30.7.12

La poesia del lunedì. Khosro Golesorkhi (1944-1974)

Mio diritto cipresso,
è il tuo modo, morire in piedi.
In te il canto
accusatore degli esiliati,
in te il canto della vittoria,
nei tuoi occhi
la luce del mattino.
Mio diritto cipresso,
è il tuo modo, morire in piedi.

Postilla
Su Khosro Golesorkhi, poeta comunista iraniano condannato a morte dal regime filo-occidentale, corrotto e tirannico, dello Scià Palhavi, puoi vedere il seguente link in questo stesso blog.

Mario Soldati viaggiatore e diarista. Il primo e l’ultimo (di Raffaele Manica)

Un ampio stralcio dalla recensione del terzo “meridiano” dedicato a Mario Soldati, una sorta di ritratto onde prorompe simpatia per uno scrittore molto “americano” e forse per questo un po’ ai margini del “canone”. (S.L.L.)
Il monumento è arrivato a conclusione, con un blocco imponente per materiali e finiture.
Il terzo e conclusivo volume delle opere di Mario Soldati nei «Meridiani », America e altri amori - Diari e scritti di viaggio (a cura e con un nitido saggio introduttivo di Bruno Falcetto e con ricchi apparati di Stefano Ghidinelli, Mondadori, pp.CXXVIII-1816, € 60,00), come i due che lo hanno preceduto - romanzi, e romanzi brevi e racconti – induce una domanda: dove trovare davvero Soldati? L’esuberanza del romanziere e del narratore, quando lo si legge, lascia credere ogni volta che sia impensabile trovare di meglio altrove; ma il problema è che la stessa impressione si ha leggendo la parte della sua opera che con una certa approssimazione, eppure con proprietà, si potrebbe definire saggistica, inclusi i resoconti di viaggio, in Soldati serviti da e messi al servizio di uno spirito di osservazione con pochi pari in Italia.
Si prenda America primo amore, il libro col quale nel 1935 Soldati raggiunse una notorietà poi sempre incrementata, salvo le fisiologiche curve in basso che ogni autore deve al destino, e che consuetamente si accentuano dopo la scomparsa. Il brulichio della vita americana ripresa da euforia dopo il crollo di Wall Street vi è colto con uno stile impiantato in massimo grado dentro la lingua e la letteratura italiana, ma senza salamelecchi a nessuna maniera. Soldati, rapido sempre nell’apprendere, afferra un dettaglio e lo mette al centro, e poi un altro dettaglio scalza il precedente, e diventa centro a sua volta. E se, andando avanti nella sua opera, si può percepire quanto Soldati sia stato l’unico scrittore americano ad aver scritto in lingua italiana, l’idea deve venire da qui, dalla madre di tutte le sue opere.
Uno dei vantaggi di questo terzo volume è che in esso si può con agio e frutto vedere insieme lo scrittore primo e ultimo. Così ci si accorge come L’avventura in Valtellina, uno degli ultimi suoi libri – scritto per commissione dopo un soggiorno nel luogo-titolo e pubblicato nel 1985 – sia il rovescio di America, cinquanta anni dopo: la sua realtà lenta e rarefatta, costituita da piccoli eventi quotidiani – come la scelta di una lama dal barbiere o l’aroma del caffè – ha le sembianze di un tramonto ritratto ai sali d’argento, in un bianco e nero che serba traccia dei vividi colori antichi. Il titolo dice dell’avventura, eppure siamo di fronte a uno dei pochi libri di Soldati nei quali l’avventura sembra non esserci proprio: un libro residente, un libro della senilità, il ritratto di una casa paradossalmente extra moenia.
Tranne che a Soldati calamita l’avventura, e ogni cosa gli si trasforma in avventura, basta che la tocchi, come un re Mida della peripezia, perché l’avventura è ovunque, è là dove si sa coglierla. Allora, America primo amore e L’avventura in Valtellina sono i due pinnacoli spazialmente e temporalmente estremi dai quali Soldati tende il filo dei suoi libri.
Basterebbe andare a rileggersi gli altri due libri che, insieme ad America, nella prima parte del Meridiano, sono riproposti nella loro integrità e per i quali vale l’indicazione di Falcetto su Soldati sempre personaggio – anche quando meno dice io dal punto di vista grammaticale: l’indefinibile Un viaggio a Lourdes: racconto autobiografico, saggio, pamphlet, racconto, indagine psicologica, ricognizione sociale intorno alla cittadina dei miracoli e alla sua natura bifronte, sacra e profana; o l’altrettanto indefinibile Fuga in Italia: racconto autobiografico, pellegrinaggio civile da Roma occupata verso Napoli, studio di paesaggi e di umanità che mette a tema l’Italia spezzata in due dopo l’8 settembre del ’43, ma come si trattasse di una bipartizione non legata a quel solo momento, quanto di un fatto morale permanente…
Nella parte seconda del volume si mostra per esempi quello che si potrebbe dire il Soldati saggistico: vi si trovano raccolti per argomento ancora saggi, articoli e recensioni che ripercorrono il viaggio di Soldati dentro il Novecento: da Vino al vino a Da spettatore a Le sere non c’è pagina che possa essere percepita come semplicemente informativa. In particolare, e naturalmente, si attinge da Un prato di papaveri e Lo specchio inclinato, i due «diari in pubblico» di Soldati, che sembrano essere territori inesauribili… Questa seconda parte, dove l’intervento del curatore è per forza di cose più evidente, costruita con perizia in quattro sezioni (Società, Letteratura, Arti figurative e musica, Cinema, teatro e tv: in quest’ultima sta integro un altro libro d’autore, 24 ore in uno studio cinematografico, la prima sistemazione di esperienze del Soldati regista che funziona, occorre dirlo?, come un racconto autobiografico), è la viva ramificazione di Soldati in tutto ciò che ha riguardato le sue arti: una ragnatela tessuta sempre con la qualità di tocco che ne fa uno stilista insieme plateale e dissimulato, trascinato da una forma di curiosità che gli diventa conoscenza in una rete di richiami a catena; e il culto della bellezza in ogni sua manifestazione diventa un fatto morale e terapeutico, di rado una forma di estetismo avvolto su se stesso: la bellezza salva dall’invidia ed evita il rancore, come Soldati racconta a proposito della sua esperienza su 8 e ½ di Fellini. La novità del Meridiano è il recupero di una notevole messe di scritti sparsi, che si adagiano nelle quattro sezioni a seguito delle parti antologizzate dai volumi d’autore.
L’ultima sezione recupera, insieme a testi per il teatro, le Canzonette che accompagnarono il Viaggio televisivo, unico episodio in versi di Soldati: ecco che ci viene incontro l’interlocutore principe, il mito di una intera generazione, fino a Fortini e oltre: Giacomo Noventa («riberremo/ vecchio barbaresco; rïudremo, corona a te d’amici e di gloria/ il violoncello della tua voce»). È qui che Soldati incontra se stesso e si vede come gli altri lo vedono: «Lo accusano di egoismo,/ di snobismo,/ di masochismo,/ di onanismo,/ di gesuitismo,/ di colpevole follia,/ di megalomania.// Per Soldati i soldi dati/ sono nulla, e men che nulla/ anche i soldi che gli han dati». Il componimento si intitola Il figliol prodigo: Soldati, uno scialacquatore. Ma deve essere stata una gran gioia essere prodighi oltre misura con tutto quel talento. E nessuno, oggi, può dire che sia andato davvero perduto.

“alias” 7 maggio 2011

Profilo di Isaak Babel

«Sono nato nel 1894 a Odessa, nella Moldavanka, sono figlio di un commerciante ebreo. Per l'insistenza di mio padre ho studiato fino a sedici anni la lingua ebraica, la Bibbia, il Talmud. A casa avevo vita difficile perché da mattina a notte mi obbligavano a studiare un'infinità di discipline. Mi riposavo a scuola».
E' in questo modo che Isaak Babel, giovane speranza della letteratura sovietica, si presenta in una nota autobiografica che redige a trent'anni per un volume sugli «scrittori russi contemporanei», mentre si accinge a scrivere la sua prima opera teatrale, Tramonto, e a riunire i suoi Racconti di Odessa, che faranno di lui il più ebreo degli scrittori sovietici. Negli anni che seguiranno non otterrà il riconoscimento che avrebbe meritato: una lunga interdizione graverà sull'uomo e sulla sua opera, al punto che la data della sua morte, rimasta un mistero anche dopo la sua riabilitazione, sarà resa nota soltanto cinquantacinque anni più tardi, all'apertura degli archivi del carcere moscovita della Lubjanka, sua ultima residenza.
Oggi si sa del suo processo e si conoscono le sue ultime parole: «Chiedo solo una cosa: la possibilità di terminare il mio lavoro...», l'ultima deposizione, prima di essere giustiziato, il 27 gennaio 1940. Dal 1930 non pubblicava nulla; non si conosce nessun suo manoscritto posteriore al 1934, poiché tutte le sue carte sono state distrutte al momento dell'arresto nella dacia di Peredelkino - il «villaggio degli scrittori» nei dintorni di Mosca - il 15 maggio 1939.

da "Avvenimenti" 1991

Apologia di Nichi Vendola.

“I massmedia italiani controllati dalla solita lobby, dal Cavaliere e dalla Confindustria pompano due personaggi e ne hanno fatto due star della politica. Renzi e Vendola. Renzi a 36 anni è già un veterano della politica oligarchica essendo stato Presidente della Provincia ed ora Sindaco di Firenze. Vendola viene da una lunga carriera parlamentare ed è Presidente di una Regione che lascia perplessi per gli stipendi dei suoi amministratori”.

