30.6.12

Per una morte senza "dignità" (di Franco Fortini)

Personalmente credo «giusto», «umano» e «positivo» che l'uomo vada alla morte senza «dignità», piangendo e defecando, nel tremore, nell'angoscia e nella ricerca di un qualsiasi oggetto che lo trattenga (o pensiero che lo illuda) al di qua.
Le mandrie imploranti che scendevano nelle fosse naziste testimoniano a favore dell'uomo più di tutti coloro che rifiutano la benda. Il Cristianesimo — che è anche una storia di tremito e lacrime — umilia i filosofi che si svenano senza batter ciglio.

Da Gli ultimi tempi. Note al dialogo di De Martino e Cases
In “Quaderni piacentini”, N.22 maggio-agosto 1965

"Una città in forma di palazzo" (di Baldesar Castiglione)

Questo del Cortegiano di Baldesar Castiglione mi è sembrato, fin da quando l’ho letto la prima volta, uno tra i più seducenti incipit della letteratura italiana. La costruzione poetica di uno spazio ideale, la “Corte”, in un luogo reale, il palazzo ducale di Urbino, è operazione tutt’altro che facile e tuttavia tale la fa sembrare nella sua prosa leggera, che mescola grazie toscane e padane, il cavaliere Castiglione. E’ nota ai più la nozione di “grazia” che il Cortegiano propaganda, una eleganza nell’agire, nel dire, nello scrivere curata nei particolari, ma realizzata con una naturalezza che nasconde lo studio che ha richiesto, perfino con un tocco di sovrana “sprezzatura”: “la semplicità che è difficile a farsi” – direbbe Brecht. Tale è la prosa che qui rappresenta la dimora dei Montefeltro nell’“aspero sito” delle odierne Marche, un capolavoro. (S.L.L.)

Il palazzo ducale di Urbino
Alle pendici dell'Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d'Urbino; la quale, benché tra monti sia, non così ameni come forse alcun'altri che veggiamo in moli lochi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole, che intorno il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell'aere, si trova abbondantissima d'ogni cosi che fa mestieri per lo vivere umano. Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la principale, che da gran tempo in qua è stata dominata da ottimi Signori; avvenga che, nelle calamità universali delle guerre della Italia, essa ancor per un tempo ne sia restata priva. Ma non ricercando più lontano, possiamo di questo far bon testimonio con la gloriosa memoria del duca Federico, il quale a' dì suoi fu lume della Italia; né mancano veri ed amplissimi testimoni, che ancor vivono, della sua prudenzia, della umanità, della giustizia, della liberalità, dell'animo invitto e della disciplina militare: della quale precipuamente fanno fede le sue tante vittorie, le espugnazioni de' lochi inespugnabili, la subita prestezza delle espedizioni, l'aver molte volte con pochissime genti fugato numerosi e validissimi eserciti, né mai esser stato perditore in battaglia alcuna; di modo che possiamo non senza ragione a molti famosi antichi aguagliarlo.
Questo, tra l'altre cose sue lodevoli, nell'aspero sito d'Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d'ogni oportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva; e non solamente di quello che ordinariamente si usa, come vasi d'argento, apparamenti di camere di ricchissimi drappi d'oro, di seta e d'altre cose simili, ma per ornamento v'aggiunse una infinità di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture sigularissime, instrumenti musici d'ogni sorte; né quivi cosa alcuna volse, se non rarissima ed eccellente. Appresso, con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d'oro e d'argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo.

Preti (di S.L.L. – “micropolis” gennaio 2005)

Sarà perché sono meridionale, ma, al posto di Gelmini, nell’incontro per festeggiare il suo compleanno tenutosi ad Amelia qualche giorno fa, mi sarei toccato. Berlusconi e un nutrito gruppo di autorità politiche e militari sono arrivati in pellegrinaggio; chi non ha potuto ha spedito messaggi augurali. Così Ciampi e il Papa. Stranamente (e fortunatamente) sobria e discreta la presenza dei politici della sinistra. Ce ne rallegriamo. La sera, a un dibattito televisivo, di fronte alle obiezioni degli antiproibizionisti verso la nuova legge sulle droghe, che vorrebbe chiudere in comunità anche i ragazzi che si fanno le canne, il prete ha sbottato: “Parlate della mia comunità come se fosse la Caienna”. L’ira è comprensibile, ma se la gente va in comunità per scampare la prigione, di necessità la comunità somiglierà a un carcere, umanizzato quanto si vuole, ma carcere.
La scelta proibizionista delle gerarchie cattoliche ha avuto nei giorni trascorsi nuove deprimenti conferme. Ad un vescovo spagnolo che ha osato giustificare la distribuzione di preservativi nell’Africa martoriata dall’Aids, i capi vaticani hanno risposto in coro: “L’unica prevenzione autorizzata è l’astinenza”. Intanto il cardinale Ruini, a nome della Conferenza Episcopale Italiana, ha discettato sull’obbligo, che i cattolici avrebbero, di fermare i referendum laici contro gli aspetti più coattivi e aberranti della legge sulla fecondazione artificiale, con tutti i mezzi disponibili. In sostanza i vescovi si schierano a favore dell’astensione, posizione che sembra riportare i cattolici al
tempo del non expedit. Se ne è avuta conferma nelle omelie domenicali di preti semplici e monsignori. Perfino l’aperto vescovo di Perugia, il montiniano Chiaretti, ha impartito istruzioni in merito alla difesa della vita e della morale.
Mentre i clericali si organizzano, i laici di sinistra latitano. Forse sperano in una leggina truffa che tolga loro le castagne dal fuoco. Intanto a fine dicembre il Consiglio regionale dell’Umbria, con voto unanime, ha approvato la legge che finanzia gli oratori. Storace ha fatto scuola. Tra i firmatari
della legge spicca il nome di Bonaduce, di Rifondazione. Gli oratori sono certamente luoghi di socializzazione e di crescita, ma sono monoculturali, propagandano una fede unica, una morale assoluta, non educano affatto al dialogo e al confronto, perfino quando sono gestiti da preti aperti e tolleranti. Perché la Regione, con i denari di tutti, dovrebbe finanziarli?
Nella pratica del resto gli oratori sono, attraverso bimbetti e ragazzine, centro d’irradiazione degli anatemi preteschi. Ci ricordiamo ancora delle immagini truculente di feti “uccisi” che tanti figli portavano in casa dall’oratorio ai tempi del referendum sull’aborto. Di tutto ciò, in ogni caso, a certi politici laici e di sinistra sembra importare poco. Forse, in Umbria, a partire dalle tematiche referendarie toccherà proprio a noi promuovere un’iniziativa, combattendo anche una prassi
consolidata nei partiti di sinistra che sembra delegare alle sole donne e alle loro commissioni questi temi, come se non si trattasse di politica vera.
Sarà il caso di porre il tema della laicità delle istituzioni anche nei dibattiti della sinistra critica e alternativa. A Roma durante la grande assemblea del Palafiera Asor Rosa ha proclamato la fine della divisione tra “laici e religiosi”. A parte la terminologia un po’ approssimativa, il concetto è giusto: a me materialista importa poco se uno sia ebreo, musulmano, cristiano o buddista, quando combatte al mio fianco contro la guerra, contro il padrone, per i diritti sociali.
E tuttavia una precisazione ci vuole. La laicità dello Stato è parte costitutiva della democrazia politica, che la sinistra alternativa riunitasi a Roma vuole salvaguardare e consolidare. Uno Stato che trasformi in dogmi per tutti le credenze di una parte, che detti obblighi e proibizioni nei comportamenti privati non va bene. Lo stato etico non è di sinistra. Ed è forse utile che per primi siano proprio i “religiosi” di sinistra ad affermarlo.

