto lo storico israeliano Ilan Pappé in una recente intervista al «manifesto» (18 febbraio), «Lo Stato Islamico è la miglior cosa che potesse capitare a Israele. Con il califfato si risolleva la voce di coloro per i quali esiste un solo Stato illuminato in Medio Oriente, Israele, baluardo contro l’avanzata dell’estremismo islamico. Spero che in occidente la gente non cada nel trucco: non si tratta di uno scontro di civiltà, ma di giustizia sociale e modelli democratici di integrazione. Basta guardare a come l’Isis attira giovani musulmani europei andando a pescare tra i gruppi più oppressi e marginalizzati. Non stiamo parlando di una questione culturale e religiosa, ma sociale ed economica: se in Europa si assistesse ad una trasformazione democratica, se si impedisse a ideologie razziste e pratiche capitaliste di determinare l’esistenza della gente, gruppi come l’Isis non troverebbero spazio». In realtà lo Stato islamico non è «capitato» a Israele, che fin dall’inizio ne sfrutta le opportunità, e la galassia delle formazioni «radicali» è notoriamente infiltrata, da sempre, dal Mossad. Il risultato delle recenti elezioni, con il rafforzamento della destra oltranzista di Netanyau, accentuerà la politica di guerra del governo israeliano, contro ogni prospettiva di Stato palestinese, contro l’Iran, per la destabilizzazione dell’intera area araba.
Apparentemente l’Isis e la galassia delle formazioni terroristiche conducono la loro guerra contro l’Occidente e il sionismo, ma in realtà i bersagli degli attentati sono tutti all’interno del mondo arabo e musulmano, dalla Siria allo Yemen, dalla Libia alla Nigeria, in nome di una presunta ortodossia da difendere dall’Occidente; gli attentati di Parigi e di Tunisi hanno altre dinamiche, sono conseguenze della propaganda della «guerra santa» nei settori sociali emarginati delle «metropoli», nella tradizione della controviolenza anticoloniale, della guerra da portare in casa al nemico; fu questa la risposta del Fronte di liberazione nazionale algerino, negli anni sessanta del Novecento, al terrorismo dell’Oas. Ma anche su questo piano di violenza e controviolenza (e a questo proposito bisogna rileggere Frantz Fanon, I dannati della terra) la didattica del terrorismo dell’Is non ha rivolto le sue campagne militari al principale fattore di instabilità nell’intero mondo arabo, la fortezza israeliana. Quando lo farà, se lo farà, sarà per lo «Stato ebraico» un ottimo pretesto per attaccare i suoi nemici, i palestinesi e l’Iran.
Ascoltiamo ancora Obama, nella sua intervista del 19 marzo: «Se l’Isis venisse sconfitto, il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un giovane cresce senza prospettive per il futuro, l’unico modo che ha per ottenere potere e rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza, separandoli da diplomazia, sviluppo ed educazione». È una clamorosa inversione della strategia statunitense, dalla liquidazione del governo irakeno di Al Maliki (alla vigilia di accordi economici e non solo con la Cina e con la Russia) in poi, probabilmente da collocare nel quadro della politica interna in previsione delle elezioni presidenziali, ma anche dovuta al fallimento dell’intervento contro la Siria e alla perdita di controllo dell’Isis e di tante altre formazioni qaediste e jihaidiste, peraltro in difficoltà nel principale terreno di scontro tra Iraq e Siria grazie soprattutto al nuovo protagonismo iraniano. La strategia statunitense del caos è ingovernabile e produce conseguenze sociali e culturali molto più pericolose delle azioni militari del «califfato» e dei suoi concorrenti. Commenta Ramzi Baroud, direttore di «Palestine Chronicle»: «L’Isis va visto non solo come un movimento alieno al più vasto mondo politico del Medio Oriente, ma anche come un fenomeno in parte occidentale, il ripugnante riflesso delle avventure neocolonialiste nella regione, accompagnate dalla demonizzazione delle comunità musulmane nelle società occidentali». E questo è il punto.

La strategia del caos, avviata il 19 marzo 2011 con i bombardamenti aereonavali Usa/Nato sulla Libia, e con il sostegno (documentato da una nota inchiesta del «New York Times») ai gruppi armati islamici combattuti dal governo di Gheddafi, anche in quest’area ha prodotto una situazione fuori controllo che mette in pericolo gli «interessi» neocoloniali occidentali. Un intervento militare sul campo, sia pure appoggiato su uno dei due governi in lotta tra loro, in un proliferare di bande armate «islamiste» o semplicemente anticolonialiste, non avrebbe altro risultato che rafforzare il fronte antioccidentale; a poco servirebbe ancorare l’intervento al «governo di Tobruk» e al suo Esercito nazionale libico diretto da un agente della Cia, il generale Khalifa Haftar, inviato in Libia dalla Virginia. Le farneticazioni militariste del governo italiano, lo schieramento aereonavale al largo delle coste libiche, le dichiarazioni velleitarie e irresponsabili di intervento diretto con uomini e mezzi, è soltanto un corollario del caos, determinato dalla ridicola volontà di potenza di un sistema politico in crisi di legittimazione che spera di farla franca anche grazie a un’avventura militare al buio; un nemico esterno, un fattore di paura, è sempre utile (pensano i nostri strateghi) sia sul piano internazionale (il «prestigio dell’Italia») che, soprattutto, interno. E questo è un altro punto.

Per Edoardo Sanguineti (Enzo Costa)

Enzo Costa, giornalista geniale e “umorista umorale” scomparso qualche mese fa, il 25 gennaio del 1912 scrisse per Il Lanternino, la rubrica che curava nell'edizione genovese di “Repubblica”, una sorta di necrologio dedicato a Edoardo Sanguineti, quello che qui riprendo per ricordare il maestro. Mi pare inevitabile aggiungere, come luogo comune, che sono i migliori eccetera. (S.L.L.)

Il dolce peso della cultura

Bella, tenera e somigliante a lui, l’immagine - regalataci dalla moglie Luciana - di Edoardo Sanguineti che, rientrando nella sua casa traboccante di libri, nascondeva in borsa l’ennesimo volume acquistato, per celarlo agli occhi della consorte, preoccupata dal peso e dallo spazio che aveva e occupava quell’imponente mole di carta. Un ritratto di scrittore in un interno con tutta l’ossessione, l’ironia, la passione per la cultura e per la sua compagna che lo abitavano. Difficile essere degni della sua monumentale eredità. 

27.4.15

La poesia del lunedì. Nâzım Hikmet (Salonicco 1902 - Mosca 1963)

Il mio funerale
Il mio funerale partirà dal nostro cortile?
Come mi farete scendere giù dal terzo piano?
La bara nell'ascensore non c'entra
e la scala è tanto stretta.

Il cortile sarà, forse, pieno di sole, di piccioni
forse nevicherà, i bambini giocheranno strillando
forse sull'asfalto bagnato cadrà la pioggia
e al solito ci saranno i bidoni per l'immondezza.

Se mi tiran su nel furgone col viso scoperto, come usa qui,
forse mi cadrà in fronte qualcosa di un piccione, porta fortuna,
che ci sia o no la fanfara, i bambini accorreranno
i bambini sono sempre curiosi dei morti.

La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo
il nostro balcone mi accompagnerà col bucato steso.
Sono stato felice in questo cortile, pienamente felice.
Vicini miei del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.