Qualche tempo fa su fb mi sono imbattuto in codesto “stato” del mio amico Pietro Ancona, un compagno che orgogliosamente proviene dal socialismo italiano, ma che ora sembra volere una politica socialcomunista dura e pura nel suo anticapitalismo e antimperialismo, scevra da alleanze compromissorie.
Pur consapevole di un’Italia nata storicamente contro il Sud, Ancona non rifugge dal levare in alto le bandiere dell’indipendenza nazionale che gli sembrano essere state ammainate dalla destra come dalla sinistra italiane, tutte in vario modo servili verso l’imperialismo americano e le sue propaggini europee. E spesso lascia esplodere nella rete le proprie idiosincrasie, poco curandosi delle sfumature: quel giorno oggetto della sua rabbia erano Renzi e Vendola e i mezzi di informazione che li “pompano”, orribile parola certamente usata con irriflessiva innocenza, senza la volgarità maschilista che spesso la connota. E’ sua opinione – peraltro condivisa dai bersan-dalemiani tipo il mio amico Valentino Filippetti – che i massmedia italiani ne hanno fatto due star. Poi Ancona sottolinea la loro non recente presenza nei piani alti della politica – immagino per dimostrare la loro “non novità”.
Ciò contraddice – almeno in parte - il suo assunto originario: è ovvio che la loro notorietà potrebbe non essere legata solo al “pompaggio” mediatico della lobby del Cavaliere e di Confindustria (in verità verso Vendola più di una volta Belpietro, Battista, Mieli, Feltri e Sallusti hanno tentato di sollecitare il linciaggio), ma a quello che hanno fatto nella loro storia politica.
Forse andrebbe ricordato che non è sui media, ma nel lavoro di base in Puglia, specie nei paesi in genere refrattari, ha battuto per ben due volte il Pd e il suo apparato dalemian-democristiano, fortemente mobilitati, ottenendo il sostegno non dei mercanti fiorentini (come il Renzi nelle sue primarie), ma del popolo di sinistra, nei luoghi fisici ove è più insediato.
Forse non andrebbe dimenticato che sui contratti Fiat, l’articolo 18, il governo Monti, sui matrimoni gay, insomma su quasi tutto, Vendola e Renzi non hanno la stessa posizione.
Dei due – oltre tutto – solo uno vanta il suo essere “nuovo” e il suo voler “uccidere i dinosauri”. L’altro invece, tutte le volte che può, ricorda la sua antica militanza comunista, rivendica d’essere un figlio del partito di Di Vittorio e di Berlinguer e di aver percorso tutta la trafila: Fgci pugliese, Fgci nazionale, segreteria pugliese del Pci, Direzione nazionale del Pci, Rifondazione, ecc…
Lo ha fatto per esempio, parlando qualche tempo fa a Perugia: “Mi sono iscritto alla Fgci nel 1972. Qualche anno dopo mi toccò di incontrare Natta, che nella segreteria si occupava della scuola. Volli andare a ripassarmi il latino, per non fare brutta figura. Nel Pci c’erano uomini come Natta, come Tortorella, come Pecchioli, che davano al partito una forte impronta pedagogica: non si poteva parlare a vanvera, senza prima aver studiato a fondo le questioni. Il Pci era una grande scuola”.
Che c’entra tutto questo con Renzi?
Certo Vendola rifiuta oggi le vecchie identità, crede che esse siano finite col Novecento, che sia il caso di rinnovare approcci, linguaggi e proposte. E tuttavia nulla rinnega del proprio non breve passato e, nella formazione di cui ha favorito la nascita (Sinistra Ecologia e Libertà), valorizza tutte le tradizioni da cui i suoi quadri meno giovani provengono. Pensa e dichiara, tra l’altro, che in Sel sia tuttora insufficiente l’apporto della tradizione riformistica del Psi: parla naturalmente del riformismo socialista, quello che redistribuisce i redditi e combatte le disuguaglianze, non della modernizzazione conservatrice e antiegualitaria incarnata da Craxi.
Che c’entra tutto ciò con Renzi, che fa finta di venire dal nulla?

P.S.
Questa apologia di Vendola non comporta alcun sostegno a quelli che mi sembrano suoi gravi errori politici e che ne hanno bruciato – a mio avviso – molte possibilità di iniziativa.
Parlo degli errori “pugliesi”, Verzè, l’Ilva, Taranto e quello di cui parla Ancona, non aver usato il ruolo di presidente per dare un colpo duro e a tutti evidente ai privilegi della casta dei politicanti.
Parlo degli errori nazionali: Napoli, Palermo, fino all’insistenza su primarie sempre più improbabili.
Come tattico Vendola vale pochissimo: non è al livello di D’Alema che le sbaglia proprio tutte, ma gli si avvicina.
Ma come stratega mi pare che non si sbagli. Credo che sia un passaggio necessario per il futuro dell’Italia la ricostruzione di una sinistra larga, che veda insieme (per un big bang tipo Genova 1892) il lavoro e i lavoratori, la radicalità democratica e la proposizione di riforme egualitarie, l’ambiente e il femminismo, la laicità e i diritti delle persone. Niente abiura, niente cancellazione del passato e della diversità alla maniera dei Veltroni e dei Fassino. Un nuovo inizio, invece, per un confronto aperto, senza rete e senza rendite di posizione (“federativa”) per i piccoli apparati di partito (incluso il suo) produttori di piccole carriere. L’avvio di un processo di “reinsediamento sociale” e di costruzione politica probabilmente lungo, ma che non rinuncia a ciò che del Novecento rimane positivamente in campo (la Fiom e una parte importante della Cgil, associazioni reti e movimenti ambientalisti, femministi, antimafia, gruppi intellettuali e professionali, pochi governi locali, pezzi di partito).
Temo però che il ragazzo di Puglia stia nettamente sbagliando i tempi. Ogni giorno che passa è un vantaggio per il nemico di classe. Non so se si possa ancora rimediare. Tentare però si dovrebbe.
Perché non approfittare – per esempio - del 15 agosto (120 anni esatti dalla fondazione del Partito dei Lavoratori italiani, poi Partito Socialista), per farla finalmente una sinistra di sinistra, in cui tutti quelli di sinistra si sentano a casa? Intorno a un programma semplice: difendere il lavoro, i salari e i diritti dei lavoratori; aver cura dell’ambiente, dalla sua salubrità, delle sue bellezze; far pagare le tasse a ricchi, ricchissimi senza elusioni e scudi; rilanciare e qualificare lo Stato sociale lottando contro sprechi, affarismi e burocrazie che vi si annidano; valorizzare il bene pubblico, sottraendolo a ogni affaristica contaminazione col privato; eliminare privilegi, manomorte e rendite di posizione di banchieri, prelati, corporazioni potenti, politicanti; far rinascere il senso civico facendo partecipare e contare i cittadini; combattere le mafie e le borghesie mafiose fuori e dentro gli apparati statali con il massimo di rigore e trasparenza; difendere la cultura italiana e rilanciare la scuola pubblica; ampliare i diritti di libertà individuale senza confessionalismi e morali di stato.
Non so se le ho dette tutte e le ho dette bene, ma parlo di scelte che riducono le disuguaglianze, che si riconoscono subito come di sinistra. Per fare un’identità bastano.
Vendola ha qualche caratteristica nel suo passato e nel suo presente per essere tra quelli che promuovono e aiutano la nascita del “partito che non c’è per una sinistra che c’è e più ancora potrebbe esserci”, quel partito che in tanti aspettiamo. Ho l’impressione, sgradevole, che né lui né altri lo faranno.

Perugia 1938. Le termiti a San Pietro.


Il coro ligneo della Basilica di San Pietro in Perugia, Foto Alinari, 1900 circa

Coro ligneo della Basilica di San Pietro in Perugia. Particolare. Foto Dall'Orto 2006 - da Wikipedia
Le termiti minacciano di distruggere il coro di S. Pietro in Perugia
Perugia, 7 aprile.
Un serio pericolo incombe sulla chiesa di San Pietro. Le termiti, già fermate qualche anno fa nella loro marcia distruttrice delle opere di legno del tempio, hanno ripreso con maggiore veemenza l’invasione negli stalli del superbo coro che, forse disegnato da Raffaello, ebbe artefici principali Bernardo Antonili perugino, Nicola Di Stefano bolognese e Stefano Zambelli bergamasco.
Già anni fa, i padri benedettini, che della storica chiesa hanno il governo spirituale, avvertita l’opera deleteria del voracissimi insetti ne diedero immediata comunicazione alla Sovrintendenza ai monumenti. Vennero allora approntate le difese del caso e per il momento sembrava scongiurato ogni ulteriore pericolo. Ma un nuovo allarme viene ora lanciato per la ricomparsa delle termiti e anche ora la Sovrintendenza interviene con energia per salvare gli stalli del coro.
A tale scopo è qui giunto da Roma uno specialista, il quale ha studiato un piano di azione immediata che comporterà una spesa non inferiore alle duecentomila lire. Sotto la direzione del sovrintendente all'arte medioevale e moderna per l'Umbria, si sono iniziati i lavori delicatissimi per smontare il coro le cui parti saranno sottoposte a energiche vaporazioni di acido cianidrico; perciò la chiesa rimarrà chiusa per una settimana.
I competenti sperano che l'insigne opera d'arte non debba essere intaccata in maniera irreparabile. Si hanno preoccupazioni per i cassettoni ricchissimi del soffitto, e si teme che siano anch'essi invasi dalle termiti. Se così fosse, i danni sarebbero immensi.