“micropolis” gennaio 2005

Edgar Snow - Ritratto di Mao Tse-tung (da "Stella rossa sulla Cina")

Edgar Snow, nato nel Missouri nel 1905 e morto nel 1972 in Svizzera, arrivò in Cina come inviato speciale. Dopo sette anni di permanenza, nel 1936 superò le linee nazionaliste e incontrò i capi rivoluzionari della Repubblica Sovietica di Cina. Nasceva da quella esperienza Red Star over China (Stella rossa sulla Cina), uno straordinario reportage sul campo pubblicato per la prima volta nel 1938. Dall'edizione Einaudi, del 1965, con la traduzione di Renata Pisu, riprendo il vivido ritratto di Mao Tse Tung, indicato come “l’uomo forte dei soviet”. Vi sono contenuti, a sorpresa, due passaggi relativi all’Italia. Il primo è uno scherzoso siparietto sulle abitudini alimentari e politiche degli italiani, il secondo un richiamo a Vilfredo Pareto che con la sua teoria delle élites aveva conosciuto in Cina uno straordinario successo, connesso alla tradizione mandarinale e all’inguaribile vocazione al mandarinato di molti intellettuali. (S.L.L.)
Edgar Snow con Mao Tse-tung
Mao mi è sembrato un uomo molto interessante e complesso. Ha la semplicità e la naturalezza dei contadini cinesi, uno spiccato senso umoristico e si compiace della risata paesana. Ride soprattutto di se stesso e delle manchevolezze dei soviet: una risata giovanile che però non scuote minimamente la sua fede profonda negli obiettivi finali. È un uomo che parla semplicemente e vive semplicemente, tanto che alcuni sarebbero indotti a giudicarlo una persona piuttosto rozza e volgare. Invece Mao abbina curiose ingenuità a una intelligenza acuta e a una sofisticata mondanità.
Io penso che la prima impressione che mi fece, cioè di naturale sagacia, sia probabilmente quella giusta. Mao è tuttavia un uomo colto, profondo conoscitore dei classici cinesi, lettore onnivoro, studioso appassionato di storia e di filosofia, ottimo oratore, scrittore di stile, ed è dotato di una memoria sorprendente e di una straordinaria facoltà di concentrazione. Trascurato nelle abitudini e nell'apparenza è però meticolosamente preciso sul lavoro: è un uomo di inesauribile energia e uno stratega politico e militare di genio. È indicativo che i giapponesi lo considerino il più abile stratega cinese vivente.
I rossi stavano costruendo dei nuovi edifici a Pao An, ma quando arrivai io gli alloggi erano ancora estremamente primitivi. Mao viveva con sua moglie in una yao-fang di due vani, dalle pareti nude, povere, tappezzate con qualche carta geografica. Mao aveva conosciuto di peggio e, come figlio di un «ricco» contadino dello Hunan, aveva conosciuto anche di meglio. Una zanzariera era l'unico lusso che la coppia si era concessa. Per tutto il resto Mao viveva all'incirca come un qualsiasi soldato dell'Armata rossa. Benché da dieci anni fosse alla testa dei rossi e avesse confiscato centinaia di volte gli averi di proprietari terrieri, funzionari ed esattori delle tasse, possedeva solo le coperte da letto, qualche effetto personale e due uniformi di cotone. Oltre a essere presidente del governo era anche uno dei comandanti in capo dell'Armata rossa, ma sul risvolto della giacca portava solo due striscette rosse che sono il distintivo di qualsiasi soldato rosso.
Con Mao sono stato molte volte a comizi di contadini, a raduni di cadetti rossi e anche al Teatro rosso. A teatro sedeva in mezzo alla folla senza farsi notare e si divertiva follemente. Ricordo che una volta al Teatro antigiapponese, durante un intervallo, il pubblico richiese a gran voce un duetto tra Mao Tse-tung e Lin Piao, il ventottenne presidente dell'Accademia rossa e un tempo uno dei più brillanti cadetti dello Stato maggiore di Chiang Kai-shek. Lin Piao diventò tutto rosso come uno scolaretto e declinò «l'ordine di esibirsi» con uno spiritoso discorso nel quale invece invitava a cantare le donne comuniste.
Il vitto di Mao era quello di tutti gli altri, ma lui, essendo un hunanese, aveva il classico ai-la («amore del pepe») dei meridionali. Arrivava persino a farsi cuocere il pane con dei granelli di pepe dentro. A parte questa passione, non sembrava affatto accorgersi di ciò che mangiava. Una sera a cena espose una sua teoria secondo la quale i popoli che amano mangiare pepato sono rivoluzionari. Citò prima di tutto la sua provincia, lo Hunan, terra che ha generato famosi rivoluzionari. Poi, per dimostrare la sua asserzione, passò alla Spagna, al Messico, alla Russia e alla Francia, ma, ridendo forte, dovette riconoscersi battuto quando qualcuno ricordò come la ben nota passione degli italiani per il pepe rosso e l'aglio contraddicesse la sua teoria. A questo proposito mi viene in mente che una delle più divertenti canzoni dei «banditi» è uno stornello che si chiama Il peperoncino rosso. Il peperoncino, dice la canzone, disgustato della sua insipida esistenza prima di essere mangiato, prende in giro i cavoli, gli spinaci e i fagioli per la loro carriera di invertebrati. Nella strofa finale il peperoncino si mette alla testa di una insurrezione di tutti i vegetali. Il peperoncino rosso era una delle canzoni preferite dal presidente Mao.
Mao è alieno da qualsiasi sintomo di megalomania ma ha un profondo senso della sua dignità personale e c'è qualcosa in lui che fa capire come sia capace, quando è necessario, di prendere drastiche decisioni. Io non l'ho mai visto infuriato ma ho sentito dire che la sua collera è gelida e intensa e che, alternando magistralmente ironia e invettiva, riesce ad essere letale e a schiacciare completamente l'avversario.
Trovai che era sorprendentemente ben informato sugli eventi politici mondiali del momento. Persino durante la Lunga marcia i rossi ricevevano i notiziari radio e nel Nordovest pubblicavano i loro giornali. Mao conosce molto bene la storia mondiale ed ha una concezione estremamente realistica delle condizioni politiche e sociali dell'Europa. Lo interessava molto il partito laburista inglese e, chiedendomi un'infinità di schiarimenti sulla sua politica, esaurì in breve le mie scarse informazioni. Mi sembra che gli riuscisse difficile capire bene perché, in un paese dove gli operai avevano diritto di votare, non ci fosse ancora un governo di operai. Ho paura che le mie spiegazioni non lo abbiano soddisfatto. Espresse il suo profondo disprezzo per Ramsay MacDonald che defini han-chieh, cioè arcitraditore del popolo inglese.
Vale la pena di riferire la sua opinione sul presidente Roosevelt. Era convinto che fosse un vero antifascista e pensava che la Cina avrebbe potuto collaborare con un uomo del genere. Mi fece innumerevoli domande sul «New Deal» e sulla politica estera di Roosevelt dimostrando di averne capito chiaramente le finalità. Considerava Mussolini e Hitler due saltimbanchi, ma intellettualmente stimava più Mussolini, lo riteneva più abile, un machiavellico con una buona conoscenza della storia, mentre invece Hitler, secondo lui, era solo una marionetta priva di volontà in mano ai capitalisti reazionari.