Maggio 1963


da Poesie d'amore, Mondadori, 2002 - Traduzione di Joyce Lussu

La Grande Siniscalca. Diana di Poitiers e il mito della bellezza (Benedetta Craveri)

Il 7 luglio 1530, una settimana dopo il ritorno in Francia dei due figli maggiori (che erano stati tenuti per quattro anni in ostaggio a Madrid per permettere a lui di tornare in libertà), Francesco I, vedovo di Claudia di Francia, ratificò una fragile pace con la Spagna sposando in seconde nozze Eleonora d'Austria, sorella dell'imperatore Carlo V. Il torneo che coronò i festeggiamenti in onore della nuova regina vide per la prima volta scendere in lizza i due giovani principi. Secondo l'uso essi avevano la facoltà di designare la dama a cui intendevano rendere omaggio. Il delfino, mosso dal desiderio di fare cosa gradita al padre, scelse di battersi per la duchessa d'Étampes, amante ufficiale del re, mentre il duca d'Orléans abbassò la lancia ai piedi di Diane de Poitiers, moglie di Louis de Brézé, Gran Siniscalco di Normandia, che a una bellezza impareggiabile univa una virtù senza macchia. Il secondogenito del sovrano aveva appena undici anni, Diane trenta, eppure, sotto il velo del rituale cavalleresco, si celava una autentica dichiarazione d'amore: della dama del torneo, infatti, egli avrebbe portato i colori per tutta la vita.
Il sentimento di adorazione che Enrico provava per la grande Siniscalca risaliva, in realtà, al giorno in cui, a soli sette anni, era partito per la Spagna insieme al fratello. Mentre l'attenzione generale della corte si concentrava sul delfino, Diane era stata colpita dall'angoscia dipinta sul volto del piccolo Enrico e lo aveva stretto a sé, sfiorandogli la fronte con un bacio. Bacio fatale, il cui ricordo avrebbe accompagnato il bambino nei quattro dolorosi anni di prigionia, cristallizzando per sempre le sue fantasie erotiche.
A differenza del suo introverso e romantico cavaliere, Diane amava soprattutto se stessa; era ambiziosa, avida, lungimirante, e aveva la freddezza, l'alterigia, l'inclinazione alla castità della dea di cui portava il nome. La sua bellezza, ha scritto Marguerite Yourcenar, «era così assoluta, così inalterabile, da occultare la personalità stessa di colei che ne era dotata». Nata in un casato illustre, andata sposa giovanissima a un uomo, di quarantanni più vecchio di lei, che svolgeva l'importantissimo compito di rappresentare il re in Normandia, era stata una moglie e una madre esemplare, paga di occupare un ruolo di primo piano a corte e di appartenere a una delle famiglie più nobili e influenti del paese. Ma non si può escludere che a incoraggiare il suo rigoroso riserbo avesse contribuito il ricordo della fine toccata alla suocera, uccisa dal marito geloso.
Nel 1531, a trentun anni, ancora relativamente giovane per i criteri dell'epoca, e con una bellezza intatta, Diane rimase vedova e, ben decisa a non risposarsi, cominciò a costruire con grande sapienza il suo personaggio. Prendendo a modello Artemisia, la celebre moglie di Mausolo re di Alicarnasso che figurava in tutti i cataloghi delle donne illustri, ella adottò i colori del lutto - il bianco e il nero -, aggiunse al suo stemma la torcia rovesciata, simbolo delle vedove, e celebrò la memoria del marito, dedicandogli nella cappella del castello di Anet uno splendido mausoleo. Ammantata di dignità e al riparo dalle insinuazioni, la Grande Siniscalca trovò nella sua nuova condizione una libertà d'azione di solito negata alle donne.
Probabilmente su richiesta dello stesso Francesco I, che contava sul suo insegnamento per ingentilire il figlio e iniziarlo all'uso di mondo, Diane accondiscese a lasciarsi adorare pubblicamente da Enrico, secondo gli schemi del platonismo cortese allora in voga, acquisendo su di lui un ascendente assoluto. Nonostante la solida posizione di cui da sempre godeva a corte, la Grande Siniscalca non sottovalutava i vantaggi che le potevano derivare dall'appoggio incondizionato di un principe di sangue reale. In seguito fu la prima a caldeggiare l'unione del giovane principe con la discendente dei Medici, anche perché questa portava nuovo lustro alla sua famiglia, dal momento che il nonno materno di Caterina - Jean de la Tour d'Auvergne - era il fratello della nonna paterna di Diane. Ma allorché, nel 1536 (tre anni dopo quel matrimonio), la morte inaspettata del delfino fece di Enrico l'erede al trono, la vedova inaccessibile scese dal piedistallo e si concesse al suo ammiratore, pur continuando a mascherare la loro relazione carnale dietro l'apparenza dell'amor cortese.
La decisione di prendere a trentasei anni un amante di diciassette non era priva di incognite: significava rischiare la sua fulgida reputazione, esporsi al ridicolo, alla satira, alla calunnia e andare incontro prima o poi a un abbandono umiliante. Ma aveva forse un'altra scelta? Continuare a negarsi a un uomo giovane e con un temperamento focoso non equivaleva ad abbandonare la partita? E la posta in gioco non era troppo alta per non tentare la sorte?
Il loro primo incontro amoroso ebbe luogo al castello di Ecouen, con la complicità del connestabile Anne de Montmorency, amico di entrambi. Pieni di trepidazione e di grazia, di sensualità e di pudore, i versi scritti da Diane in quell'occasione ci trasmettono, nonostante la convenzionalità del linguaggio e delle immagini, la sorpresa di una donna innamorata, travolta suo malgrado dalla passione. [...]
Vera o falsa che sia, è questa l'immagine che Diane avrebbe continuato a tener viva nel cuore dell'amante, riaccendendo in lui, giorno dopo giorno, l'emozione di una conquista che aveva creduto impossibile. Nei versi attribuiti a Enrico, il ricordo di quel mattino memorabile appare, invece, come «una vera e propria iniziazione, un rito di passaggio dalla condizione di adolescente a quella virile, e al tempo stesso come un'investitura a cavaliere della dea Diana». […]
Se Enrico giurava a Diane eterna obbedienza, Diane dal canto suo ingaggiava una spettacolare gara contro il tempo per mantenere intatto il suo ascendente. Bagni ghiacciati, esercizi fisici all'aria aperta, dieta spartana, messa al bando di ceroni e belletti nocivi per la pelle erano le strategie di assoluta avanguardia a cui la Grande Siniscalca fece ricorso per preservare, nonostante lo scorrere degli anni, la sua scultorea bellezza. Brantôme, che la conobbe quasi settantenne, ricordava «la sua bellezza, la sua grazia, la sua maestà» e, convinto che sarebbe rimasta tale anche a cent'anni, lamentava «che la terra inghiotta tali bei corpi». L'avvenenza non era tuttavia la sua unica arma, poiché si accompagnava in lei a un'arte squisita della seduzione e a un sapiente erotismo. Lo sapeva bene Caterina che, credendo nella magia e volendo scoprire di quale genere di sortilegio ella si fosse servita per irretire il marito, era riuscita a spiare, attraverso una fessura della parete, un loro incontro galante. Così, racconta sempre  Brantôme, ella vide «una donna bellissima, bianca, delicata e freschissima, tra in camicia e nuda, la quale faceva al suo amante mille carezze, moine e cosucce gradevoli» e vide «altresì lui renderle le carezze e tutto il resto, in modo che scendevano ambedue dal letto e si coricavano e si abbracciavano sul soffice tappeto posato ai piedi della lettiera». Davanti a una visione lauto diversa dalle sue esperienze coniugali, Caterina scoppiò in singhiozzi e si rassegnò all'evidenza: il sortilegio di cui era stata testimone non aveva rimedio e l'ascendente di Diane era destinato a durare.