"La Stampa", 8 aprile 1938

Milano 1938. La condanna del pugile Bertazzolo.

Riccardo Bertazzolo sul ring
Riccardo Bertazzolo in una foto borghese
Riccardo Bertazzolo in un momento di relax
Il pugile Bertazzolo condannato a sette mesi
Milano, 7 aprile
Come si ricorda, la sera del 21 febbraio scorso, in un ristorante di via Pasquirolo, il noto pugile Riccardo Bertazzolo, che era con un gruppo di amici con i quali aveva festeggiato il 12° anniversario di una sua vittoria, mangiando e bevendo abbondantemente, prendeva a pugni un agente intervenuto per far cessare il baccano.
Il punto controverso della causa discussa oggi in Tribunale, davanti al quale il Bertazzolo è comparso in stato d'arresto, era se l’agente si era qualificato tale, come egli ha affermato, oppure, come ha sostenuto il pugile, non ha dichiarata tale qualità. Certo si è che il Bertazzolo lo invitò ad andarsene e, l'altro non obbedendo, lo prese tra le braccia e lo scaravento sulla strada. Ma dieci minuti dopo il gigantesco pugile doveva seguire l'agente in Questura, dove veniva dichiarato in arresto e inviato al cellulare.
Il processo, malgrado le molte testimonianze a favore del Bertazzolo, si è concluso con la condanna del violento pugile a sette mesi di reclusione per ingiurie e violenza contro la forza pubblica.

"La Stampa", 8 aprile 1938

29.7.12

Torino 1938. Un corso contro la balbuzie


BALBUZIE
Corso di cura 13-14 aprile, a Torino
Lo specialista Comm. Prof. E. Vanni, già Dir. Ist. sordomuti Venezia, Medaglia d’Oro Benemeriti Istruzione, terrà altro Corso per la correzione dei difetti di pronunzia. Oltre mille ringraziamenti, molti di Torino. Visita il 13 e giovedì 14 corr. ore 8-19 Albergo SITEA, V. C. Alberto 23.

"La Stampa", 8 aprile 1938

Il Palazzo Steri e l'Inquisizione a Palermo. Un fazzoletto bianco (Francesco La Licata)



In un graffito dello Steri la disperazione di una vittima.
"Sento freddo e caldo, mi ha preso la febbre terzana, mi tremano
le budella, il cuore e l’anima mi diventano piccoli piccoli…’‘.
Un fazzoletto annodato e ben nascosto sotto l'intonaco di una delle stanze che ospitarono i pianti, le sofferenze, le «urla senza suono» per dirla con Leonardo Sciascia, la disperazione dei «dannati» dell'Inquisizione torturati nelle celle di Palazzo Steri. Un fazzoletto annodato, come quelli posseduti dalle streghe che, nei duecento anni di vita del Tribunale religioso, sfilarono davanti ai giudici del carcere delle Penitenza invocando una clemenza che difficilmente sarebbe arrivata. Streghe, megere, guaritrici e preti guaritori, sottoposti al «giro di corda», capace di far confessare anche il male mai commesso. Un fazzoletto bianco che ha contenuto gli elementi più suggestivi della stregoneria: il sangue, i peli, strani aromi ormai sbiaditi dal tempo. A trovarlo sono stati i tecnici che per quattro anni si sono dedicati alla ricostruzione degli ambienti di questo palazzo dalla fama tristissima. Era nascosto dall'intonaco che, strato dopo strato, ha già restituito l'orrido quadro di quasi duecento anni di dolore e della crudeltà di un potere assoluto ben nascosto sotto la coltre della pietà religiosa.
Al prezioso reperto (l'unico oggetto trovato in quelle stanze cariche solo di disegni, graffiti e suggestioni) si è arrivati grazie alla irregolarità di un muro. Stava sotto lo strato di intonaco, prigioniero del tempo. Forse ha tenuto avvolti e celati, insieme con le reliquie delle streghe, i denti della donna (o dell'uomo) sopraffatti dagli stenti e dalle torture. E' facile, perciò, che, di fronte alla prima vera testimonianza di quel luogo stregato, possa aver fatto capolino la diffidenza irrazionale per l'occulto. E dunque la superstiziosa avversione per quel pezzo di stoffa, evitata dai più (persino dai restauratori), raccolta con tanta cautela fino ad impedire il contatto diretto ed ora depositata, come fonte di contagio, presso un laboratorio che nessuno vuol indicare. Le paure della mente, le ombre di un malocchio che prendono forma nei graffiti scolpiti con le mani difficilmente tengono conto del passar dei secoli, e così può accadere - come è accaduto spesso a chi è andato a rovistare nei luoghi magici del passato - di farsi prendere dalla suggestione. Così è nato il mistero del fazzoletto stregato.
Certo, il luogo alimenta le fantasie. Basta dare uno sguardo a tutto quello che è venuto fuori in quattro anni di ricerche. Quelle pareti spoglie sembravano contenere poche testimonianze, già scoperte e salvate da Giuseppe Pitré nel 1906. E invece c'era un universo incredibile, che una tecnica più moderna e raffinata del «piccone» di Pitré ha portato alla luce. Merito degli studiosi (Policarpo e Catalano) e del rettore, Giuseppe Silvestri, che ha voluto trasformare lo Steri da semplice sede di rappresentanza dell'Università a patrimonio storico da restituire alla città. Il carcere dell'Inquisizione, infatti, diventerà museo delle vittime dell'oppressione, dopo l'inaugurazione ufficiale, oggi, nell'ambito della terza edizione della manifestazione «Le vie dei tesori». Poesie, invocazioni, preghiere e imprecazioni, ritratti, carte geografiche, rappresentazioni di avvenimenti storici, come la battaglia di Lepanto, icona dello scontro fra la fede cristiana e l'islamismo. Tutto questo si può guardare sui muri dello Steri.
E oggi è stata trovata anche la scala che collegava le celle col palazzo vero e proprio, dove avvenivano gli interrogatori. Proprio sul ballatoio di quella scala si svolse l'omicidio descritto da Sciascia nella Morte dell'Inquisitore. Lì Fra' Diego La Matina colpì ferocemente, a colpi di spranga, il giudice Supremo Juan Lopez de Cisneros che gli estorceva l'abiura. Dal 1605 al 1782 uomini fedelissimi a Torquemada furono inviati in Sicilia per giudicare «In nome di Dio»: eretici, bestemmiatori, fattucchiere e più generalmente «amici del demonio»; ma spesso le vittime preferite erano studiosi, politici e intellettuali che non osservavano il pensiero della Chiesa cattolica.
Furono quasi seimila e cinquecento le sentenze emesse dal Tribunale per centinaia di autodafè: macabra scenografia riservata ai «rilasciati» (condannati) che, indossando il «sambenito» giallo (l'abito della colpevolezza), si avviavano ad ascoltare una sentenza che poteva anche portarli sul rogo, alla piana della Marina. Furono maghe e guaritrici, cosiddette «donne di fora», le più colpite, malgrado i moniti della «Suprema e generale Inquisizione» di Madrid che invitavano le autorità siciliane alla moderazione nei processi per stregoneria, spesso riservati anche a esorcisti, astrologi e chiromanti. E' forse per questo che si sono trovate tracce di donne messe sott'accusa e assolte per mancanza di prove, come Caterina Calandrino, Bitta La Russa e Vincenzia la Esquarchia, liberate dopo alcuni anni di detenzione. Le prime due incolpate perché curatrici di bambini, la terza perché si adoperava «nella ricerca dei tesori».
Ovviamente non venivano risparmiati neppure i cattolici, diciamo, «non organici» . E' il caso di Agueda Azzolini, adolescente siracusana ed appartenente a famiglia nobile, poi monaca (suor Gertrude di Gesu' e Maria), finita nelle carceri del Sant'Uffizio. La sua colpa consisteva nell'aver aderito al gruppo religioso che si riuniva nel cosiddetto «Fondaco dell'Abate», un giardino che ospitava il cenacolo di frati mistici (agostiniani) del convento di San Nicolò da Tolentino di via Maqueda, a Palermo. Il cenacolo non piaceva alla dottrina ufficiale che accusò la suora di prendere troppo spesso la comunione e di aver abbracciato e baciato i frati e le suore che si riunivano: comportamento sessualmente illecito. Non fu giudicato allo stesso modo il comportamento dell'amministratore del carcere, fra' Pedro Cicio, che la molestava e tentava di violentarla. La suora si salvò dalla violenza carnale perché difesa da una compagna di cella, la popolana Rosa la Jannusa. Ma non potrà sfuggire alla morte per stenti, come si intuisce dalle note spese del carcere che perdono i due tarì al giorno pagati dalla famiglia di Agueda per il mantenimento in cella.
Già, perché gli «incolpati» dovevano mantenersi in carcere e venivano spogliati di ogni bene. Sta forse qui la chiave per capire meglio il segreto di tanto successo dell'Inquisizione, che poteva condannare anche con una sola testimonianza e disponeva di un esercito di delatori. Ovviamente pagati. 

“La Stampa” 09-10-2008

Steinbeck corrispondente di guerra.