Mao aveva letto molti libri sull'India e si era formato delle opinioni ben precise su quel paese. La sua opinione fondamentale era che l'India non avrebbe mai raggiunto una completa indipendenza senza riforma agraria. Mi domandò di Gandhi, di Javàharlàh Nehru, di Suhasini Chattopa-dhyaya e di altri dirigenti indiani che io conoscevo personalmente. Sapeva qualcosa sul problema dei negri negli Stati Uniti e faceva un confronto non lusinghiero fra il trattamento riservato ai negri e agli indiani d'America e la giusta politica adottata in Unione Sovietica nei confronti delle minoranze nazionali. Tuttavia mi ascoltò con interesse quando gli feci notare alcune fondamentali differenze storiche e psicologiche tra la situazione dei negri d'America e quella delle minoranze etniche della Russia.
Mao è un appassionato studioso di filosofia. Una sera, mentre stava concedendomi un'intervista sulla storia del movimento comunista in Cina, venne a fargli visita un amico che gli portava alcuni nuovi libri di filosofia. Mao mi chiese il favore di sospendere per qualche giorno i nostri colloqui e, dimentico di tutto il resto, divorò quei libri in tre o quattro nottate di intense letture. Le sue conoscenze non si limitavano solo ai filosofi marxisti, ma aveva letto anche qualcosa degli antichi greci, di Spinoza, di Kant, di Goethe, di Hegel, di Rousseau e di altri.
Mi sono spesso domandato come Mao fosse arrivato ad accettare il principio della forza, della violenza e della «necessità di uccidere». In gioventù aveva avuto tendenze fortemente liberali e umanistiche e il passaggio dall'idealismo al realismo doveva essere stato compiuto da lui sul piano filosofico. Benché figlio di contadini, non aveva - al contrario di molti altri rossi - sofferto personalmente della oppressione dei proprietari terrieri: senza dubbio il marxismo era al centro del suo pensiero ma io sono incline a credere che forse l'odio di classe rappresentasse per lui, in sostanza, una conseguenza del complesso della sua filosofia piuttosto che un impulso elementare all'azione.
Niente in Mao faceva pensare al sentimento religioso: i suoi giudizi dovevano esser stati formulati unicamente in base alla ragione o alla necessità. Io credo che proprio per questo, Mao abbia avuto, in complesso, una influenza moderatrice nel movimento comunista quando fossero in discussione problemi di vita o di morte. Mi sembra che abbia tentato di trasformare la sua filosofia - una dialettica della «lunga scadenza» - in un criterio per ogni azione di vasta portata: in quest'ordine di pensiero, la vita umana diviene un valore relativo. Un atteggiamento siffatto è assai poco comune tra i dirigenti cinesi che hanno sempre posto il tatticismo occasionale al di sopra delle esigenze etiche.
Mao lavora tredici o quattordici ore al giorno, sino a notte inoltrata e spesso non va a letto prima delle due o le tre. Ha una costituzione di ferro e ne attribuisce il merito al duro lavoro che da bambino svolgeva nel podere del padre e all'austero periodo degli anni di scuola quando aveva formato, assieme ad alcuni amici, una specie di associazione spartana. Digiunavano, si arrampicavano su per le colline boscose della Cina meridionale, nuotavano nell'acqua gelida, si esponevano a torso nudo alla neve e alla pioggia, e tutto questo allo scopo di temprarsi. Avevano forse intuito che in Cina, negli anni a venire, gli uomini avrebbero dovuto essere in grado di affrontare fatiche e privazioni.
Mao da ragazzo trascorse un'intera estate a girovagare per tutto lo Hunan. Si guadagnava da vivere lavorando ora in un podere ora in un altro e, qualche volta, chiese anche l'elemosina. Per parecchi giorni di fila si nutrì solo di fagioli secchi e acqua, ottimo sistema per «temprare» lo stomaco. Le amicizie che allacciò negli anni giovanili di vagabondaggio per le campagne gli furono molto utili quando, una decina di anni dopo, cominciò a organizzare migliaia di contadini dello Hunan nelle famose Leghe contadine che, dopo la rottura tra Kuomintang e comunisti nel 1927, costituirono la prima base dei soviet.
Mao mi ha impressionato per la sua profondità di sentimenti. I suoi occhi una o due volte si velarono di lacrime quando mi parlò dei compagni morti o di alcuni episodi della sua gioventù, quando, durante le rivolte per il riso e le carestie dello Hunan, vide decapitare i contadini affamati della sua provincia, colpevoli di aver chiesto cibo allo Ya-men. Un soldato mi raccontò che al fronte aveva visto Mao offrire il suo mantello a un ferito. Mi raccontarono anche che aveva rifiutato di portare le scarpe quando i soldati rossi ne erano privi.
Tuttavia dubito molto che Mao possa guadagnarsi il rispetto delle élites intellettuali cinesi perché, pur essendo dotato di un cervello fuori del comune, ha le abitudini tipiche di un contadino. Temo che i discepoli cinesi di Pareto lo trovino un po' rozzo. Ricordo che una volta, mentre stavamo chiacchierando, Mao si slacciò distrattamente la cintura dei pantaloni e si mise a dar la caccia a certi suoi ospiti. Penso che anche Pareto avrebbe fatto su se stesso una piccola ispezione se avesse dovuto vivere in condizioni simili. Ma certo è che nemmeno Pareto si sarebbe tolto i pantaloni davanti al presidente dell'Accademia rossa, come fece Mao un giorno ci stavo intervistando Lin Piao. Faceva terribilmente caldo nella stanzetta dove ci trovavamo; Mao si sdraiò sul letto, si levò i pantaloni e per una ventina di minuti si dedicò attentamente allo studio di una carta militare appesa alla parete. Di tanto in tanto Lin Piao lo interrompeva chiedendogli precisazioni su date e nomi che egli ricordava perfettamente. La sua estrema disinvoltura si accoppiava a una completa indifferenza per l'aspetto esteriore; eppure Mao aveva sotto mano i mezzi per potersi agghindare come un generale da operetta o come un uomo politico degno di figurare nel Chi è? della Cina.
Mao ha percorso a piedi, fatta eccezione per poche settimane in cui era malato, i diecimila chilometri della Lunga marcia come un semplice soldato. Negli ultimi anni, se appena lo avesse voluto, avrebbe potuto ottenere alte cariche e solide ricompense «vendendosi» al Kuomintang, e questo vale anche per la maggior parte dei comandanti rossi. Se non si conosce la storia delle «pallottole d'argento», che in Cina sono servite a comprare molti altri ribelli, non si può apprezzare pienamente la tenacia incorruttibile che per dieci anni ha legato questi comunisti ai loro principi.
Mao mi è sembrato sincero e onesto e quanto mi disse degno di fede: io stesso ho avuto modo di provare la veridicità di molte delle sue affermazioni. Mi ha sottoposto a una blanda propaganda politica (niente in paragone a quella impartitami dai non-banditi), ma non ha mai censurato né i miei scritti né le mie fotografie, e gliene sono grato. Mi ha favorito in ogni maniera perché potessi rendermi conto dei vari aspetti della vita dei soviet.