Da Amanti e regine. Il potere delle donne, Adelphi, 2005

Signor Presidente... Gli insegnanti scrivono a Mattarella

Attraverso la rete (ma non solo) è circolata la missiva che segue, diretta da insegnanti al Presidente della Repubblica per chiedere udienza e sollecitare un intervento sulla cosiddetta Riforma scolastica che il governo ha presentato ed è in corso di discussione in Parlamento. La petizione, sostenuta da una pagina fb, intitolata “La vera scuola – Gessetti rotti” è stata diffusa a fine marzo tramite “Change”, ha raccolto (oltre alla sottoscrizione di associazioni e gruppi variamente rappresentativi) 68 mila firme individuali ed è stata consegnata al capo dello stato il 24 aprile. “Posterò” notizie sulla risposta. (S.L.L.)

Ill.mo Presidente della Repubblica
On. Sergio Mattarella
Palazzo del Quirinale
00187 Roma

Signor Presidente,
siamo docenti di ruolo e docenti precari della Scuola Pubblica Italiana, membri di diversi gruppi fra loro collegati (non solo in rete), che in questi giorni vivono uno stato d’animo tormentato a causa del Disegno di Legge di Riforma Scolastica che sta per essere esaminato alla Camera dei Deputati.
Ci appelliamo a Lei e al Suo ruolo di Garante della Costituzione affinché siano messi in luce gli evidenti profili di incostituzionalità di quella proposta, che andrebbero a ledere in maniera definitiva e drastica la Scuola della Repubblica.
Il nostro è un urlo accorato, “dal basso”, di professionisti e lavoratori che prefigurano uno scenario clientelare, privatizzante, aziendalistico dell’Istituzione che rappresentiamo.
Consapevoli della Sua attenzione per una materia così delicata e vitale per il nostro Paese, ci permettiamo dunque di segnalarLe alcuni dei punti più critici.
Conferire al Dirigente Scolastico il potere di scelta dei docenti, istituendo albi regionali che di fatto li precarizzano, violerebbe non solo i diritti acquisiti di quei docenti, ma anche l’art. 33 Cost., secondo il quale “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. La libertà d’insegnamento, infatti, implica un’autonomia didattica e metodologica che non potrebbe essere più garantita nel momento in cui, come pretende la Riforma, si aumentasse la discrezionalità del Dirigente Scolastico fino al punto di consentirgli la selezione della sua “squadra”, scegliendo un docente rispetto a un altro in base a criteri meramente soggettivi.
Con ciò verrebbero meno i presupposti minimi di oggettività e di merito su cui dovrebbe essere improntata l’azione del pubblico impiego, specie in un settore così delicato, come quello dell’istruzione, preposto alla formazione delle persone e dei cittadini.
Verrebbero meno, inoltre, i principi di imparzialità e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, come sancito dall’art. 97 Cost. Il che non significa assenza di orientamento, perché non è preclusa ai funzionari pubblici la possibilità di esprimere valutazioni discrezionali, ma ciò deve avvenire nella piena osservanza della legge e senza discriminare i soggetti coinvolti.
Il principio di imparzialità, del resto, non si applica solo all’attività della P.A. (divieto di discriminazione), ma anche alla sua organizzazione: i concorsi pubblici, infatti, servono proprio ad evitare il formarsi di una burocrazia che miri a scopi personali anziché all’interesse generale.
Come vede, si tratta di principi essenziali, di democrazia e trasparenza, che con l’approvazione del DdL non sarebbero più garantiti.
Signor Presidente, la scuola non è un’azienda e, per la sua stessa natura di “comunità”, necessita di una gestione partecipativa e non verticistica.
Quando si parla di maggiori poteri dei Dirigenti Scolastici, ci si dimentica che costoro sono a capo di un’istituzione che eroga un servizio educativo, formativo, civico.
Nei comunicati governativi leggiamo: “I dirigenti scolastici diventano leader educativi con strumenti e personale adeguati per il miglioramento dell’offerta formativa”. Si parla di un preside-sindaco, che avrà facoltà di scegliersi lo staff, nominare i docenti mentori, presiedere il nucleo di valutazione, gestire con chiamata diretta l’organico. Ma a chi risponderanno del loro operato? Chi vigilerà sui possibili abusi? E, soprattutto, a chi gioverà una tale concentrazione di poteri?
Si ha l’impressione che tutto questo finirà per minare la collaborazione all’interno del corpo docente, tratto essenziale per la buona riuscita del rapporto apprendimento-insegnamento. E viene da chiedersi che senso ha avuto, nei mesi scorsi, espletare una consultazione con i cittadini, con i docenti e con i dirigenti, se poi di quelle risposte e di quelle proposte non è stato comunicato alcunché. È questo il livello di serietà e di trasparenza che ispira chi ha redatto quel Disegno di Legge?
Signor Presidente, Le chiediamo di dare voce alle nostre voci, di lasciare che i lavoratori della Scuola si esprimano.
La preghiamo pertanto di concederci un’udienza per precisare le nostre ragioni. Alleghiamo alla presente un foglio di firme puramente indicativo e incompleto. E’ circolato solo pochi giorni perché, visto l’imminente avvio dell’iter parlamentare del DdL, ci premeva informarLa tempestivamente dei gravi pericoli che Le abbiamo rappresentato.
Certi della Sua comprensione e in attesa di una Sua cortese risposta, Le auguriamo buon lavoro e Le porgiamo un distinto saluto.

26.4.15

Caterina mercante e regina (Valerio Castronovo)