Crane, Harte, Bierce, London e poi Dos Passos, Mailer, Jones, Vonnegut, Heller, Herr e O’Brien. Tra diciannovesimo e ventesimo secolo la letteratura statunitense sembra aver mantenuto col tema della guerra un discorso ininterrotto e complesso. Non semplice appendice o serbatoio creativo, accanto alle traduzioni romanzesche di questo discorso (Da qui all’eternità, Comma 22 o Mattatoio n. 5), una parte considerevole è rappresentata da quel genere di scrittura in presa diretta che, dell’esperienza quotidiana della morte e delle battaglie, fa resoconto e notizia in una corrispondenza pubblica; a differenza del cronista, ovvero, più esattamente, dell’inviato speciale in senso proprio, il corrispondente dal fronte – specie quando si tratti di un affermato scrittore – non è però gravato dell’obbligo di raccontare cosa stia accadendo e come nella complessa dinamica dei rapporti di forza tra potenze, stati ed eserciti; il suo compito, ammesso che si possa definire tale, è più leggero e difficile allo stesso tempo. Raccontare la guerra negli articoli destinati a un media di massa come la carta stampata vuol dire, per lui, partecipare le emozioni e i sentimenti che prova chi quella guerra sta combattendo: tradurre paure e infondere speranze, testimoniare e illudersi.
In questo senso, se si apre credito alla lettura «tematica» che della sua opera ha condotto Edmund Wilson, John Steinbeck (1902-’68), che alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale aveva già pubblicato Pian della Tortilla, La battaglia, Uomini e topi e Furore, rappresenta affatto, con qualche approssimazione e in potenza, il modello tipico del corrispondente di guerra.
Dell’autore californiano, premio Nobel nel 1963, Wilson scrive, infatti, che «non ha niente da opporre alla sua visione dell’uomo che si odia e si autodistrugge, se non un’irriducibile fede nella vita; e, nelle sue stesse perorazioni a favore dei diseredati, s’intravvede sempre quel realismo biologico che è il suo naturale abito mentale». Abito di cui lo stesso Steinbeck non ha fatto mistero quando, nel 1958, ha raccolto in volume i dispacci giornalieri di sei mesi, dal 20 giugno al 13 dicembre del ’43, al seguito delle truppe americane. «Rileggendoli dopo tutti questi anni – confessa lo scrittore –, mi rendo conto non solo di quante cose avevo dimenticato, ma anche che sono articoli datati, che l’approccio è arcaico e gli impulsi sono romantici, e che, forse, alla luce di quello che è successo da allora, tutto l’insieme è insincero, deformato e fazioso». Ma, al di là delle regole di comportamento («alcune imposte e altre auto-imposte») che il corrispondente si vedeva costretto o si sentiva condizionato ad adottare (come far apparire necessarie anche le scelte strategiche solo sbagliate o illogiche e riportare qualsiasi follia a un più vasto e incomprensibile disegno tattico), prendendo di nuovo in mano C’era una volta una guerra (traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani «Overlook», pp. 287, € 17,00), qual è oggi, sullo sfondo di un orizzonte immaginario che dalle parole sembra poter prescindere per raccontare la ferita della guerra, il senso e la misura di quell’approccio arcaico, romantico, insincero, deformato e fazioso?
Un primo indizio ce lo fornisce ancora il prologo, laddove Steinbeck ammette: «ci censuravamo molto più di quanto venissimo censurati. Ci sentivamo responsabili per quello che veniva chiamato il “fronte interno”. C’era la sensazione diffusa che se il fronte interno non fosse stato accuratamente protetto dalla realtà della guerra si sarebbe lasciato prendere dal panico. E sentivamo anche di dover proteggere dalle critiche i militari, altrimenti si sarebbero ritirati nelle tende imbronciati come Achille […] L’incauto reporter che avesse infranto le regole avrebbe pregiudicato la pubblicazione dei suoi articoli in patria, e in più il comando lo avrebbe allontanato dal fronte: e togliere il fronte di guerra a un corrispondente è come togliergli la materia prima». Il fatto che, poco sopra questa affermazione, Steinbeck si sia definito, rispetto al gruppo di colleghi che ha conosciuto al seguito dell’esercito, «un ritardatario, una specie di vacca sacra, un turista», e il ricorso, in seguito, a una corporativa terza persona plurale, sembra intenda garantire dell’obiettività di tali scrupoli etici e morali, nonché della loro legittimità: «Sì – prosegue Steinbeck –, scrivevamo solo di una parte della guerra, ma eravamo convinti, ardentemente convinti, che fosse la cosa migliore da fare. E forse è per questo che, finita la guerra, romanzi e racconti di ex soldati, come Il nudo e il morto, si rivelarono così scioccanti per un pubblico che era stato accuratamente protetto da ogni contatto con quella disastrosa follia isterica».
E difatti, passando al contenuto vero e proprio del libro, stupisce, nella prima sezione, composta dai
trentaquattro articoli per lo più dettati al telefono dall’Inghilterra per le colonne dell’“Herald Tribune” di New York, il ricorso a ellissi narrative, a espedienti retorici, a distrazioni deliberate dai fatti; alla finzionalizzazione, in altri termini, e alla diegetizzazione dell’esperienza bellica. Ogni accadimento, ogni situazione viene ridotta a breve racconto, a parabola esemplare, più che della realtà delle cose, di quella che avrebbe dovuto essere una simile realtà. Prima di arrivare a un qualche concreto riferimento al decorso effettivo del conflitto, per esempio, si devono attendere oltre cento pagine, e anche in questo caso il referto è ridotto all’osso, depotenziato da qualsiasi analisi o interpretazione. Riprendendo il filo wilsoniano, però, si direbbe che qui intervenga non solo e non tanto un’attitudine comune a tutti i corrispondenti, bensì soprattutto l’umanesimo di John
Steinbeck: una filosofia poco convincente e poco resistente alla prova del tempo, ma non di rado redenta, anche in questi pezzi di servizio – e per usare nuovamente le parole del critico del Castello di Axel – da «eccezionali, a volte addirittura sorprendenti, mezzi di osservazione e di invenzione». Tra quest’ultimi, il più frequente lo dichiara proprio l’artefice, laddove riconosce di avere lasciato esprimere le proprie opinioni o di aver cristallizzato il senso di un evento «mondiale» nella vicenda di pochi uomini che, sebbene realmente esistiti (sono i soldati con cui Steinbeck divide vitto e alloggio), diventano, con ciò solo, dei personaggi – come ilmemorabile Big Train Mulligan, sorta di imboscato al fronte che «dopo due anni di esercito e un anno in Inghilterra, è forse uno dei soldati semplici più sereni e realizzati di questa guerra».
L’ultima sezione del libro, la terza dopo quella nordafricana, è dedicata allo sbarco degli Alleati in Sicilia, ma a dispetto di quanto recita il risvolto di copertina di quest’edizione – la seconda dopo quella apparsa nel 1993 per Leonardo a cura di Bruno Osimo – il «mosaico di descrizioni acutissime e piene d’ironia» di Steinbeck non pare racconti «sotto una nuova luce» la Liberazione dell’Italia. Toni e colori sono gli stessi dei reportage dalla Gran Bretagna; a restare è piuttosto la prova, talora davvero contagiosa tanto è appassionata, della contraddizione tra quello sguardo critico e quella fede irriducibile di cui parlava Wilson e che, nel dopoguerra, avrà ancora modo di esprimersi, come fossero gli ultimi sprazzi di un campione sul viale del tramonto, in alcune preziose e dolentissime pagine di Vicolo Cannery.

"Alias" 9 aprile 2011

La Corte europea dei diritti sul suicidio dei detenuti (Gabriella Mira Marq)

Importante sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo riguardo al suicidio dei detenuti. Per la Corte, il suicidio di un detenuto che abbia mostrato problemi psicologici e tendenze suicide costituisce da parte dello stato interessato una violazione dei diritti umani, in particolare dell'articolo 2 (diritto alla vita) e dell'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo ove l'amministrazione non abbia messo in atto adeguate misure di prevenzione e controllo a seguito di segnalazione del servizio medico competente. Il caso riguardava il suicidio in un carcere francese, per impiccagione, di un condannato ex tossicodipendente. I giudici europei hanno stabilito che lo Stato era venuto meno al suo dovere di una particolare attenzione ad impedire a un prigioniero vulnerabile di suicidarsi.

Il detenuto, in custodia cautelare nel carcere de La Santé (Parigi) con l'accusa di aggressione armata ripetuta nei confronti della sua compagna, questa volta con conseguente totale inabilità al lavoro per più di otto giorni. Il giorno successivo, essendo stato un tossicodipendente per diversi anni, gli fu permesso di vedere uno psichiatra del servizio medico e psicologico del carcere, e successivamente ha continuato a vedere lo psichiatra, una o due volte al mese. Dopo alcuni mesi veniva posto nel blocco di punizione in seguito ad un incidente con una guardia carceraria, ricevendo dieci giorni di sanzione disciplinare per insulto e spintoni ad un membro del personale. Lo stesso giorno, un medico gli prescriveva dei calmanti e fissava una consultazione per lui con uno psichiatra, scrivendo nella cartella che secondo le guardie l'uomo aveva già commesso due tentativi di suicidio. Successivamente lo psichiatra osservava che il detenuto non stava affatto bene e sembrava "In grado di mettere in atto le sue inclinazioni suicide".

Dopo la condanna a cinque anni di carcere e al confinamento in una cella disciplinare per un incidente con un altro detenuto, una mattina l'uomo è stato ritrovato impicato ad una barra della sua cella. I tentativi di rianimazione non davano risultati.
 