1999: l'abiura di Veltroni. Un documento storico.

Veltroni con Cossiga nel novembre 1999
Il 16 ottobre 1999 Walter Veltroni, al tempo segretario dei Ds, dopo l’ennesima sollecitazione di Gianni Riotta su “La Stampa” a rompere più radicalmente con il passato, prende penna e obbedisce: fa l’elenco di tutti gli strappi già compiuti e ne realizza di nuovi. Non a tutti piace lo stile letterario di Veltroni. A me per esempio non piace. Mi sembra insieme untuoso e burocratico e questo mix di unzione e di apparato mi sa tanto di gesuitismo. Ma io sono un vecchio mangiapreti e non fo testo: lasciamo dunque la forma e andiamo alla sostanza. Il documento mi pare segnalare un salto di qualità nella “sindrome del rinnegato”, che ha caratterizzato i gruppi dirigenti ex-Pci dopo la svolta. Quando equipara il comunismo al nazismo Veltroni sa perfettamente di fare suo il leit-motiv della destra e sa di rinnegare non solo il Pci di Berlinguer, ma anche quei grandi che opportunisticamente cita, da Gobetti a Don Milani, dei quali nessuno giunse a quella falsificante e aberrante equiparazione. 
Sono passati quasi tredici anni da quella lettera e credo che essa documenti ottimamente il trasformismo di un intero ceto politico (e qui tra dalemismo e veltronismo non c’è davvero differenza) che si è posto come obiettivo preminente e assoluto la propria autoperpetuazione. Obiettivo assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo di classe, di valori, di obiettivi.
I Veltroni e i D’Alema e i loro imitatori e seguaci nelle città e nei paesi d’Italia, come gli stalinisti di un tempo, si ritengono “fatti di una pasta speciale” e perciò considerano se stessi garanzia di una “buona politica”. Poco importa loro se questa “buona politica” toglie diritti, poteri e reddito alla classe operaia e ai lavoratori che fino a ieri avevano costituito il loro riferimento sociale, se essa esplicitamente combatte l’eguaglianza e l’equità sociale chiamandoli egualitarismo, se essa non si propone più il superamento delle classi sociali, ma piuttosto la selezione di classi dirigenti e proprietarie, se essa non contrasta più il dominio imperiale dell’Occidente capitalistico ma tenta di estenderlo e protrarlo.
Bisognerà che la si scriva finalmente la storia di questi gruppi dirigenti, mettendo in fila e analizzando tutti i documenti del loro “rinnegamento” trasformistico, anche come premessa per costruirla daccapo una sinistra. In quella storia la lettera di Veltroni a “La Stampa” avrà un posto di riguardo.
Proprio per questo bisogna fare “tanto di cappello” a uno storico di mestiere e a un uomo di sinistra, Gianpasquale Santomassimo, che ne comprese subito il peso e la trattò fin da allora come un documento storico. L’articolo che scrisse su “La rivista del manifesto” del gennaio 2000  è un’analisi del testo veltroniano nello stesso tempo appassionata e scientifica.
Proporre qui, uno appresso all’altra, la lettera di Veltroni e l’articolo di Santomassimo mi pare un buon punto di partenza per lo studio che ci tocca fare. Ma nel testo dello storico c’è ancora di più: c’è una proposta su come uscire da questo guazzabuglio delle identità a cui più d’uno resta gelosamente ancorato, su come ristabilire un rapporto sano con la storia, in primis con quella storia che sentiamo nostra, quella del movimento operaio e della sinistra italiana. Suggerisco di leggere con particolare attenzione l’ultima parte dell’articolo.
(S.L.L.)
Veltroni con Pasolini e Adornato negli anni 70
DOCUMENTI
La lettera di Walter Veltroni
sulle richieste di Riotta
Su «La Stampa» di ieri, Gianni Riotta scrive: «E' arrivato il momento di riconoscere che la rivoluzione russa non fu un successo tradito, ma lo stravolgimento di tanti nobili ideali». Riotta ci chiede di riconoscerci in questa affermazione. Lo faccio volentieri e sinceramente. Ma l'ho già fatto, nella mozione che ho presentato per il prossimo, primo congresso dei Democratici di sinistra. Il secolo che muore, il Novecento, viene in quel documento definito come «il secolo del sangue. Il secolo in cui degli uomini hanno potuto immaginare e realizzare il genocidio degli Ebrei. Il secolo di Auschwitz, delle vittime delle persecuzioni del nazismo. E il secolo della tragedia del comunismo, di Ian Palach, dei gulag, degli orrori dello stalinismo» . Lo stalinismo come il nazismo, i gulag e Auschwitz, il comunismo come tragedia del Novecento. Cosa si può dire di più netto e chiaro? Né si tratta solo di giudizi retrospettivi. Parlando alla Festa Nazionale dell'Unità, a Modena, davanti al popolo diessino con le sue bandiere e i suoi striscioni, dicevo che «il secolo che si sta concludendo ci ha insegnato, in modo tragicamente chiaro, che giustizia e libertà sono due valori inscindibili: non può esserci vera libertà dove non c'è giustizia; e non può esserci vera giustizia senza libertà, senza democrazia, senza rispetto rigoroso e integrale dei diritti umani. Lo abbiamo detto più volte in questi mesi, a voce sempre più alta, senza guardare alla lingua, alla religione, o al colore delle bandiere dei nostri interlocutori». E citavo la Birmania e Cuba, la Turchia e la Serbia, Timor Est e la Cina, definendo lo sconosciuto ragazzo di Piazza Tien-An-Men, che ebbe il coraggio di pararsi da solo e inerme davanti ad una colonna di carri armati, come «il simbolo del migliore Novecento». Ma Riotta va oltre e ci chiede di «sciogliere il legame con la politica di tutto il Pci». Noi abbiamo fatto di più. Abbiamo sciolto il Pci. Lo abbiamo fatto dieci anni fa, con la svolta di Occhetto. Con uno strappo violento. Non solo con una drammatica scissione politica, ma attraversando un percorso di dolore umano autentico, mettendo in discussione biografie individuali e collettive e allo stesso tempo provando un senso di liberazione.
Dicemmo, noi che avevamo poco più di trent'anni, che una storia, grande e tragica, era finita, per sempre. Tra noi c'erano, e ci sono, idee diverse sulla velocità e il senso di marcia di quel cambiamento. Tuttavia quella storia finì. Il Pci che ho conosciuto era una strana creatura. Principale partito della sinistra, ha raggiunto il trentacinque per cento, senza mai governare. Era un luogo nel quale potevano convivere i comunisti con gli iscritti e gli elettori del Pci. Non erano tutti la stessa cosa. Quanti erano, nel trentacinque per cento di elettori del '76, quanti anche tra i dirigenti, coloro che credevano all'ideologia comunista, al socialismo realizzato, al partito unico, alla dittatura del proletariato, alle nazionalizzazioni, al patto di Varsavia? Quanti? Non era il Pci di Berlinguer, anche, il luogo nel quale si ritrovava una riserva di energie ideali e morali di una società civile democratica che non amava chi era, da tanti anni, al potere in Italia? Ci si guardi intorno, ci si guardi all'interno. Quanti di coloro che scrivono sui giornali, che insegnano all'università, che producono, hanno votato il Pci in quegli anni? Errori giovanili? Un abbaglio collettivo? Si poteva stare nel Pci senza essere comunisti. Era possibile, è stato così. Tuttavia era una contraddizione. Perché quel Pci solo allora, dopo la Cecoslovacchia, cominciò a fare i conti con fatica con la realtà del socialismo realizzato. E più da esso si allontanava, più la contraddizione si faceva esplosiva. Noi trentenni «finimmo» la storia del Pci, perché la contraddizione era diventata insostenibile. In primo luogo per noi, per una generazione che aveva l'Urss come avversario e la democrazia occidentale nel Dna, nel vissuto, nella formazione culturale. Io ero ragazzo, negli Anni Settanta, ma pensavo che avesse ragione Ian Palach e non i carri armati dell'invasione sovietica. Io ero ragazzo, allora, ma consideravo Breznev un avversario, la sua dittatura un nemico da abbattere. Ci sembrava che Berlinguer facesse, in quel tempo, cose coraggiose. Tutti i giornali italiani «aprirono» a nove colonne quando Berlinguer disse al congresso del Pcus che «la democrazia è un valore universale». Sembrò a tutti che la dichiarazione della preferenza per la Nato del '76 fosse uno straordinario atto di coraggio politico. In quei tempi lo era. Come le carte del Kgb contro Berlinguer dimostrano. Ma il Pci e la sua storia erano stati altro. Erano stati le lacrime per Stalin e l'appoggio alla repressione della rivolta di Ungheria. Era stato il linciaggio politico di Giuseppe Di Vittorio in una Direzione, quella del '56, la cui lettura degli atti provoca brividi lungo la schiena. Comunismo e libertà sono stati incompatibili, questa è stata la grande tragedia europea del dopo-Auschwitz. E se oggi dovessi guardare alle idee che hanno attraversato la storia della sinistra italiana di questo secolo dovrei, in cerca di culture ancora feconde, comporre un mosaico complesso: Gobetti, Rosselli, Gramsci, Spinelli, Colorni, Ernesto Rossi, Lombardi, Parri, Dossetti, don Milani. Esperienze diverse, spesso conflittuali tra loro, certo. Ma sono i filoni di pensiero che hanno mostrato di essere tanto vivi da attraversare il ventre del Novecento e giungere fin qui. Una settimana fa, su queste colonne, Barbara Spinelli ci chiedeva di prendere atto che la sinistra italiana non è nata nell'Ottantanove. Ha ragione. Culturalmente e' vero. Ma politicamente la sinistra italiana di oggi nasce dalla fine del Pci, della sua contraddizione interna. Dal dissolversi di quello che Riotta chiama «lo spettro dell'Urss», che «ha impedito, per un secolo, alla sinistra italiana di crescere libera e maggioritaria». Dal liberarsi di energie che hanno consentito ciò che non era mai successo: che le culture riformiste si incontrassero, contaminassero, unissero. Concludendo la sua celebre storia del Novecento, «Il secolo breve», Eric Hobsbawm osserva, non senza angoscia, che noi uomini e donne di questa fine secolo «non sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo solo che la storia ci ha portato a questo punto e sappiamo anche perché. Una cosa però ci è chiara. Se l'umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l'alternativa a una società cambiata, è il buio». So bene che l'ombra del comunismo continuerà a pesare a lungo, come un'ipoteca, sulle sorti della sinistra italiana. Ma so anche che si tratta di un'ombra che nessuna nuova parola, detta o scritta, può dissolvere completamente. Solo il tempo potrà farlo. Un tempo nel quale la politica, anche la politica dei Ds, deve sforzarsi di fare i conti con la propria innovazione culturale e con le grandi sfide del domani: se non vogliamo che l'ombra del passato si tocchi, fino a confondersi, col buio del futuro.