Poche donne sono state oggetto di così dure esecrazioni come Caterina de' Medici. Figlia di banchieri, nipote di un papa, moglie di Enrico II di Francia, madre di tre sovrani (Francesco II, Carlo IX ed Enrico III), reggente o consigliere al trono, la «mercante fiorentina» ebbe in sorte per trent'anni il governo di un paese dilaniato pressoché ininterrottamente da aspri conflitti politici, sociali e religiosi, esposto ai colpi di mano e alle ingerenze dei suoi avversari. Era ancora in vita, e più che mai temibile, quando venne additata come la causa di tutti i mali che affliggevano la Francia; né l'odio per la straniera «avida di potere, usurpatrice astuta e crudele, educata dall'usura, nutrita nell'ateismo», si spense del tutto dopo la sua morte. Su di lei continuò a gravare l'accusa di a-vere organizzato il massacro degli Ugonotti, nella famosa notte di San Bartolomeo del 1572, in un secolo che pur vide stragi e violenze non meno spietate e infamanti.
Del resto, ancor prima di trovarsi al centro di vicende tanto drammatiche, Caterina non aveva mai avuto vita facile. Rimasta orfana della madre a pochi giorni dalla nascita, coinvolta, adolescente, nel tumultuoso epilogo della Repubblica fiorentina nel 1527, quando i capi della fazione più estremista avrebbero voluto mandarla a morte o gettarla in un postribolo, vittima inconsapevole di un'ardita combinazione diplomatica fra Francesco I e Clemente VII (andata a monte per la prematura scomparsa del pontefice), e perciò tollerata a malapena — quasi come un'ospite indesiderata — alla Corte di Parigi, dove ci si aspettava ben altro che «una ragazza nuda e cruda» quale sposa del Delfino, Caterina fu per lungo tempo tenuta in disparte dal marito, innamorato della bella Diana di Poitiers e incurante di dissimularlo. Piccola, tonda, gli occhi sporgenti, il colorito pallido, Caterina, per quanto compiacente e discreta, non aveva attrattive tali da tener testa onorevolmente alla rivale; né la sua intelligenza e la sua finezza, sebbene largamente apprezzate, potevano assicurarle un ruolo di primo piano nella direzione degli affari pubblici.
Fu la tragica scomparsa del marito, nel luglio 1559, a rivelare in lei una personalità energica e volitiva sotto la maschera di condiscendente passività di cui aveva fatto mostra fino allora per non essere sopraffatta. Giocando d'astuzia, traendo vantaggio dai conflitti d'interesse e dalle passioni di chi le stava intorno, contrapponendo un rivale all'altro, muovendo con estrema abilità e spregiudicatezza tutte le pedine in suo possesso, l'«italiana» finì per imporsi come la più strenua tutrice della monarchia francese in un periodo in cui questa pareva destinata a dissolversi. «Un miracolo di natura, veramente nata per reggere e governare», la definirà nel 1579 l'ambasciatore veneto Lippomano, che pur aveva visto all'opera tanti altri maestri di intrighi e di macchinazioni.

Abito vedovile
Ma quando Caterina assunse il timone dello Stato, nel 1560, per conto del figlio quindicenne Francesco II, la partita era appena cominciata e nulla (dalla bancarotta della finanza pubblica alla prepotenza dei grandi signori feudali e al dilagante malcontento dei ceti popolari) faceva presagire che quella partita si sarebbe risolta in suo favore.
In un libro denso di fatti e documenti (Caterina de' Medici, Sansoni, pagg. 624, lire 25.000), Ivan Cloulas si è proposto di riabilitare una figura tanto discussa e controversa, a costo di scontrarsi non soltanto con una mitologia nazionale di segno avverso, alimentata da centinaia di libelli del tempo e di rievocazioni romanzate, ma anche con alcune interpretazioni storiche fra le più accreditate. E lo ha fatto — occorre riconoscere — con abilità, evitando di stendere un velo pietoso sui misfatti perpetrati da Caterina, mettendo anzi in luce talune sue caratteristiche poco edificanti (la dissimulazione, la mancanza assoluta di scrupoli, lo spirito di vendetta, l'indifferenza per le convinzioni morali e religiose), ma giustificandole alla luce della ragion di Stato, di una lotta lunga ed estenuante per garantire, fra mille avversità, la continuità del potere regio e per salvare, insieme alla monarchia, l'unità della nazione francese.
In realtà, l'innato machiavellismo della Regina madre, la sua capacità di destreggiarsi fra i venti mutevoli della fortuna non andando tanto per il sottile, fu un'arma importante, ma non quella decisiva. La chiave segreta del suo successo fu piuttosto l'ascendente che Caterina seppe esercitare sui propri sudditi (pur insofferenti dei suoi arbitrii più scandalosi e delle fameliche cricche che alla sua ombra spadroneggiavano a Parigi) in nome di un'autorità di cui la regina si sentiva gelosa custode prim'ancora che legittima erede. Il suo mesto abito di vedova, i suoi veli neri, ostentati come un simbolo solenne di maestà regale, rappresentarono il presidio più sicuro del suo potere assoluto e, insieme, una sorta di alibi privilegiato per qualsiasi evenienza.

Ansie morbose
Madre imperiosa e calcolatrice, attenta e risoluta nel difendere con le unghie e con i denti ciò che apparteneva ai figli, spietata con chi tentasse di sbarrarle il passo, Caterina era tuttavia consapevole della sua intima debolezza e del suo crescente isolamento. Al punto che, come non esitò mai a sterminare i propri nemici al minimo sospetto, così continuò, per tutta la vita, a valersi di qualsiasi espediente per esorcizzare le proprie paure, le proprie ansie ossessive. La sua inclinazione morbosa per l'occultismo e la divinazione non fu un'oltraggiosa diceria messa in giro dagli avversari. Per scongiurare la cattiva sorte, Caterina non soltanto si circondò di amuleti e talismani, ma fece ricorso più volte ad astrologi e negromanti, anche se non si fece mai suggestionare dai venditori di facili profezie e fu abbastanza lesta a sbarazzarsene al momento giusto.
Si fidava assai più dei banchieri che s'era portata dietro da Firenze; e non a torto. Quantunque uomini d'affari come i Gondi, i Birago, i Sardini badassero soprattutto ad arricchirsi a scapito dell'erario e a spillare senza tregua privilegi e titoli nobiliari, essi assicuravano alla regina l'appoggio di un «partito italiano» tanto influente a Corte (in un periodo in cui, senza gli anticipi dei finanzieri, sarebbe stato difficile attendere a qualsiasi compito di governo) quanto abile e sollecito, all'occorrenza, nel tenere le fila di delicate e complesse mediazioni con la Spagna e con il Vaticano. In verità, Caterina trovò validi collaboratori anche nell'apparato statale, che cercò di rafforzare senza peraltro sacrificare i diritti di parola delle Assemblee e delle Comunità locali sull'operato dei funzionari regi e sull'amministrazione della giustizia.
Ma la situazione della Francia era troppo compromessa (il paese era scosso da un profondo disagio economico e sociale e lacerato da sanguinose discordie confessionali) perché a Caterina potesse riuscire la stessa operazione portata a compimento con successo da Elisabetta in una società come quella inglese: che traboccava d'energia e vedeva nella monarchia l'istituto garante dell'unità politica e religiosa del paese e l'interprete di nuovi ideali nazionali. In Francia, l'alleanza stabilitasi in passato fra Corona e borghesia s'era ormai dissolta (da un lato, per la convulsa resurrezione dei particolarismi feudali, dall'altro, sotto la pressione del rivoluzionammo radicale dei calvinisti).