Le sorelle dell'uomo si rivolgevano alla Corte europea dei diritti dell'uomo invocando l'art. 2 (diritto alla vita), lamentando che le autorità avevano omesso di adottare misure adeguate per proteggere la vita del fratello quando era stato collocato nella cella disciplinare. Invocando l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), lamentavano poi che la sanzione disciplinare applicata al loro fratello era inadatta ad una persona nel suo stato d'animo.

La Corte aveva già sottolineato in precedenti casi che le persone in custodia si trovano in una posizione vulnerabile e che le autorità hanno il dovere di proteggerle. Ci sono misure generali e precauzioni disponibili per ridurre le opportunità di autodanneggiarsi senza violare l'autonomia personale. Infine, la Corte ha ribadito che nel caso di persone malate di mente è necessario prendere in considerazione la loro particolare vulnerabilità. Secondo gli esperti, visto il comportamento dell'uomo e le annotazioni degli psichiatri, è probabile che il suo trasferimento al blocco di punizione fosse avvenuto in un momento in cui il suo equilibrio mentale era già fragile.

La Corte doveva stabilire se le autorità avevano fatto tutto quello che ci si poteva ragionevolmente aspettare da loro per evitare il rischio di un nuovo tentativo di suicidio. La Corte ha rilevato una serie di carenze: nessuna notifica particolare era stata data al medico del competente servizio prima o al momento della decisione di mettere il prigioniero in una cella disciplinare, e non erano state date istruzioni di sorveglianza speciale per garantire la compatibilità della misura disciplinare con lo stato di salute mentale del detenuto. La Corte ha sottolineato che la Raccomandazione R (98) 7 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa raccomanda che il rischio di suicidio debba essere sotto valutazione costante da parte del personale sia medico che di custodia. La Corte ha ritenuto perciò che le autorità abbiano fallito nel loro obbligo attivo di proteggere il diritto alla vita dell'uomo. Ne consegue che vi è stata una violazione dell'articolo 2.

Anche se secondo il parere degli esperti l'uomo non aveva nessun disturbo mentale o sintomi psicotici acuti o cronici, la sua storia di tentativi di suicidio, la sua condizione psicologica che i medici diagnosticavano come "borderline", e il suo comportamento estremamente violento avrebbero richiamato ad una vigilanza speciale da parte delle autorità, che avrebbero dovuto almeno consultare il suo psichiatra prima di metterlo nel blocco punizione, ed avrebbero dovuto tenerlo comunque sotto un adeguato controllo durante il suo soggiorno. La Corte ha ritenuto che la collocazione del prigioniero in una cella disciplinare per due settimane non era compatibile con il livello di trattamento richiesto per una persona con tali disturbi mentali. Di conseguenza, vi è stata anche una violazione dell'articolo 3.

La Corte, che ha deciso con il parere contrario di uno dei suoi membri, ha dichiarato che la Francia dovrà versare ai familiari ricorrenti 40.000 € totali per danno non patrimoniale.

La sentenza non è definitiva, poichè la Francia potrà appellarsi davanti alla Grande Camera, ma è importante per i principi enunciati, applicabili in tutti i Paesi firmatari della Convenzione europea dei diritti, fra cui figura l'Italia.

In Osservatorio sulla legalità e i diritti
http://www.osservatoriosullalegalita.org/








Marco Aurelio, l'ultimo pagano (Lidia Storoni)

L' abbiamo visto per tanti anni, maestoso e rassicurante, al centro di Piazza del Campidoglio, che fu uno choc osservarlo da vicino, sceso dal piedistallo, quando l' Istituto Nazionale per il Restauro espose la statua di Marco Aurelio nella nuova sede, l' antico Ospizio di S. Michele. Ci pareva di commettere un'irriverenza. Lentamente, siamo entrati in confidenza: indossa un sagum da viaggio, non il paludamentum dell' imperatore; è nell'atto di rivolgere parole di benevolo incoraggiamento ai legionari, ai sudditi dell' impero, ai posteri. L'oro gli traluce a chiazze sul viso, come il riverbero del fuoco: quando tutta la statua ne sarà ricoperta, dice il popolino, canterà la civetta (il ciuffo di peli su la fronte del cavallo) e sarà la fine del mondo.
Marco Aurelio fa parte dell' aneddotica, del frasario popolare, ma non si scompone; ne ha viste tante: la zampa ricurva del cavallo, sotto la quale doveva esserci un piccolo barbaro inginocchiato, è servita persino come forca. Michelangelo lo collocò al centro della mirabile trama a 12 punte (le costellazioni? gli Apostoli?) che disegnò sul pavimento della piazza. Delle migliaia di statue bronzee che esistevano a Roma, quella sola era stata risparmiata dalla zecca papale perché si credeva fosse l' immagine di Costantino, il primo imperatore cristiano; la si teneva davanti al palazzo del Laterano. La nuova collocazione aveva un significato ben preciso: con Costantino, l' impero volta le spalle al Foro e alle sue memorie (porgete l' orecchio, non è Son et Lumière, è la voce di Cicerone che arringa, di Antonio che pronuncia l' elogio di Cesare assassinato); con Costantino, l'impero ripudia il Colosseo insanguinato dai gladiatori, dai criminali esposti alle belve, dai martiri; l'impero guarda ormai al sepolcro di Pietro, sul quale non è ancora compiuto il miracolo della cupola.
Non so se Michelangelo sapesse che non era Costantino ma era Marco Aurelio; forse, ce lo avrebbe messo lo stesso, anzi, a maggior ragione: poiché come frattura e, al tempo stesso, tramite tra il mondo antico (i suoi valori, la sua religiosità) e l'era cristiana Marco Aurelio è ben più significativo di Costantino. Questo non era che un soldataccio brutale e astuto; aveva calcolato quale forza sociale e numerica rappresentassero ormai i cristiani, aveva constatato che le persecuzioni non servivano a disperderli. Ma come pensiero politico, filosofico, religioso, Costantino non significa nulla. Marco Aurelio al contrario è il campione stanco e severo del mondo antico, l'erede d'un patrimonio spirituale al tramonto; ne ha redatto il testamento buttando giù senza ordine pensieri e ricordi, a Roma e al campo, durante le lunghe campagne contro i Sarmati, i Quadi, i Marcomanni che combattè per anni e anni sul Danubio, fino alla sua morte, nel 180 d.C. L'Utet ne propone ora un'edizione che comprende anche le lettere dell'imperatore al suo maestro Frontone - colme d'ammirazione fino ad essere stucchevoli - e i testi legislativi: contributo importantissimo per la conoscenza dell' uomo, per misurare la coerenza tra la dottrina stoica che professava e gli atti di governo (pagg. 919, precedute da note critiche e bibliografiche, con un'Appendice che contiene gli indici, le fonti storiche, epigrafiche e giuridiche, a cura di Guido Cortassa, lire 75.000).
I Pensieri famosi sono un continuo colloquio con se stesso, un monito incessante a non spazientirsi, a non meravigliarsi, a non indignarsi, a non disperare, rivolto al suo io da un uomo costretto a un'esistenza contraria alle sue intime tendenze; è il tentativo di applicare uno schema dottrinario alle circostanze della vita, sperando che quell' armatura di principi costituisca una protezione contro la ferocia e la turpitudine, la bassezza e la stupidità umana ("ogni mattina dire a se stessi: oggi m'imbatterò in un indiscreto, un ingrato, un arrogante, un imbroglione, un invidioso, un egoista..." "Avere un contegno dignitoso senza affettazione... sopportare gli ignoranti e quelli che si fanno un'opinione senza approfondire la questione... adattarsi a tutti..." "tollerare (lo faceva Antonino Pio) quelli che lo criticavano ingiustamente, senza criticarli a sua volta..."): fin qui, è quasi soltanto una questione di pazienza, o di educazione, che è poi la stessa cosa; ma ci sono fastidi più gravi, disagi, sofferenze peggiori che la compagnia dei saccenti, la falsità degli adulatori, il fetore dei sudici.
Ci sono le ferite, le mutilazioni, le malattie, la morte. Muoiono gli uomini in battaglia, i suppliziati nelle carceri, i cristiani nel circo di Lione (nel 177 d.C., un decreto autorizzava l'acquisto di carcerati a 5 aurei ciascuno per farli combattere nell'arena, tra loro o con le belve, in luogo dei gladiatori, che costavano di più): Marco Aurelio accetta ogni cosa con un'impassibilità lievemente compiaciuta, che contrasta con l'accento concitato e fremente degli autori cristiani contemporanei: il non aver valutato la gravità, la portata del cristianesimo, la novità del messaggio, quando già più di cinquant'anni prima Plinio il Giovane, dalla Bitinia, dov'era governatore, scriveva a Traiano denunciando perplesso l'esistenza di queste conventicole di credenti inoffensivi ma irriducibili, denota una sordità, un'insensibilità allarmante da parte d'una coscienza così nobile. Possibile che non gli sia stato riferito l' eroismo della piccola schiava cristiana tra i martiri di Lione? che quella forza sovrumana non lo abbia sorpreso? Anche alla perdita delle persone care, la sposa Faustina, i bambini, il fratello Lucio Vero, e all'imminenza della propria fine Marco Aurelio oppone l'accettazione impassibile dello stoico: tutto passa, tutti muoiono; l'oliva cade dall'albero e non se ne duole. La morte è uno degli aspetti necessari di quell'ordine razionale immanente nell' universo, dal quale tutto dipende, al quale l' uomo saggio consente: la sua fede di stoico gli imponeva di crederlo. Ma da queste pagine emana una desolata chiaroveggenza che contrasta con il credo che tutto è bene. Nelle massime che Marco Aurelio rivolge a se stesso si intuiscono fonti per noi perdute e vi si legge il suo imperativo morale: austerità, abnegazione del singolo alla comunità, tanto più quando ne è il caso. Sono atteggiamenti tipici dell'èlite culturale del suo tempo, derivati dal "miraggio spartano" e dal pensiero greco, più recentemente da scritti teorici Sulla Monarchia, secondo i quali il re è il pastore equo e mite, il timoniere insonne, il giudice inflessibile. Ma queste non sono le pagine d'un politico; i bisogni materiali, le istanze, lo smarrimento delle masse non vi sono neppure intravisti. Rispecchiano piuttosto un ideale etico individuale, non del tutto immune da narcisismo, un umanesimo privato, che comporta controllo delle passioni, disprezzo dei beni terreni, amore del prossimo; quell'ideale colma il vuoto lasciato da valori già tramontati nell' ultimo secolo della Repubblica: amor patrio, impegno civico, dedizione allo Stato.
L'ultimo ideale pagano, l'ultimo esemplare umano proposto alle coscienze prima dei martiri e dei santi è il suo: è un modello orgoglioso e consapevole della propria superiorità. Se ne ritrova l'eco in quei momenti in cui un popolo pretende di porsi a modello al mondo. "Si parva licet", un condensato di questo codice morale è contenuto nel poemetto di Kipling noto a tutti gli scolari di lingua inglese, If: se vorrà essere un vero uomo - vale a dire un gentleman britannico che sa di doversi distinguere su popoli inferiori - il destinatario della predica deve astenersi dallo scoraggiamento, dall' ira, dalla passione, dalla vanagloria: esattamente come Marco Aurelio. L'analogia è evidente.
Non lo è invece - se non per una filiazione culturale - quella con il "Caffettiere Filosofo" di Gioachino Belli, che sfuggì a Giorgio Vigolo, così attento nell'individuare il minimo filone letterario nei versi dialettali del grande poeta: "Molti granelli d' incenso sullo stesso altare" scrive l'imperatore "uno cade prima, uno dopo; non c'è alcuna differenza". E il Belli: "L'ommini de sto monno sò l'istesso / Che vaghi de caffè ner macinino: / Ch'uno prima, uno doppo e un antro appresso / Tutti quanti però vanno a un destino...".