“La Stampa" 16 ottobre 1999

Veltroni con Berlusconi negli anni 80
L’articolo di Gianpasquale Santomassimo
sui giri di Walter
Quello della identità, delle tradizioni politiche e culturali a cui fare riferimento è un problema comprensibilmente molto sentito nell'ultimo decennio a sinistra, in forme talvolta anche eccessivamente cariche di pathos. A qualcuno la continua ed esibita ricerca di un'anima da parte di una sinistra che sta perdendo il corpo, e non pare preoccuparsene troppo, può apparire un lusso: ma in realtà le due cose sono strettamente collegate.
Su questo terreno, di per sé nebuloso e impervio, va registrata comunque una svolta importante, che va valutata in tutte le sue implicazioni. Mi riferisco alla lettera di Veltroni alla Stampa del 16 ottobre 1999 nella quale, fra l'altro, veniva sancita l'incompatibilità tra comunismo e libertà. Non a caso essa è stata ed è al centro di una viva e talvolta drammatica polemica politica che ha animato i congressi del partito di Veltroni, con punte di disagio e di malessere che nessuno può sottovalutare. Discutere quel testo implica indubbiamente un diretto coinvolgimento di sentimenti, di storie, di motivazioni personali e generazionali. Ma, al di là di questo, vorrei proporre una chiave di lettura diversa. Assumendo la lettera di Veltroni come un vero e proprio documento storico. La "storicità" dei documenti prescinde infatti dal loro valore e dal loro spessore culturale.
Non c'è dubbio che questa lettera si ponga come un documento importante, che chiude una lunga fase, iniziata quasi un quarto di secolo fa sotto l'offensiva della politica culturale craxiana, attraverso una strategia di richieste sempre più ultimative e circostanziate di abiure specifiche su singoli momenti e personaggi della storia comunista, e che ha visto la progressiva dismissione di elementi dell'identità costitutiva dei comunisti italiani fino alla completa abiura della propria storia. Credo che su questo terreno la lettera di Veltroni rappresenti una tappa risolutiva, e un punto di non ritorno. Se non altro perché non è rimasto più niente da abiurare, almeno per la storia di questo secolo. Restano la Comune di Parigi e la rivolta di Spartaco, ma Veltroni potrà provvedere alla prossima occasione.
Intanto, credo si debba porre una questione preliminare, sulla natura di questi pronunciamenti e sulla "laicità" di questi comportamenti. Togliatti, negli anni Cinquanta, dialogava in termini problematici con Norberto Bobbio in tema di comunismo e libertà; Veltroni risponde alle intimazioni di Gianni Riotta e condanna, a richiesta, la rivoluzione d'Ottobre e quant'altro. Le proporzioni tra gli interlocutori sono rispettate. Ma c'è qualcosa che non torna, nella stessa logica delle "scuse per il passato" e del pentitismo storiografico sempre più ricorrente nel rapporto patologico con la storia che sembra instaurarsi in un paese che sembra, peraltro, del tutto sprovvisto di memoria, anche per il suo passato più recente.
Quando il papa pronuncia solenni mea culpa sul passato prossimo o lontano della Chiesa compie gesti, comunque valutabili nel merito, di grandissima novità e grandissima portata. Egli si pone come espressione di una comunità ecclesiale che si fonda anche su una continuità dottrinaria e su una presunzione di infallibilità che rende necessaria la revisione ufficiale di giudizi sul passato. Ma Walter Veltroni non è il papa, è il segretario di un partito che non si sa bene cosa sia, ma si presume laico. Non c'è alcun motivo perché debba pronunciarsi su accadimenti che precedono la sua nascita. In realtà, in questi pronunciamenti "storici", c'è l'ultimo residuo di un'antica visione sacrale del ruolo del segretario di un partito comunista che spinge con naturalezza a pronunciare condanne e riabilitazioni sul passato. È la sottile continuità di un rapporto con il passato come fonte di legittimazione (o come rischio di delegittimazione) che ha attraversato la storia del movimento operaio in questo secolo, e che spingeva altrove (ma a volte anche in Italia) a riscrivere la storia ad ogni cambio di segreteria o ad ogni svolta congressuale e che modificava presenza e gerarchia di icone nelle sale e negli uffici e nelle pagine dei libri. Un rapporto di legittimazione della politica attraverso la storia di cui pensavamo di esserci finalmente liberati, ma che il "nuovista" Veltroni paradossalmente ripropone. Il confuso album di figurine dei personaggi della sinistra da portare con noi nel Duemila contenuto nell'Epistola a Riotta è l'equivalente postmoderno della genealogia dello storicismo marxista che da De Sanctis e Labriola conduceva a Gramsci e Togliatti.
Ma il primo degli aspetti fondamentali da analizzare è quello della visione del Novecento che emerge da questo testo (che non è opinione di un singolo dirigente, ma si ripropone in forma più ampia nel documento congressuale della maggioranza dei Ds, da cui, in effetti, Veltroni cita testualmente). Con le affermazioni enfatiche sul "Novecento secolo del sangue", secolo dei gulag e dei lager, secolo di Auschwitz, secolo segnato dalla tragedia del comunismo, il punto di vista del maggiore partito della sinistra italiana si inserisce senza alcuna originalità in un diffuso e ormai pervadente giudizio sul Novecento, frutto di un giornalismo storico apocalittico (ed eurocentrico), particolarmente diffuso in Italia e in Francia, che punta in realtà a eternare il punto di vista dei vincitori della guerra fredda e a condannare come crimine potenziale qualunque tentativo di andare oltre l'orizzonte della democrazia liberale (e liberista). Il risultato è l'acquisizione di una prospettiva storica demoliberale, priva di quelle tensioni critiche e problematiche che hanno costituito la grandezza dello stesso pensiero liberale e democratico dall'Ottocento ad oggi. Caratterizzata vistosamente e ossessivamente dall'anticomunismo, questa nuova vulgata storiografica tende a porsi quale nuovo senso comune con grande dispiego di mezzi e con una pallida e intermittente resistenza critica da parte della sinistra. Il paradigma del totalitarismo, inteso quale fenomeno unitario (unificante movimenti e ideologie che nella storia reale sono stati contrapposti) che avrebbe segnato di sé quale male assoluto tutto il secolo, ha sostituito tutti i precedenti paradigmi storiografici come chiave interpretativa di ogni vicenda. Molto blanda e comprensiva verso i vari fascismi, questa visione è compattamente "demonizzante" verso il comunismo e la sua incarnazione nell'"impero del male" sovietico, motore negativo di tutto il secolo e dei suoi orrori.
Ora, il Novecento è stato segnato dalle due più grandi guerre della storia (non causate in alcun modo dal comunismo) e da un carico di orrori e di oppressioni su cui è giusto che si torni sempre a riflettere. Eppure, fino a pochi anni fa, a qualsiasi democratico chiamato a compendiare il senso del secolo sarebbe certamente venuto in mente che il Novecento è stato anche e soprattutto il secolo della decolonizzazione, della liberazione e della indipendenza per gran parte del pianeta, dell'ingresso consapevole e organizzato di masse sterminate nella storia mondiale; e anche dell'ampliamento del benessere, delle libertà e dei diritti sociali e individuali. In questa storia di lotte, di vittorie e di sconfitte, i movimenti e i partiti comunisti e socialisti hanno avuto grande parte. Dimenticarlo è un'amnesia colpevole e inspiegabile, che pregiudica la percezione del futuro possibile assai più che il giudizio sul passato.
Non intendo qui discutere del giudizio storico sull'incompatibilità tra comunismo e libertà, che è questione troppo seria e complessa per essere affrontata a partire da questa base. Se fosse la semplice constatazione di un limite tragico e irrisolto nei tentativi di costruzione delle società socialiste, che ne ha inficiato fin dal principio potenzialità di sviluppo e di espansione, non si potrebbe che convenirne. Ricordando magari che la prima a formulare la critica di quel limite fu una comunista rivoluzionaria, Rosa Luxemburg, il cui nome non rientrerà mai negli album di figurine della sinistra raccolti da Veltroni, ma che è realmente una figura da "portare con noi nel Duemila". Ma Veltroni va ben oltre, e liquida come "stravolgimento di nobili ideali" fin dal suo sorgere l'intera esperienza della rivoluzione russa, senza neppure tener conto del durevole potenziale di effettiva liberazione che quell'evento suscitò in tutto il mondo. Un giudizio drastico e liquidatorio, che coinvolge la stessa storia dei comunisti italiani, e di fronte al quale è del tutto illogico affermare che tutto questo era già contenuto nella svolta dell'89.
Il ruolo che la nuova visione della storia assegna al comunismo è in effetti molto diverso. Il comunismo viene rubricato come una pura e semplice "tragedia del Novecento". Una storia criminale, alla Livre Noir? Chi, muovendo da quella storia, è arrivato, legittimamente e pensosamente, a queste conclusioni, dovrebbe avere in primo luogo la dignità di ritirarsi dalla vita politica. Senza illudersi di "rassicurare" alcuno, anche perché, come ha fatto notare Eugenio Scalfari, il meccanismo inquisitorio della richiesta di abiure per sua natura non avrà mai fine. Non erano passate ventiquattrore dall'abiura di Veltroni sulla storia del Novecento che già un editorialista del "Corriere della sera" scriveva che tutto questo non bastava, e che per essere credibili gli ex-comunisti avrebbero dovuto anche condannare ogni forma di vulnus alla proprietà privata. Del resto, perché i cittadini dovrebbero sentirsi rassicurati e correre a votare per i complici di un crimine secolare? Il ruolo dei pentiti è quello di testimoniare nei tribunali contro la propria parte di un tempo, non quello di porsi come guide credibili per il futuro.