Sfacciata corruzione
A Caterina non restava che l'ingrato compito di salvare il salvabile in un paese preso di mira dalle cupidigie imperiali di Filippo II e spaccato in due dalle guerre di religione. Manovrando pericolosamente, con un gioco serrato di ambigui compromessi e di feroci prove di forza, fra le due maggiori famiglie di Francia (i Guisa, a capo della Lega Cattolica e della fazione più conservatrice, e i Borboni, a capo del partito protestante e delle forze riformatrici), la regina madre riuscì a tenere a bada gli uni e gli altri con una politica di volta in volta liberale e repressiva, attenta in ogni caso a preservare la sovranità e i diritti della Corona in un'atmosfera resa sempre più incandescente dalle sedizioni interne della piccola nobiltà provinciale e dai furori della plebe parigina, infiammata dagli anatemi papali e dai suoi predicatori.
Ma le passioni dottrinali e ideologiche ebbero spesso il sopravvento sul cinismo politico e sullo spirito realistico di Caterina. D'altra parte, gli eccidi di cui s'era macchiata, la sfacciata corruzione morale che imperversava nei suoi palazzi, le ruberie dei suoi favoriti e il deficit catastrofico dello Stato non erano circostanze tali da accreditare il ruolo moderatore della monarchia e la sua candidatura ad arbitro supremo. La guerra dei tre Enrichi (Enrico III di Valois, Enrico di Guisa ed Enrico di Navarra), scoppiata nel 1588 — un anno prima della scomparsa di Caterina — annullò d'un colpo tutti gli sforzi di pacificazione da lei compiuti e segnò il ritorno sulla scena del fanatismo religioso.
Caterina aveva spento i roghi dell'Inquisizione e messo le mani sulle rendite ecclesiastiche, s'era adoperata per risvegliare la coscienza nazionale e aveva tentato riorganizzare l'amministrazione pubblica. Si proponeva di lenire i mali delle carestie e del pauperismo, più con gli strumenti del virtuosismo personale e la fede mistica nella missione detta Corona, che con metodi di governo moderni ed efficaci. Ci vollero, in effetti, altri dieci anni perché la Francia risorgesse dalle sue ceneri per opera di Enrico IV, convertitosi al cattolicesimo in cambio del riconoscimento dei suoi diritti al trono («Parigi vai bene una messa»), e perché, insieme alla libertà di culto, tornasse in vita il vecchio disegno di rivincita antiasburgica.
Nel frattempo, era fatale che sulla figura di Caterina si operasse un trasferimento dell'immagine materna della Francia con tutti i suoi fervori e tabù ancestrali. Le ondate di devozione filiale, il timore reverenziale, i rancori dissacratori che la regina giunse a suscitare non si potrebbero spiegare diversamente.


la Repubblica giovedì 15 gennaio 1981

Brezze di maggio... Una poesia di James Joyce

Brezze di maggio, danzanti sul mare!
Via che danzate di solco in solco
Il girotondo esultante, mentre in alto
Vola la spuma a farsi ghirlanda
D'argentei archi gettati sull'aria,
Vedete l'amor mio da qualche parte?
       Ahimé! Ahi!
       Brezze di maggio!
   Amore è misero se il suo amore è assente!

da Poesie, Oscar Mondadori, 1967 - Traduzione di Alfredo Giuliani

Mondo antico. Dioniso e la Leonessa (Luciano Canfora)

Il Dioniso di Cerveteri, con corno e tirso
«Su una cosa insisto però: il signor Nietzsche mantenga la parola: brandisca il tirso, viaggi dall'India alla Grecia, ma scenda giù dalla cattedra, sulla quale egli deve insegnare la scienza! Ai suoi piedi raduni tigri e pantere, ma non la gioventù filologica della Germania, che nella ascesi e nella abnegazione del lavoro deve imparare a cercare la verità prima di tutto».
Sono le parole conclusive del pamphlet scagliato nel 1872 dal Wilamowitz ventiquattrenne contro La nascita della tragedia di Nietzsche. Il pamphlet era sarcasticamente intitolato Filologia futurale (Zukunftphilologie), conformemente ad un uso stranamente dozzinale del concetto di «pertinente al futuro» (o, se si vuole, di «volto al futuro») nel senso e come equivalente di «pessimo». Alla superficie si trattava di una rissa accademica. Il giovane dottor Wilamowitz, bravissimo, attaccava, con l'agguerrito libello, l'opera geniale, e vulnerabile tecnicamente, del di poco meno giovane Nietzsche, imposto, per una congiuntura accademica, sulla cattedra di filologia classica di Basilea prima ancora del conseguimento del dottorato. Nella sostanza vi era la insofferenza del razionale-storicista Wilamowitz contro la propensione irrazionalistica che era dato intravedere dietro la scoperta nietzscheana del dionisiaco come valore profondamente annidato nel cuore stesso della grecità.
La malcelata propensione per il dionisiaco da parte dell'autore della Nascita della tragedia era apertamente denunciata dal Wilamowitz nel finale del libello, là dove invitava il bersagliato rivale a travestirsi da Dioniso, e lo scongiurava, al tempo stesso, di lasciare la cattedra universitaria. La caricatura di Nietzsche era, insieme, la caricatura di Dioniso, l'ambiguo domatore di tigri e pantere. Fino a che punto un tale atteggiamento denotava incomprensione? Non condivido l'atteggiamento di chi vede, in modo manicheo, nel Wilamowitz l'ottuso negatore di una grande scoperta ed in Nietzsche il genio misconosciuto. Nell'ultimo, e forse più importante libro del «princeps philologorum», La fede dei Greci (terminato dal Wilamowitz in punto di morte), vi sono pagine di grande rilievo ed efficacia sulla religione dionisiaca. Vi era, piuttosto, un allarme etico in quello sfrenato attacco giovanile: per così dire un appello a non lasciarsi prendere da Dioniso.
Una tradizione, che si potrebbe brachilogicamente definire dionisiaca, si è nondimeno sviluppata negli studi sul mondo greco: soprattutto negli studi sulla religione greca (penso a Zagreus di Macchioro), ma anche, e soprattutto, sotto l'impulso dell'antropologia comparativistica, e da ultimo nella storia del pensiero filosofico. Non è senza una certa impressione che si incontra, nel I volume dei Presocratici a cura di Giorgio Colli (coeditore, non a caso di Nietzsche col Montinari), Dioniso come primo dei pensatori presocratici, seguito immediatamente da Apollo. «Perché faccio cominciare da Dioniso il discorso sulla sapienza?», così esordiva Colli nella prefazione, «Con Dioniso, invero, la vita appare come sapienza, pur restando vita fremente: ecco l'arcano». Davvero non si vede perché manchi Zeus, col quale - secondo Esiodo - si instaurava il regno della giustizia.
Studioso di religione greca, Marcel Detienne, ben noto al pubblico italiano per i suoi studi sui Maestri di verità (Laterza 1977) e su Metis (Laterza 1974), su quella cioè che qualche hanno fa, in un saggio di successo, venne definita l'intelligenza «bassa», quella «dei marinai e delle donne», Marcel Detienne, dicevo, si è via via fatto, in questi ultimi anni, secondo un coerente sviluppo, biografo di Dioniso. Nulla di strano, dal momento che Colli aveva già provveduto a classificarne in «testimonianze e frammenti» (secondo il modello dei Vorsokratiker di Hermann Diels) il pensiero. Dopo Dioniso messo a morte (1977, in italiano Dioniso e la pantera profumata), ecco ora
Dioniso a cielo aperto (1986, Laterza 1987). È, quello di Detienne, uno sguardo costantemente rivolto a scrutare l'Es del mondo greco attraverso quel grande rivelatore che è appunto la religione dionisiaca. Il filo conduttore è, in particolare in quest'ultimo saggio, il nesso tra religione dionisiaca, follia e liberazione (attraverso le trance, la follia, il separatismo) delle donne: sulle quali, com'è chiaro dalle testimonianze, il dio esercita una straordinaria attrazione. Detienne riespone dati annegati nelle fonti e li valorizza anche come rutilante narratore. Rievoca ad esempio la straordinaria e crudele esistenza delle donne raccoltesi su di un'isola alla foce della Loira (Nan-tes?), le cosiddette «mogli dei Namneti», le quali raggiungono a nuoto i loro mariti solo quando desiderano avere un rapporto sessuale, ed una volta l'anno debbono rifare in poche ore, prima del tramonto, il tetto del santuario di Dioniso, ed ogni volta massacrano e smembrano quella di loro che farà cascare (accade ogni volta) il suo carico nel corso del lavoro. La fonte è il geografo Strabene, di età augustea; la fonte di Strabene sarà Posidonio. Dioniso in Gallia è davvero una straordinaria presenza.
Ma l'estasi può assumere altre forme, anche contagiose: è il cosiddetto «dionisismo», che colpì le figlie di Preto, re di Argo, e, via via, si estese a tutte le spose. Segno della follia — lo racconta lo pseudo-Apollodoro — era che le donne «uscivano di casa», uccidevano i figli, sparivano nei boschi.
La liberazione non è però solo omicida. Un episodio noto a Plutarco (Sulla loquacità), che Detienne non cita, illumina la figura di una etera ateniese dal tipico nome di Leonessa. Amante di Armodio e Aristogitone e degli altri congiurati, Leonessa fu catturata dopo il fallimento dell'attentato contro il tiranno di Atene; torchiata perché parlasse, rimase muta, patendo le conseguenze del suo coraggio. Ammirati, gli Ateniesi le dedicheranno un monumento, all'ingresso dell'acropoli, raffigurante una leonessa senza lingua. Plutarco precisa che Leonessa era iniziata ai misteri di Bacco, «danzava ebbra attorno al bel cratere dell'amore ed era stata iniziata alle orge segrete del dio». E' notevole che fosse appunto questa la ragione per cui a lei, pur donna, era stato aperto l'occulto e mortale patto della congiura.