“la Repubblica” 23 agosto 1985

L'invasione degli alberi mostro (di Fulvio Gioanetto)

Nothofagus pumilio (Lenga)
La «Red per un Cile senza transgenici», composta da una settantina di organizzazioni ambientaliste e associazioni di consumatori, ha denunciato che nel paese sudamericano si stanno realizzando, all'insaputa dell'opinione pubblica, varie piantagioni di specie native di alberi locali clonate e in cui sono stati inseriti geni trangenici. Dice che almeno due specie di alberi delle zone fredde della cordigliera andina, il lenga (Nothofagus pumilio) e il raulí (Nothofagus alpinum), alberi molto utilizzati nelle costruzioni e in falegnameria per l'eccelente legno dai toni rosati che producono, sono coltivati - in segreto - nella nona regione, l'Araucabia (nella parte meridionale del paese), in esperimenti condotti sia dall'istituto forestale statale Infor sia dall'impresa Demegen Inc.
Dalle notizie trapelate, queste ricerche non sono nuove in Cile. Infatti, fin dal 2002 e fino al 2008, la joint venture GenFor, basata in Cile, con le imprese biotecnologiche Cellfor (Canada), Interlink (Usa) e la locale Fundación Chile - oltre al Consorcio Genómica Forestal S.A. (che opera nell'Università del Centro de Biotecnología di Concepción, nella regione di Bío Bío) e la VitroGen S.A., appoggiate dall'istituto forestale nazionale e da sei imprese forestali, avevano coltivato ettari di alberi transgenici per renderli resistenti alle malattie e al freddo. Attraverso una tecnologia di embriogenesi somatica della Genfor SA, sono stati introdotti nei pini geni resistenti agli erbicidi. Agli eucalipti sono stati clonati geni con proprietà insetticide e altri tolleranti a funghi defolianti.
I risultati di queste sperimentazioni non sono mai stati resi pubblici: la giustificazione fu che si trattava di imprese private che effettuavano esperimenti in terreni privati e che si trattava di biotecnologie in pieno sviluppo. Questo però dopo aver ottenuto permessi ad hoc, forzando le norme del Servizio agricolo ufficiale (Sag), le cui norme impongono requisiti di biosicurezza per autorizzare coltivazioni transgeniche in Cile, e di fatto escludono le piantagioni commerciali di alberi.
Casi analoghi accadono in Finlandia, Francia, Belgio, Australia, Canada, Indonesia, Israele, Nuova Zelanda, Svezia e Giappone. Senza tralasciare la Russia, dove pare che nel 2009 siano stati piantati a San Petersburgo e Novgorod qualcosa come 300.000 pioppi e betulle transgeniche per «frenare la deforestazione e contrastare il cambio climatico». In Cina esistono dal 1987 centinaia di ettari di pioppi transgenici a crescita rapida. Questi boschi transgenici si sono mescolati a quello che restava dei boschi nativi. Negli Usa la transnazionale produttrice di cellulosa, legname e biocombustibili ArbolGen ha programmato di piantare mezzo milione di eucalipti e pioppi transgenici in almeno sette stati, modificati con il batterio Pseudomonas putida per assorbire acque contamínate e ripulire Tnt dai suoli contaminati.
I rischi ambientali delle monocolture di alberi transgenici sono ormai ben conosciuti e documentati: rappresentano una erosione della biodiversità (per essere resistenti all'aggressione di insetti e perché non producono fiori, frutta né semi) e un aumento dell'inquinamento del suolo (perché comportano un maggiore uso di erbicidi e insetticidi - paradossale, visto che sono modificati proprio per resistere ai parassiti). Senza dimenticare la contaminazione genetica che viene dalla cross-impollinazione con le specie native, e il rischio di veder sviluppare super-insetti e super-infestanti resistenti alle «nuove proprietà» di questi tree-monsters, alberi-mostro, come li sta chiamando la stampa cilena.

“il manifesto” 7.10.2011

Tolstoj al cinema (di Catherina Pressman)