O Veltroni ritiene che l'unico modo di guadagnare credibilità sia ormai quello di chiamarsi fuori del tutto da quella storia, dichiarando di "non essere mai stato comunista"? È un tentativo molto arduo e dalle implicazioni controverse, se non altro perché espungere il comunismo dalla storia del Novecento è praticamente impossibile, per l'intrico di legami, ideali e concreti, che esso ha intrecciato con ogni movimento di libertà, di giustizia e di democrazia (si veda il caso emblematico dell'antifascismo, non a caso al centro di polemiche delegittimanti proprio per la sua contaminazione indissolubile con il comunismo).
Credo peraltro che sia giusto porre l'accento, come Veltroni ha fatto spesso negli ultimi tempi, sulle diversità generazionali nelle motivazioni dell'adesione al Pci. Era molto diverso aderire a quel partito prima o dopo il 1956, ed ancor più dopo il 1968 e la Cecoslovacchia. Significava, nell'ultimo caso, essere del tutto immuni dal mito e dal fascino residuo del modello sovietico, e mantenere nei suoi confronti un atteggiamento di motivata diffidenza. Lasciar credere però di essersi iscritti a quel partito in quanto "non comunisti" e per abbattere Breznev e la sua dittatura è francamente poco credibile, se non altro perché c'erano molte altre organizzazioni, legali e illegali, che offrivano con maggiori garanzie le stesse opportunità.
Quanto al "non essere mai stati comunisti", c'è un curioso equivoco storico che andrebbe sciolto. Chi si è iscritto giovanissimo agli organismi dirigenti del partito comunista dovrebbe sapere che quel partito richiedeva un'adesione al suo programma politico, in piena autonomia da professioni di fede religiosa o filosofica. Cosa significava e cosa significa "comunista" per Veltroni? Sembra di capire che il termine designi coloro che volevano introdurre una rigida dittatura del proletariato e lasciare scorrazzare liberamente i carri armati del patto di Varsavia nelle nostre piazze. Se è così, i "comunisti" erano davvero una piccola minoranza residuale in quel partito.
Chi ha qualche anno più di Veltroni ricorda le prime Tribune politiche televisive, che furono una cosa completamente nuova e che influirono moltissimo nell'educazione politica della nostra generazione. Sentivamo discutere uomini, come Moro, Nenni, Togliatti, Saragat, La Malfa, che oggi possono apparirci dei giganti paragonati al ceto politico attuale. Nelle tribune dedicate al partito comunista era immancabile la domanda sul "modello" di quel partito. Il vostro modello è quello sovietico? La risposta, altrettanto immancabile, era sempre la stessa, da parte di Togliatti, di Longo o di Berlinguer: il nostro modello è la Costituzione repubblicana, niente di più e niente di meno.
Del resto una delle critiche più ricorrenti che nel dibattito culturale e storiografico della sinistra veniva avanzata al Pci, e in particolare al "partito nuovo" di Togliatti, era proprio quella di aver lasciato fin troppo sullo sfondo, come un pallido obiettivo lontano nel tempo, il fine ultimo della società ideale che avrebbe voluto perseguire. L'unico dirigente del Pci che si propose concretamente di introdurre nella struttura sociale del paese alcuni "elementi di socialismo" fu proprio Enrico Berlinguer. Non Togliatti, non Longo: proprio il Berlinguer degli anni Settanta a cui Veltroni si richiama. Era una delle tante "cose coraggiose" che il comunista Berlinguer faceva e che Veltroni rimuove completamente.
Il secondo punto fondamentale da sottolineare è quello relativo alla proposta di una nuova identità, fondata su una nuova e composita tradizione, che il documento contiene. È estremamente significativo l'album di figurine dei personaggi della sinistra "ancora vivi" che hanno attraversato "il ventre del Novecento" per giungere fino a noi. Qui si fanno concretamente conti con la tradizione della sinistra che, attraverso un meccanismo di inclusioni e di esclusioni, portano ad esiti sconcertanti e imprevisti.
Nell'elenco di Veltroni troviamo la permanenza provvisoria di un comunista come Gramsci, forse interpretato come un liberale inconsapevole. C'è l'appropriazione indebita e sconcertante di due cattolici. Quel Dossetti che si batté fino ai suoi ultimi giorni per difendere la Costituzione repubblicana dai tentativi di stravolgimento che il partito di Veltroni assecondava. E quel don Milani che condusse una battaglia coraggiosa, per la quale pagò di persona, in difesa dell'obiezione di coscienza e contro tutte le guerre. Walter Veltroni, il primo dirigente politico italiano che dopo il Duce è riuscito a portare in piazza centomila persone per manifestare a favore di una guerra, confidava ai corrispondenti dell'Unità, uscendo dalla scuola di Barbiana, di aver molto sofferto in viaggio perché un cittadino seduto di fronte a lui in treno sfogliava una rivista di armi. Il disgusto lo costrinse a cambiare di posto. Ma non possiamo escludere che l'ignaro appassionato di armamenti avesse maturato la sua passione durante la mobilitazione per la guerra etica di primavera e che si recasse come Veltroni in Toscana per seguire il vertice dei signori della guerra della sinistra mondiale.
Per il resto, ed è il dato più sorprendente, troviamo nella lista di Veltroni l'intera genealogia del Partito d'Azione. Una tradizione importante della sinistra italiana, ma del tutto esterna alla identità originaria del partito da cui Veltroni proviene. Un partito che deve il suo intatto prestigio alla qualità straordinaria dei suoi uomini, ma anche alla sua repentina scomparsa (che ne ha preservato fascino, mito e rimpianto, sottraendolo alla prosaica esperienza della politica repubblicana), dovuta allo scarso favore degli elettori e alla inconciliabilità delle sue anime (Ernesto Rossi, Riccardo Lombardi, Emilio Lussu erano personalità politicamente inconciliabili). In quella tradizione ricca e composita erano peraltro presenti tensioni assai meno pacificate di come vengono raffigurate. Carlo Rosselli, ad esempio, non era solo l'inventore di una fortunata sigla che accomuna giustizia e libertà e perciò può essere da tutti condivisa, ma era un rivoluzionario internazionalista e classista, che oggi per le sue idee apparirebbe agli occhi di Veltroni, se leggesse gli autori che cita, come un pericoloso sovversivo.
Ma il dato sconcertante è che non ci troviamo di fronte alla trasformazione o all'evoluzione di un'identità - processo di per sé naturale e inevitabile, perché le identità sono sempre dinamiche e soggette a sviluppo - ma all'acquisizione in blocco di una identità altrui. “L'Unità” ha preso del resto a difendere la tradizione azionista da ogni critica con lo stesso metodico e automatico senso di sacralità con cui in passato difendeva la tradizione comunista.
In tutto questo sorprende e addolora l'eliminazione radicale non solo della tradizione comunista, ma anche di quella socialista. In una lista così dettagliata, e carica di nomi francamente superflui, Veltroni non ha la sensibilità neppure di fare i nomi di Giacomo Matteotti e Sandro Pertini, uomini e simboli che abbiamo tutti sentito come nostri.
Molti critici avevano pensato dieci anni fa che il rischio insito nella svolta di Occhetto fosse la "socialdemocratizzazione" del Pci. Un timore che purtroppo si è rivelato infondato. Uso l'avverbio purtroppo perché sono consapevole che la socialdemocrazia è cosa seria e rispettabile, radicalmente difforme rispetto all'approdo genericamente "democratico" a cui si tende. Una nuova identità "nata nell'89", e che nel '99 sembra fondarsi sulla condanna del comunismo e sul vanto per la "guerra etica". Una forza che sembra tendere a una "democrazia senza aggettivi", ignorando che la democrazia senza aggettivi non esiste in natura e che ogni democrazia è connotata storicamente. Un partito che rotti i ponti con la tradizione del movimento operaio si inoltra inevitabilmente nel tunnel del "partito democratico", sollecitando, altrettanto inevitabilmente, il riemergere di un problema di autonomia e di presenza di una forza di sinistra, di massa e radicata nel mondo del lavoro, che la storia italiana sembrava avere risolto in forma definita da oltre un secolo.
Come si risponde a questo? Compilando album di figurine alternativi? Credo che si debba invece uscire del tutto da questo terreno, e si debba rifiutare alla radice tutta la logica delle abiure e delle riabilitazioni. Uscendo del tutto dalle controversie che hanno segnato la riflessione sul passato nella sinistra. Tanto più perché le varie diaspore provocate dall'89 hanno indotto ad assolutizzare "anime" particolari e identità minori, ognuna con la sua storia e la sua elaborazione di memoria. Un processo che contiene l'innegabile ricchezza di una nuova complessità, ma anche tendenze distruttive di ogni possibilità di ricomposizione unitaria. Anche per questo bisognerebbe assumere un atteggiamento integralmente laico nei confronti della storia e tagliare corto con ogni forma di polemica e di rivendicazione basata sul passato. La storia non è un supermercato dove ci si può aggirare con un carrello prendendo le scatole che piacciono e rifiutando quelle nocive alla nostra dieta.
Una nuova sinistra che punti ad un rinnovamento e a un rilancio delle ragioni e del senso della sinistra dovrebbe avere il coraggio di assumere su di sé l'eredità di tutto il movimento operaio italiano. Non questo o quel dirigente del passato, non questo o quel momento di una storia grande e complessa, di cui va rivendicato con orgoglio il ruolo e il contributo insostituibile al cammino del paese. Collegandosi al senso profondo di questa storia, alle aspirazioni e ai sentimenti delle donne e degli uomini che ne hanno costruito e nutrito il percorso storico. E su questa base guardare avanti, senza lasciarsi opprimere dal peso della storia e delle polemiche periodiche che sulla storia vengono innescate.