“latalpagiovedì – il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1987

Colonialismo e schiavitù. Il “Codice Nero” del Re Sole (Robert Badinter)

Dagli armadi della storia a volte riemergono scheletri. Uno di questi, il «Codice nero», redatto nella Francia di Luigi XIV per disciplinare il mercato degli schiavi, ha riaperto il dibattito mai concluso sugli orrori del colonialismo. Ripubblicato a Parigi negli anni 80 del Novecento, creò scalpore (molti francesi, per esempio, non sapevano che quel codice restò in vigore fino al 1848). Sul tema intervenne Robert Badinter, giurista, già ministro nel governo socialista, che analizzava le strutture profonde che sostennero (in Francia come altrove) la più mostruosa forma di dominio dell'uomo sull'uomo. (S.L.L.)

Appartiene alla storia delle mostruosità giuridiche. Come i trattati degli inquisitoli o i testi dei processi alle streghe. Ma è più recente. Risale a poco più di tre secoli fa, e restò in vigore fino al 1848. È il Codice nero, scrupolosa e minuziosa collezione di leggi che, nella Francia del Re Sole, sancì con tutti i crismi del giure la condizione degli schiavi negri nelle colonie d'America.
Proclamato in nome e per conto di Luigi XIV, quel codice consacrava la massima ingiustizia come giustizia, instaurava - con la solennità di una apposita legislazione - un sistema aberrante. Quello per cui, appunto, si nega agli uomini la qualità, l'essenza stessa di esseri umani.
Dimenticato da tempo, rimosso, il Codice nero torna alla luce. Grazie agli studi di quello stesso ricercatore francese, Louis Sala Molins, che anni fa ripropose e analizzò il Trattato degli Inquisitori. In questo testo come già nell'altro (il Codice nero con il commento di Molins è pubblicato dalle edizioni Puf di Parigi), insomma, lo storico è andato a frugare tra le pagine oscure del passato per intentare un processo alla storia.
Certo la schiavitù non è un fenomeno limitato alle sole Antille e al solo continente americano o circoscritto nell'arco di tre secoli. Essa è di tutti i tempi e di tutti i continenti. La storia di questo crimine contro l'umanità si confonde con la storia stessa dell'umanità. Di questo crimine però Louis Sala Molins intende denunciare ciò che gli sembra moralmente più insopportabile: la sua esistenza in una civiltà che ha come fondamento la dignità sovrana di ogni uomo, creatura di Dio e titolare di diritti naturali inalienabili.
Di questa contraddizione insostenibile Louis Sala Molins cerca di definire le origini bibliche, antiche e classiche. Il mito della maledizione di Canaan da parte di Noè fonda biblicamente la schiavitù dei neri. In seguito, nella polis, Aristotele pone il principio per cui «ci sono persone libere di natura e altre che non lo sono». Per il teologo, poi, se ogni uomo è creatura di Dio, lo schiavo è invece di questo mondo. Basta leggere Bossuet: «Lo Spirito Santo ordina agli schiavi, per bocca di San Paolo, di mantenersi nel loro stato e non chiede ai loro padroni di affrancarli».
Maledizione profetica, indifferenza filosofica, consacrazione apostolica: così si forgia quello che Louis Sala Molins chiama lo schema bianco-biblico, che sta spiritualmente alla base del crìmine della schiavitù e della tratta dei neri.
Al potere temporale non restava allora che definire le regole. Nella monarchia assoluta, dove ogni potere deriva dal re, anche il non diritto dello schiavo deve dipendere dall'autorità del sovrano: da questi presupposti nasce il Codice nero. La difficoltà non era da poco: si trattava di definire in termini giuridici la condizione di esseri umani ai quali viene negata dal legislatore la condizione di uomini. Il Codice nero proclama: «Dichiariamo gli schiavi esseri mobili». Il loro regime sarà quello definito dalle consuetudini di Parigi per i beni mobili. Gli schiavi rientrano dunque nella comunità di beni tra coniugi. Se lavorano in una piantagione, gli schiavi dovranno seguire la sorte dell'azienda in caso di confisca e verranno venduti insieme ad essa.
Il «Codice nero» fa parte del Grand Siècle. I suoi architetti giuridici costruirono dunque la loro opera secondo i principi che ispiravano l'ordine generale del regno.
Innanzitutto il re è monarca cristianissimo e figlio primogenito della Chiesa. Il Codice nero viene promulgato alla vigilia della revoca dell'editto di Nantes. È il momento della normalizzazione delle anime.
Per evitare qualsiasi rischio di contaminazione spirituale il re comincia col predisporre un provvedimento significativo: con l'articolo primo il Codice nero bandisce dalle Antille tutti gli ebrei. Poi ordina che tutti gli schiavi vengano battezzati ed educati nella religione cattolica, e per questo fa proibizione ai protestanti di catechizzare i propri schiavi nella loro religione. Potranno sposarsi soltanto gli schiavi battezzati.
Cristiano nella Città di Dio, sulla terra lo schiavo rimane destinato alla schiavitù. La sua condizione, così come la stessa sovranità, è permanente ed ereditaria. Nato schiavo, vivrà schiavo, morirà schiavo, genererà schiavi, si sposerà schiavo col permesso del suo padrone. Lo schiavo non può essere niente né avere niente. Non può conquistare la sua libertà, se non attraverso l'improbabile matrimonio con un uomo libero oppure per bontà del suo padrone. La volontà del padrone è sovrana. Lo schiavo è sua proprietà. Libero il padrone di rinunciarvi, cioè di affrancarlo.
Ora, il re ama l'ordine, compreso quello nelle «Isole d'America». Lo schiavo può avere la tentazione di ribellarsi. Gli viene dunque proibito di «portare armi e bastoni, di riunirsi con altri schiavi, neanche col pretesto di nozze», di andare a vendere legumi al mercato, senza esplicito permesso del padrone. La pena per i trasgressori è la frusta e la marchiatura a fuoco. Se lo schiavo si ribella, se alza le mani sul padrone, sulla padrona o sui loro figli, è la morte. Se ruba cavalli o bestiame, sono supplizi, mutilazioni o morte. Se ruba canna da zucchero sono vergate e il fiore di giglio impresso a fuoco. Se fugge per un mese, gli verranno tagliate le orecchie. Se è recidivo, gli verrà mozzato un piede. Se ci riprova, è la morte.
Ma il re è, per sua natura, buono. Non desidera sofferenze oltre il necessario, per il buon ordine del regno. Così il Codice nero, con una precisione tutta colbertiana, stabilisce che il padrone deve fornire allo schiavo due libbre e mezzo di manioca alla settimana insieme a tre focacce pesanti ognuna due libbre e mezzo, e due libbre di bue salato oppure tre di pesce. Nonché due vestiti di tela all'anno.
Ai padroni è fatto obbligo di sostentare gli schiavi infermi, ammalati, anziani. Se li abbandona, verranno assegnati all'ospedale e il padrone verrà condannato a pagare sei soldi al giorno per il loro mantenimento. Al padrone è lecito far incatenare e battere con le verghe o con la corda i propri schiavi. Non può però infliggere torture né fare alcun tipo di mutilazione.
Pie raccomandazioni, penseranno gli scettici. Nient'affatto, risponde il giurista del re. Il Codice nero non considera forse ogni tipo di precauzione? Leggiamo l'articolo 26: «Gli schiavi che non verranno vestiti e sostentati dai loro padroni secondo quanto abbiamo ordinato potranno avvisare il nostro Procuratore generale e affidare le proprie lagnanze nelle sue mani». E l'articolo 43: «Intimiamo ai nostri ufficiali di perseguire criminalmente i padroni che abbiano ucciso uno schiavo sotto la loro potestà». Cent'anni dopo, Condorcet avrebbe scritto: «Da oltre un secolo non c'è stato un solo esempio di un supplizio inflitto a un colono per aver assassinato un suo schiavo».
Infatti, ancora più crudeli delle disposizioni del Codice nero si rivelano le pratiche della schiavitù che si pretenderebbe di regolamentare. Le sue disposizioni, quando cercano di proteggere lo schiavo, sono messe in mora dal potere dei padroni. Il potere dei coloni sarà più forte di quello del re. Il Codice nero appare così come un illusorio tentativo da parte del potere reale di tenere sotto controllo le pratiche schiavistiche.
Ringraziamo Louis Sala Molins di aver recuperato dall'oblio questo prezioso testo e di denunciare ad alta voce il silenzio in cui era sepolto. Per vari secoli l'Occidente cristiano ha perpetrato, con la tratta e la schiavitù dei neri, un crimine essenzialmente razzista. Che questo crimine sia stato non soltanto tollerato ma anche codificato dal potere, per il maggior profitto dei proprietari delle piantagioni e dei mercanti, in un secolo in cui brillava così vivacemente l'astro della cultura classica, ebbene tutto ciò appare giustamente a Louis Sala Molins come uno scandalo. Per lui però ancor più intollerabile è l'indifferenza del XVIII secolo nei confronti del Codice nero, proprio mentre si andavano affermando la filosofia dei lumi e l'ideologia dei diritti dell'uomo.
Indubbiamente la condanna della schiavitù da parte di Montesquieu nel XV capitolo dello Spirito delle leggi non ha tutta la forza e tutto il rigore che oggi vi vorremmo trovare. Quanto a Rousseau, se voleva liberare gli uomini, non ha però denunciato il Codice nero. E gli uomini del 1789 hanno ceduto di fronte alla lobby colonialista, rappresentata dai ricchi piantatori delle Antille, come se la storia della decolonizzazione avesse cominciato a balbettare già sotto la Costituente!