«In Russia il cinematografo deve scolpire solamente la vita russa in tutte le sue forme fenomeniche, ma proprio così com’è. Non deve per niente andare a caccia di storie di fantasia».
Queste alcune parole di Lev Nikolaevich Tolstoj sul ruolo che avrebbe dovuto avere il cinema un’arte che (secondo un celebre articolo uscito sul “New York Times” del 31 gennaio 1937, basato sui ricordi di un collaboratore dello scrittore, I. Teneromo, vero nome Isaak Fajnerman) avrebbe cambiato il modo di scrivere e lo incuriosiva tanto da spingerlo a scrivere un soggetto (oltrettutto pieno di violenza e di sangue). Nonostante il fatto che tanti cineasti hanno voluto scolpire sulla pellicola frammenti della sua vita, Tolstoj all’inizio fu restio a comparire davanti alla cinepresa. Curiosamente è proprio un ritratto del grande scrittore Lev la prima fotografia a colori scattata in Russia. Nello stesso anno, 1908, l’operatore Aleksandr Drankov girò una sequenza di Lev Tolstoj a Jasnaja Poljana. Quei fotogrammi ebbero tale successo che si iniziò a prestare particolare attenzione al cinema come nuova forma artistica.
Aleksandr Drankov aveva chiesto a lungo a Tolstoj di riprenderlo, ma il maestro rifiutava sempre per il semplice motivo che non voleva partecipare a una cosa che non sapeva cosa fosse. Come dice la leggenda, Drankov, intraprendente e fantasioso, posizionò la cinepresa nel bagno di legno e dalla fessura della porta fece le riprese: Lev Tolstoj si avvicina al bagno, prova aprire la porta che è chiusa, si gira e si allontana. Alle fine, quando l’operatore fece vedere il risultato alla famiglia di Tolstoj, il maestro, a quanto pare, ebbe fiducia in Drankov e gli permise di filmare i suoi ultimi anni di vita.
Nel 1909 Paul Timan apre la casa di produzione «P.Timan, F.Reinhardt and S.Osipov». Nei primi anni la casa di produzione ebbe successo e diventò famosa proprio per l’adattamento di classici della letteratura. Proprio in quegli studi nel 1912, due anni dopo la morte del maestro, Jakov Protazanov girò l’Abbandono del grande vecchio ( «La vita di Lev Tolstoj»), scritto proprio da I. Teneromo e interpretato (nel ruolo di Alexandra Lvovna e coregista del film) da Elizaveta Thiman). Protazanov al tempo era uno dei registi più giovani e promettenti dello studio. L’idea del film era originale: creare un film artistico basato su alcune scene di vita che erano state riprese da Georges Meyer, della «Pathé Frères» (era l’aiuto dell’operatore della famiglia dello Zar).
Protazanov aveva di fronte a sé un compito difficile: fare un film in modo che nessuna avrebbe potuto capire quale fossero le scene autentiche e quali quelle ricostruite dal regista con l’attore Vladimir Shaternikov. Senza sapere quali sono le scene riprese da Meyer è impossibile notare la differenza. Gli sceneggiatori si basarono sull’ultima parte della vita del maestro e sulla fuga da Jasnaja Poljana.
Questo primo film dedicato agli ultimi anni della vita di Tolstoj venne proibito nella Russia dello Zar per vari motivi: prima di tutto perché il maestro, nel film, era rappresentato come una persona troppo indifesa e angariata dalla moglie, l’aristocratica Sofja Andreevna Tolstaja. Tolstoj soffriva per la gente povera e voleva aiutarla ma era sua moglie ad avere tutto il potere ed era di incredibile cupidigia. Altro motivo è che la famiglia era contrarie a mostrare al pubblico le ultime scene del film che erano state girate da Georges Mayer dove si vede Tolstoj a letto mentre sta morendo. Il terzo motivo era l’ultima scena che per i tempi era piuttosto indiscreta: l’incontro di Lev Tolstoj con Gesù sulle nuvole (non dimentichiamo che Tolstoj era stato scomunicato dalla chiesa ortodossa per le sue idee anarchico-cristiane e anarco-pacifiste). In questa scena per la prima volta nel cinema russo era usata la doppia esposizione (la tecnica secondo cui la pellicola è esposta due volte per riprendere contemporaneamente due immagini differenti).
«Ricordo questo episodio della mia vita senza vergogna. Inoltre tutto sembrava più facile con la gioventù e il desiderio di idee audaci. La sceneggiatura era scritta e curata da chi conosceva Tolstoj.
Solo questo era già una garanzia che nella sceneggiatura non ci sarebbe stata volgarità ma che il racconto della vita e della cronaca famigliare di Lev Nikolaevich sarebbe stata discreta e delicata» così Jakov Protazanov ricordava il periodo di lavoro e dell’uscita del film.
Per quanto riguarda l’adesione della sceneggiatura alla verità in qualche modo si esprime pure la lettera lasciata da Lev Tolstoj alla moglie prima di abbandonare Jasnaja Poljana: «La mia situazione
in casa è diventata insopportanbile. A parte tutti i mali, non posso più vivere nelle condizioni del lusso in cui ho vissuto e devo fare quello che di solito fanno gli anziani: lasciare la vita terrena per vivere in solitudine e in silenzio gli ultimi giorni della vita (...) Ti ringrazio per i quarantotto anni di vita onesta che hai passato con me e ti prego di perdonarmi tutti i torti che ho avuto verso di te, come io ti perdono, con tutta l'anima, quelli che tu hai avuto nei miei riguardi».
Il successivo film sulla vita di Lev Tolstoj fu fatto soltanto nel 1984. Il regista Sergey Gerasimov era un attore, regista e professore alla facoltà di regia e recitazione dell’Università statale pan-russa di cinematografia, più famosa come Vgik (intitolata a S.A.Gerasimov stesso). Era diventato famoso per i suoi affreschi epici, come Placido Don (Tichij Don) dall’omonimo romanzo di Šolochov o La giovane guardia (Molodaja Gvardija) dal romanzo di Aleksandr Fadeev.
Il film Lev Tolstoj è composto da due parti: Insomnia e Abbandono.Vediamo il maestro della letteratura russa negli ultimi anni della sua vita (1908-1910). Nella prima parte del film, Insomnia, i ricordi di Lev Tolstoj lo riportano ai tempi della sua gioventù, al periodo di svolta del suo pensiero. La seconda parte del film inizia con l’abbandono di Jasnaja Poljana e la sua morte. Lo stesso Gerasimov ha sostenuto il ruolo di Lev Tolstoj, la moglie è interpretata da Tamara Makarova, moglie di Gerasimov. Il film ha vinto il premio «Globo di cristallo» al festival di Karlovy Vary. In qualche modo, lo hanno sostenuto in tanti, lo sguardo sulle relazioni tra Lev Nikolaevich e Sofja Andreevna è stato visto attraverso il prisma delle relazioni tra il regista e Tamara Makarova. Il film in ogni caso è stato girato in maniera classica, con toni profondi e raffinati.
L’ultimo film su Lev Tolstoj, The Last Station del regista statunitense Michael Hoffman, con Helen Mirren e Christopher Plummer, è uscito in 2010, l’anno del’anniversario della morte di Lev Tolstoj (1910). Come diceva il co-produttore Andrej Michalkov-Konchalovskij, la Russia ha rifiutato il finanziamento e impedito di girare il film a Jasnaja Poljana, costringendo la troupe a trasferirsi in Germania. Michael Hoffman ha dovuto cambiare sceneggiatura originaria diverse volte. Il protagomista del film è Valentin Bulgakov, il segretario personale dello scrittore. Vediamo l’ultimo periodo della vita di Lev Tolstoj a Jasnaja Poljana attraverso lo sguardo del suo giovane seguace. L’ultimo film su Lev Tolstoj è in qualche modo un ripensamento critico della biografia di Lev Tolstoj. Se il film di Protazanov mostrava Lev Tolstoj come una persona schiacciata dall’autorità di una moglie molto forte, il film di Hoffman, invece, cerca di trovare una giustificazione.

“alias – il manifesto” 9 giugno 2012

28.7.12

Complicità in omicidio ("micropolis" luglio 2012 - S.L.L.)


Un ipocrita
La sequenza delle cosiddette “morti bianche” in Umbria continua implacabile. Le denunce sindacali di gravi inadempienze di imprenditori e pubbliche amministrazioni scorrono ripetitive come l’acqua sul marmo. Perfino noi, che vorremmo mantenere alta l’attenzione e l’indignazione, a volte stiamo zitti per sfuggire alla vuota retorica.
Nell’incidente mortale degli scorsi giorni alla Proma, un’azienda metalmeccanica di Umbertide, c’è un motivo di particolare riflessione. Il lavoratore è stato ucciso da un pezzo di ferro che, rimbalzato dalla pressa, lo ha colpito sbalzandolo parecchi metri lontano e spappolandogli il fegato: era un immigrato marocchino quarantenne e quello era il primo dei suoi 40 giorni da interinale.
Come di rito, un’inchiesta accerterà eventuali responsabilità o, al contrario, imputerà l’accaduto al fato, all’imperizia, a una qualche trascuratezza. A noi dà fastidio l’espressione “morti bianche”, che mistifica l’originaria formula “omicidi in camice bianco” e occulta le responsabilità di padroni, dirigenti e capireparto, come dell’intero sistema di sfruttamento: spesso gli incidenti sono delitti e così vanno chiamati.
Nello specifico non abbiamo elementi per valutare i comportamenti dell’azienda, ma un concorso di colpa è evidente. Non sono innocenti le leggi che consentono ai padroni di affittare i lavoratori per pochi giorni o addirittura poche ore la forza lavoro, che sottraggono agli operai, insieme al posto fisso, la conoscenza delle macchine e delle situazioni, l’abitudine che è fonte di sicurezza. Grazie alla cosiddetta “flessibilità” oggi si è sballottati da una fabbrica all’altra, da una macchina all’altra, da una mansione all’altra, senza possibilità di imparare bene, di inventare e mettere in atto le precauzioni del caso.
La trafila è partita con il pacchetto Treu, è proseguita con la legge Maroni-Biagi e arriva alle riforme della lacrimosa Fornero con approvazione bipartisan.
Quanta ipocrisia nell’onorevole Verini quando ripete come un’ignobile solfa, “ennesima tragedia di una infinita catena non degna di un Paese civile”!
Stia zitto e si vergogni!

Tra Pietro Micca e Alberto Sordi. L'idea di nazione e il carattere degl’Italiani (Gianpasquale Santomassimo)

Un articolo splendido. Si commentano libri di storia e ragiona dell’oggi alla flebile luce della storia: del passato e del possibile avvenire dello Stato-Nazione, dei primati positivi o negativi degli Italiani. Soprattutto un ottimo antidoto alla banalizzazione e alla semplificazione. (S.L.L.)
Mettiamola così: un quarto di secolo fa era scontato dare per incipiente la fine dello Stato-nazione, superato virtuosamente dalla costruzione armonica di comunità sovranazionali o dallo sviluppo irrefrenabile degli scambi economici.
Le cose non sono andate in questo modo. Dopo il 1989 sono spuntate e spuntano nazioni sempre nuove, altre si annunciano o si auto-proclamano. Non si tratta solo di velleità, di costruzioni fantastiche come la Padania, di cui si ignorano perfino i confini, ma a volte di nazioni storiche «negate», che reclamano forte autonomia e talvolta indipendenza. La Spagna è un laboratorio delicatissimo di questi possibili nuovi equilibri; non sappiamo se il Belgio continuerà ad esistere, ma non possiamo neppure dirci sicuri che il Regno Unito resterà tale, di fronte alla grandeur di un parlamento di Edimburgo che appare costruito e pensato per molto più che un'autonomia.