“La rivista del manifesto” – gennaio 2000

29.6.12

Anni 60. Cardinali e disoccupati, giudici e mafiosi, socialisti e cimiteri (Quaderni Piacentini)

I “Quaderni Piacentini” furono un’esperienza editoriale, culturale e politica per molti versi anticipatrice. La rivista accompagnò il 68 e la contestazione con partecipazione e forse con l’ambizione di dare forma al magma dei movimenti (penso qui a formulazioni, tipiche del milieu dei “piacentini" come la politica ridefinita o la lunga marcia attraverso le istituzioni), ma già da qualche anno si cimentava sui temi della modernizzazione italiana (il cosiddetto “neocapitalismo”). Il punto di vista era di una sinistra intellettuale radicale, che rifiutava l’inserimento organico nei partiti ufficiali del movimento operaio e nelle loro strutture, e  apriva il marxismo alle scienze umane, soprattutto alle sollecitazioni che provenivano dalla cosiddetta “Scuola di Francoforte”.
Segno distintivo della rivista furono alcune rubriche come Libri da leggere e da non leggere, Cronaca italiana, Il franco tiratore (la prima prevalentemente affidata a Goffredo Fofi, le altre con più curatori) che meglio di altre facevano i conti con l’attualità culturale, politica, di costume. Cronaca italiana riprendeva appunto dalla quotidianità fatti e misfatti pubblici o privati, talora riportati senza commento per la loro emblematicità, altre volte commentati brevemente facendo ricorso all’ironia e al sarcasmo.
Qui sotto ho “postato” una parte della rubrica pubblicata nel n.19-20. Si riferisce ad accadimenti di ottobre-novembre 1964, di quasi cinquant’anni fa. Ho l’impressione, leggendo, che per molti versi l'Italia è rimasta (o è tornata) a quei tempi. (S.L.L.)   

Il Cardinale Ernesto Ruffini nel suo studio
CRONACA ITALIANA (ottobre-novembre '64)

Concilio atomico: Il Concilio ecumenico ha discusso il 10 novembre sulla possibilità di una guerra atomica e la posizione da assumere al riguar­do. Nel suo intervento, l'inglese mons. Beck ha affermato di non essere del tutto contrario all'uso di determinati ordigni offerti dal progresso delle scienze. L'insegnamento evangelico del porgere l'altra guancia allo schiaf-feggiatore — ha detto — può essere valido per il singolo uomo, non può èoncepirsi nell'atteggiamento di interi popoli: «La responsabilità della pace appartiene ai capi degli Stati e non è lecito condannare coloro che proprio attraverso l'equilibrio del terrore e l'argomento della paura sono riusciti a conservare la pace».