EUROPEO/18 LUGLIO 1987

Al liceo (Rossana Rossanda)

Le ragazze sono malinconiche e pazze. Al liceo il professore di italiano trattò con freddezza Chiare, fresche e dolci acque e ci assestò che l'esame più importante della vita una donna lo passa la sera delle nozze. Mi rivoltò. Eravamo mezze donne, i primi tacchi alti, la vita stretta, il seno appena disegnato, i bei capelli dorati sulle spalle delle amiche. Una, Chicca, la ricordo mentre si volta, guizzante, una cintura sulla vita esile, il viso sicuro, spiritoso. Mi pareva che le compagne delle famiglie più abbienti fossero più disinvolte, sapessero più cose. E poi due o tre erano già donne, non fra le più brave perché intente a più appassionanti cose che all'interrogazione.
Al liceo mi trovai per la prima volta in una classe interamente femminile. La classe mista si dà un primo equilibrio fra maschi e femmine, loro e noi. Ma una trentina di ragazze assieme sono esiziali. Il professore di greco e latino, Orsini, miopissimo, passava fra i banchi immerso nel testo che leggeva, mentre intrecciavamo e disfacevamo a gran velocità i capelli della compagna davanti per confonderlo. Una volta introducemmo in classe un'anitra - un'anitra non è una presenza da poco in un'ora di latino. C'è una punta di sadismo nelle giovanissime verso l'uomo vecchio (la donna vecchia neanche la vedono). Oggi avremmo trasgredito in altro modo, ogni generazione fa quel che può. Lui alzava la testa e sbatteva le palpebre smarrito, ci trovava compunte, il naso sul libro. Ma mi insegnò latino e greco, quella sua religione traforava la nostra stoltezza. All'estremo opposto il professore di storia, Lennovari, ci impedì di farci gioco di lui e ci trasmise una percezione della storia come assoluto non senso. Per due delle sue tre ore settimanali elencava, fissandoci da potenti occhiali, un seguito di guerre che cominciavano e finivano, di re e imperatori che assurgevano e declinavano, di terre che cambiavano di signore e confini, in un tempo senza connotazioni. La terza ora ci interrogava tutte a raffica: Lei, in che data Alboino prende Pavia? Lei, chi tratta la pace di Utrecht? Quando passa agli Hohenzollern il Brandeburgo? La storia rimase per me un seguito di eserciti che correvano, si trucidavano e si fermavano fino alla corsa seguente. In quegli anni una disposizione particolarmente cretina fece sì che il professore di storia dovesse insegnare filosofia, e là il povero Lennovari affogò. Nelle ore di lezione proferiva insensatezze, lui stesso incredulo di quel che andava dicendo, e nell'interrogazione si limitava a date di nascita, morte e pubblicazione. Per cui sulle monadi senza porte né finestre e la materia come prodotto dello spirito assoluto starnazzammo con vigore.
Rinvivite, buttammo fuori il professore di religione accusandolo di insultare la nostra innocenza, e all'ora di scienze ci offrivamo in coro di andare a prenderne i pochi strumenti per scorrazzare nei corridoi. «Che fa qui, signorina?» sbucava il preside. «Porto il canguretto, professore». A quell'età si è certi che la scuola è piena di insensatezze e non c'è che traversarle col minimo dello sforzo e il massimo dei risultati. Non conoscevamo la parola istituzione, ma eravamo sicure che la vita stava fuori, al più spuntava nei ritagli, faceva segno da qualche parte.
Tuttavia il professor Lennovari enunciava tali stramberie che nella filosofia doveva per forza esserci dell'altro, e papa confermò comprandomi due libri: La visione della vita nei grandi pensatori di Eucken e la Storia della filosofia moderna di Windelband. Nei quali mi immersi con delizia, pancia a terra sul tappeto e rinviando i compiti, era una trasgressione sotto la rispettabile forma di anticipo, mi parve di capire tutto, gli occhi finalmente dissigillati sugli abissi dello spirito. Facevo la ruota come un pavone...