Ripensamenti e recuperi
Di fronte a un internazionalismo che vede in azione ormai solo fondamentalismi religiosi o finanziari, è inevitabile la ricerca di una dimensione di «protezione e rassicurazione esistenziale», di «affinità, consonanze, parentele ideali e morali», parte di una «autorappresentazione senza la quale nessun gruppo sociale è in grado di vivere e sopravvivere» (rinvio con queste citazioni a Patria. Circumnavigazione di un'idea controversa di Silvio Lanaro, uscito quindici anni fa presso Marsilio, tra le poche cose sensate prodotte dal lungo dibattito italiano attorno a questi temi).
Abbiamo parlato non a caso di Stato-nazione: ma bisogna rilevare che tutta l'attenzione è stata spostata sul secondo termine della formula, dimenticando completamente il primo. Così è nata una letteratura enfatica sull'8 settembre come «morte della patria», ignorando che il fenomeno consisteva in realtà nella dissoluzione catastrofica dello Stato italiano. Così la crisi e poi l'implosione dello Stato del welfare (annunciata già in un libro profetico di James O'Connor del 1977) ha prodotto tensioni e scollamenti che in Italia hanno assunto la forma di una rinnovata interrogazione, talvolta angosciosa, sui nostri fondamenti nazionali. Tutto questo ricade in una celebrazione dei 150 anni dello Stato unitario che assumerà caratteristiche molto particolari e impensabili fino a pochi anni fa. E che, sorvolando su tutto il resto, sembra vedere impegnata solo la cultura di sinistra in un'opera di ripensamento e di recupero di una forma di patriottismo non retorica e adeguata alla forma costituzionale della Repubblica.
L'errore di fondo è stato probabilmente, fin dall'impostazione di questo appuntamento, quello di avere privilegiato pressoché esclusivamente il momento delle origini, come se i 150 anni si risolvessero nel ripensare l'anno zero di una storia, e non tutto lo svolgimento di essa. Di qui la centralità che al Risorgimento si è tornata ad attribuire già nel settennato presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, promotore di una forma generosa di riattualizzazione del Risorgimento come occasione di pedagogia patriottica e repubblicana, che ha trovato molti consensi e qualche dissenso.


Una ininterrotta continuità
Tra le poche voci critiche vi è stata quella di Alberto Mario Banti, storico ben noto ai lettori di questo giornale, che ha reagito al «ciampismo storiografico» da cui sono stati contagiati molti opinionisti, ossia al tentativo di riproporre il Risorgimento tal quale, condito perfino dall'evocazione della prima guerra mondiale in chiave di quarta guerra d'indipendenza, come leggevamo nei nostri manuali di storia degli anni Cinquanta.
Il più grande merito di Banti è stato quello di averci ricordato la grande distanza dal Risorgimento, di avere dimostrato che il Risorgimento non è nostro contemporaneo, anche se molti fingono di crederlo tale nell'enfasi celebrativa. Il limite di Banti è stato, a mio avviso, di non aver sempre tenuto fede al suo assunto, rileggendo talvolta il Risorgimento con gli occhi di un contemporaneo, e per giunta di un contemporaneo molto sensibile al politicamente corretto.
«La nazione non è un dato di natura» ricorda Banti nell'incipit del suo ultimo libro (Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza 2011, pp. 208, euro 18). È infatti creazione relativamente recente; che però, dal momento in cui prende vita, diviene un fattore fondamentale nella vita degli uomini e nella loro storia. Ovunque la nazione si afferma attraverso un rapporto predatorio e selettivo del passato, costruendo e più spesso inventando tradizioni, elaborando un apparato emozionale evocativo di una storia e di un destino comune.
Il libro di Banti è costruito attorno all'individuazione di «figure profonde» della narrazione italiana: la nazione come parentela/famiglia; la nazione come comunità sacrificale; la nazione come comunità sessuata. Vuole condurre, attraverso citazioni di un ampio materiale di cultura alta, media e «bassa», una «analisi morfologica del discorso nazionale italiano dal Risorgimento al fascismo». La tesi «forte» del libro è proprio in questa continuità ininterrotta attraverso le epoche della storia per cui, fissate in epoca risorgimentale alcune strutture discorsive, esse procedono immutate nel tempo, e colonialismo, imperialismo, razzismo non saranno tali «da modificare o scalzare la matrice morfologica originaria del discorso nazionale».
Le obiezioni che vengono in mente di fronte a questo assunto sono moltissime, e provo ad elencare le principali. Intanto, il procedimento non è solo italiano, ma è comune a tutto il sentimento nazionale che prende forma in epoca romantica. Il più grande storico italiano dell'idea di nazione, Federico Chabod, aveva dimostrato nei suoi corsi degli anni della seconda guerra mondiale, pensati in evidente opposizione allo spirito del suo tempo, come l'idea di nazione nascesse in ambito settecentesco e in territorio per definizione alieno da spirito guerresco, in Svizzera, tra cittadini con lingue diverse, e in stretto collegamento con le idee di libertà e indipendenza.
C'è una evidente forzatura nell'impostazione di Banti, nel saltare la distinzione elementare tra principio di nazionalità e nazionalismo, tra clima culturale del primo Ottocento e quello del secondo. Si citano Mazzini e Garibaldi, ovviamente, ma si dimentica che furono tra i fondatori della Prima Internazionale Operaia, assieme a Marx e Bakunin, che Mazzini fondò anche la Giovine Europa, che Garibaldi combatté per la libertà di molte nazioni. E non è casuale che a Garibaldi venissero intitolate le Brigate di combattenti comunisti, in Spagna e poi in Italia.
Nella strofa più goffa e impacciata del nostro inno nazionale, quella che nessuno canta, si accenna al sangue polacco fatto versare dagli austriaci. C'era solidarietà tra uomini e popoli che si sentivano oppressi, e l'idea di liberazione nazionale si associava anche a quella di un profondo rivolgimento sociale.
Di Goffredo Mameli, patriota generoso e poeta discutibile, vorrei che non ci si limitasse a dire, come ha fatto Benigni in televisione, che è morto giovanissimo "per l'Italia", cosa di per sé vera ma semplificata. Vorrei che qualcuno ricordasse che era morto per una Repubblica democratica, quella romana, dalla costituzione modernissima e in tema di cittadinanza molto più moderna delle legislazioni successive. Era morto cioè per una Italia molto diversa da quella che poi si è realizzata. Col che non si vuole riaprire l'ennesimo processo agli esiti del Risorgimento: ce ne sono stati fin troppi, conosciamo origine, sviluppi e implicazioni di quei dibattiti, e li assumiamo come un dato della storia. Si vuole semplicemente ricordare che parliamo di una storia molto complicata, impossibile da racchiudere in formule semplificatorie.


Intorno al «Cuore»
Nella parte successiva, Banti dedica molta attenzione e citazioni al libro Cuore, uno dei libri di formazione dell'italiano più efficaci e duraturi, che ha aduggiato l'infanzia nostra come delle generazioni precedenti. Eppure, anche qui, risulta difficile accettare l'idea che Edmondo De Amicis fosse un nazionalista sanguinario: era un mite socialista umanitario, che voleva forgiare patriottismo e rettitudine con un libro a ben vedere molto strano, che parla di una Italia singolare, dove non c'è nemmeno un prete e non si parla mai di Chiesa.
Può darsi che le «strutture discorsive» siamo similari, e talvolta identiche, a quelle che più tardi verranno adottate da D'Annunzio, dai nazionalisti e dai fascisti. Le parole sono importanti, ma vanno lette e tradotte nel loro tempo. Altrimenti si rischia di riproporre, con segno rovesciato, la visione fascista, che poneva il fascismo stesso come realizzazione, «inveramento» del Risorgimento.
«La nazione fascista - scrive Banti - irrigidisce ed estremizza i tropi elementari della matrice discorsiva originaria», il che non è poco, ma si può dire di più: ne stravolge il significato. Scrivere che «le leggi razziali in fondo non sono che la gemmazione coerente del fatto che la nazione è sangue e suolo per i fascisti, come lo era stata per i liberali», mi sembra francamente uno sproposito. Forse tra cielo e terra della storia c'è molto più che le strutture discorsive: c'è la storia stessa.
Ma davvero corriamo oggi il rischio di un neo-nazionalismo aggressivo, che si manifesta con Roberto Benigni al Festival di Sanremo e con Romano Prodi e Giovanna Melandri che cantano l'inno nazionale assieme ai calciatori italiani nel 2006, con «risultato desituante per un bel pezzo del loro elettorato, più aduso a commuoversi alle note di Blowing in the wind o Imagine, che alle figure sanguinolente del nazionalismo mortuario di epoca romantica»? I giovani americani ascoltano Bob Dylan cantare Blowin' in the wind come Bruce Springsteen che canta Born in the Usa, e quanto alle figure retoriche del patriottismo ottocentesco, credo che Fabrizio De André le avesse interpretate bene traducendo la canzone di Brassens Morire per delle idee («va bè, ma di morte lenta...»).


L'antieroe Alberto Sordi
Un libro recente di una storica italo-americana (Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza 2010 pp. XXVIII-320), dedicato non alla «identità», concetto sdrucciolevole e impalpabile, bensì al «carattere» che viene forgiato e costruito, partiva non a caso da Alberto Sordi, e dagli articoli celebrativi del personaggio apparsi nel 2003 sulla stampa italiana in occasione della sua morte: «icona nazionale», «tipicamente italiano», «eroe dei nostri difetti». Per rilevare come questa fosse la conclusione paradossale e imprevedibile di un discorso sul carattere italiano partito in epoca pre-risorgimentale e che aveva accompagnato gran parte della nostra storia, teso a costruire un italiano fiero, virile, guerresco, e sfociato nella esaltazione dell'italiano mammone, indolente, opportunista impersonato tante volte dall'attore romano.
Ecco, tra gli estremi di Pietro Micca e di Alberto Sordi sarebbe possibile trovare un quid medium di mite patriottismo sostanziato di senso civico e anche di senso della storia, proprio di cittadini italiani che vogliono restare tali, in una Repubblica libera, retta da leggi da rispettare e da una Costituzione che non è solo da difendere, ma soprattutto da attuare?

“il manifesto” 10 marzo 2011

statistiche