da La ragazza del secolo scorso, Einaudi 2005

Papisti contro ugonotti. Il re Sole porta il buio (Emanuel Le Roy Ladurie)

Un disegno sulle "dragonnades", le conversioni forzate degli ugonotti
Ogni anno ha il suo lascito di commemorazioni. Ma non tutti si sono accorti che il 1985 rievoca il trecentesimo anniversario della revoca dell'Editto di Nantes. Finiva allora la fragile coesistenza fra papisti e protestanti: chiese abbattute, persecuzioni, esilii; inizia un secolo buio per la storia delle libertà religiose in Europa.
Gli ugonotti francesi d'oggi sono rimasti profondamente scossi dall'ondata d'aggiornamento radicale che da quindici anni si abbatte sulla Federazione protestante di Francia e sul Consiglio ecumenico delle Chiese. Questo trecentesimo anniversario sarà per loro l'occasione per rinverdire l'eroismo dei grandi antenati.
L'Editto di Nantes viene promulgato nel 1598 da Enrico IV: dopo 40 anni di reciproci assassinii e di guerre religiose (cattolici contro riformati), finalmente sono poste le basi per una coesistenza pacifica dei due culti. Niente più che coesistenza, però: nessuno osa ancora parlare di tolleranza. Questa parola magica implicherebbe una distensione tra gli spiriti liberi e bigotti delle due sponde. E il Seicento non è certo un secolo incline alle concessioni, in fatto di credenze.
La legalizzazione del protestantesimo sancita dall'Editto di Nantes nel 1598 non conviene ai preti del clero gallicano: la Chiesa francese l'accetta controvoglia. Anche i protestanti non sono affatto entusiasti del principio che sta alla base dell'Editto: le loro esigenze in materia di fede sono altrettanto totalizzanti, intolleranti e a tratti sanguinarie di quelle dei papisti. Ma quello che conta è il dispotismo che la maggioranza esercita a scapito delle minoranze: in Francia, la Chiesa romana è maggioritaria e perciò risulta odiosa sotto tutti gli aspetti. La situazione è esattamente opposta in Inghilterra, dove la massa dei sudditi è di fede anglicana, mentre i papisti diventeranno solo un piccolo gruppo di perseguitati.
Gli effetti dell'Editto di Nantes, in ogni caso, durano poco. A partire dal 1661 una tempesta di ostilità torna ad abbattersi sugli ugonotti francesi: a scatenarla sono Luigi XIV e i suoi ministri che, in cuor loro, hanno già rinnegato l'Editto di Nantes. Colbert, ministro delle Finanze del re Sole, si mantiene su posizioni moderate: non vuole certo uccidere la gallina dalle uova d'oro, e sa bene che gli imprenditori calvinisti sono fra i più attivi del regno. Ma il casato Le Tellier-Louvois non ha di questi scrupoli ed è decisamente contrario alla fede calvinista. Sarà proprio Le Tellier padre, cancelliere di Francia, a redigere l'atto di revoca dell'Editto di Nantes, nel 1685.
Assumendosi la responsabilità di questa azione di sterminio, il re e i suoi agenti traducono in atti legislativi i desiderata della Chiesa gallicana, che vuole sbarazzarsi dei «settari di Ginevra». Le misure prese a questo fine dal «conseil d'en haut» (all'incirca l'equivalente dell'attuale consiglio dei ministri) minano la base legale del culto protestante. Ne parla con precisione e passione Janine Garrison nel suo libro L'Editto di Nantes e la sua revoca. Storia di un'intolleranza (Seuil). Il libro offre un resoconto ampio ed effervescente di quello che in Francia preparò e accompagnò il tentativo di annientamento degli ugonotti: sotto questo aspetto il libro merita di essere letto. L'unico suo neo è la mancanza di un confronto con le misure prese in altri paesi, contro altre infelici minoranze: a partire dai papisti, che a Londra e a Dublino subirono l'oppressione durante l'epoca classica, così come la subirono in Francia i calvinisti. Ma proprio dalla sua dimensione nazionale, la ricostruzione di Janine Garrison forse trae una straordinaria forza di persuasione...
La tensione religiosa cresce. Vengono abbattuti i templi, tra gli applausi del popolino. I calvinisti hanno l'obbligo di rispettare i simboli del culto cattolico, tra i quali il santissimo sacramento. I paesi di recente integrazione alla Francia (come Gexe Béarn) perdono le libertà religiose di cui avevano goduto fino a quel momento le loro forti comunità riformate. I protestanti non possono ricoprire cariche civili o militari per conto dello Stato; non possono esercitare la professione medica o giuridica. Vengono esclusi dalle corporazioni le cucitrici e gli stagnai rimasti fedeli alla religione riformata. Tutto il ciclo della vita, dalla nascita alla morte, viene sottoposto a stretta sorveglianza. A partire dal parto: la levatrice deve essere cattolica. Poi durante la giovinezza: le scuole non papiste sono bandite. E infine al momento del decesso: il protestante in agonia riceve la visita dei giudici, che s'informano d'una sua possibile conversione in extremis.
Tutto questo culmina nel 1685 con la revoca dell'Editto di Nantes, promulgata a Fontainebleau, che bandisce il culto eterodosso. I più lucidi, come Vauban e Saint-Simon, disapprovano questa barbarie. Ma l'élite intellettuale (Bossuet, Madame de Sévigné. La Bruyère...), per paura o per convinzione, finisce per applaudire.
L'esodo dalla Francia diventa allora massiccio: circa 200 mila protestanti, sui 900 mila che conta la Chiesa riformata, riescono a lasciare il territorio nazionale. La Francia contava allora 20 milioni di anime: dunque, un esule per ogni cento abitanti del regno. Contrariamente alle previsioni, la perdita economica e demografica non è rilevante. Enorme è invece il danno morale.
Ai soldati, che costringono le vittime ad abiurare, si devono le conversioni forzate, o «dragonate». Queste conversioni proiettano un'ombra sinistra sull'operazione anti-Editto di Nantes, concepita come una violazione collettiva delle coscienze.
L'eroismo di molti protestanti e la loro capacità di sopravvivenza oscurano la memoria di Luigi XIV, nel momento più odioso del suo operato. Eppure, i re delle vicine nazioni (fatta eccezione per l'Olanda) non agivano in modo molto diverso. La Spagna si serviva dell'Inquisizione. Il governo di Londra, così liberale per altri aspetti, vessava i papisti.
L'epilogo a lieto fine viene con l'annullamento della revoca. Il buon Luigi XVI e più tardi la Rivoluzione del 1789 emanciperanno definitivamente gli ugonotti. Oltre la Manica, invece, i cattolici continueranno a essere discriminati fino al 1830.
Nel 1985 in Europa c'è ancora una specie di guerra religiosa tra papisti e protestanti con l'aggravante del fattore nazionale. Danneggia parte dell'Irlanda del Nord: le Cevenne sofferenti non sono più attuali, ma a Belfast o a Londonderry la loro presenza si fa ancora sentire.


EUROPEO/30 MARZO 1985

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