Il solito Ruffini: Il Cardinal Ruffini, in tema di controllo delle nascite, si è dichiarato favorevole alla regola di S. Agostino secondo cui l'uso da parte dei coniugi di «veleni sterilizzanti» rende la donna meretrice del mari­to e quest'ultimo un adultero della propria moglie.

Dialogo col vescovo: Due preti della diocesi di Firenze, don Lorenzo Milani e don Bruno Borghi, traendo motivo dal licenziamento immotivato del rettore del seminario, avevano inviato a tutti i preti fiorentini e p.c. al­l'arcivescovo Florit una lettera nella quale si sollecitava un «dialogo» tra arcivescovo e preti «almeno sui problemi più gravi» (la lettera è riprodotta per intero su «Questitalia» n. 77-78). «Quanto al "dialogo" — ha risposto l'arcivescovo — penso che sia necessario ricercarne l'ispirazione anzitutto nel colloquio intenso e perenne con Dio...» E ha così concluso: «Per i due sacerdoti, che in questi giorni tanto avventatamente e nella forma più inop­portuna, hanno dato a me, loro vescovo, pubblico motivo di sofferenza e alla comunità diocesana ragione di frattura e di dissenso, chiedo al Signore che non venga meno la loro fede. Tengo a rilevare che essi potranno ottene­re da me, in ogni momento, le lettere di escardinazione e procurarsi così quella libertà e serenità che è da loro richiesta, scegliendosi una diocesi che sia in grado di corrispondere alle loro esigenze. II vescovo non porrà alcun ostacolo alle loro eventuali decisioni».

Motivo immorale: La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso contro una sentenza della Corte d'appello di Lecce che, confermando una condan­na per furto, aveva negato l'attenuante dell'«aver agito per motivi di parti­colare valore morale o sociale» all'accusato che s'era indotto a rubare per procurare i medicinali necessari alla madre inferma. La Suprema Corte ha rilevato che le disagiate condizioni economiche familiari non possono costi­tuire motivi di particolare valore morale o sociale nei reati contro il patri­monio, e che pertanto va esclusa l'applicazione dell'attenuante anche nel caso che il reato sia stato commesso per appagare urgenti bisogni o addirit­tura per l'acquisto di medicinali per familiari infermi.

Avvocato eccitabile: Due commercianti di Palermo, rei di aver esposto nel loro negozio d'abbigliamento due manichini col topless, sono stati con­dannati a Lire diecimila di ammenda per «offesa alla decenza». Perfino uno dei difensori, l'avvocato Bonocore, ha ammesso, riferendosi ai mani­chini incriminati presenti in aula: «Io proprio non mi avvicino ad essi per ovvie ragioni di eccitabilità».

Il giudice è un amico: «Caro Don Vincenzo, io e Tano Vaccaro fummo interrogati dal giudice ieri l'altro. Il giudice è un amico e ci disse che ci aiu­terà tutti. Però ci disse pure che bisogna premere perchè i testimoni d'accu­sa subito ritrattino ciò che ebbero a dire agli sbirri. Capito? Il giudice è bra­vo. È quello che conosce Vincenzo Catanzaro di Marineo» (lettera di Pietro Costantino, noto mafioso, sequestrata nel carcere dell'Ucciardone a Paler­mo). Il giudice, di cui si conosce il nome, continua ad amministrare la giu­stizia.

6 miliardi di errori: Lo Stato italiano spende 6 miliardi all'anno per re­galare libri per le scuole elementari zeppi di errori e stravaganze. Alcuni esempi: «I principali alimenti dell'uomo sono: l'aria, l'acqua e il sale»; «Che cosa adopera l'uomo, invece del cavallo, per superare le lunghe di­stanze e combattere la guerra?»; «Si dicono opere servili i lavori manuali propri degli artigiani e degli operai» (definizione del Beato Pio X); «La maggior parte della popolazione italiana attiva si dedica all'agricoltura»; «L'unità è una delle cose che si contano».

Licenziamenti: I licenziamenti nella provincia di Milano ammontano (nel solo settore metallurgico), a tutto settembre, a 6.925, mentre le ridu­zioni d'orario colpiscono ormai 73.000 operai.

Il contributo socialista: «...La sezione del Partito socialista locale si adopererà perché tutti i cimiteri del comune siano riordinati e i cittadini vi si possano trovare a loro agio» (da un volantino elettorale dei socialisti nenniani di Borgononvo Val Tidone).

Yao Wenyuan, la banda e la sinistra che non c'è più (di Tommaso Di Francesco)


Yao Wenyuan a una riunione durante la Rivoluzione Culturale
Dopo la morte di Yao Wenyuan, l'ultimo protagonista incluso nella «banda dei quattro», resta senza testimoni la rivoluzione culturale, formidabile tentativo di cambiare il mondo. Era questo il sommario dell'articolo con il quale "il manifesto", per la firma di Tommaso Di Francesco commenta la scomparsa del giornalista e dirigente politico scomparso, articolo encomiabile perché rappresenta la volontà di restituire alla memoria una pagina di storia volutamente cancellata in questi ultimi decenni a Est come a Ovest, in Cina come nel resto del mondo. Anche tra i compagni - perfino dopo l'evidente inverarsi delle previsioni dell'ultimo Mao - vi è chi si attarda a considerare la lotta politica in Cina negli anni 1966-69 solo come lotta per il potere. "Ogni lotta - soleva dire Mao giustamente - è lotta per il potere", ma quella che si svolgeva in Cina era soprattutto lotta tra "due linee", "due vie", "due classi". I rivoluzionari maoisti hanno perso, per i rapporti di forze e per i loro errori, ma questo non può induce ad accettare la vulgata del nemico di classe, il suo tentativo di criminalizzare tutti gli oppositori intransigenti del capitalismo. (S.L.L.) 
Il processo alla cosiddetta Banda dei quattro
Con i tradizionali dieci-venti giorni di ritardo da parte delle autorità cinesi e gli immancabili quanto distorti necrologi dei media occidentali, è arrivata in questi giorni la notizia della morte di Yao Wenyuan, la penna della rivoluzione culturale del 1966. Così la «banda dei quattro» non c'è più: dopo il suicidio nel 1991 della vedova di Mao, Jiang Qing, la morte per cancro nel 1992 del «giovane successore», l'operaio di Shanghai Whang Hongwen, e la scomparsa otto mesi fa del teorico Zhang Chunqiao, che era stato di fatto anche segretario del Pcc. Quella che la restaurazione di partito guidata da Deng Xiaoping e la vulgata internazionale hanno chiamato con disprezzo la «banda dei quattro» - tutti prontamente arrestati e finiti in galera per molti anni (dando per inteso che il quinto «bandito», Mao Zedong stesso, era già morto nel 1976) - non ha più un testimone vivo sulla faccia della terra. Se non fosse per il fatto che quest'anno è il quarantennale di quello straordinario movimento, e che la Cina con i suoi nodi irrisolti, compreso l'avvento del suo costoso, diseguale e predatorio iper-capitalismo, è diventato il dilemma principale della crisi internazionale, potremmo tranquillamente disinteressarci della morte dei leader della rivoluzione culturale. Non possiamo invece permettercelo perché in quei nomi, in quelle biografie, è contenuto lo sforzo, fallimentare, di costruire per la Cina e per il mondo un'alternativa di sistema, diversa e contrapposta sia al capitalismo sia al modello socialista dell'allora Urss. Attraverso una rivoluzione «culturale» capace di rimettere in discussione l'esclusiva della politica da parte del partito attraverso la costruzione di luoghi di aggregazione, democrazia e potere diversi dagli apparati precostituiti, nel tentativo di costruire nuove istituzioni valide alla transizione di una società egualitaria per un paese allora di 800 milioni di persone alle prese con un profondo isolamento internazionale e, all'interno, con la necessità di organizzare il lavoro e la ripartizione delle risorse senza alimentare la divisione sociale e senza confermare la miseria esistente - com'era stato nel 1958 per il Grande balzo. Insomma, il contrario della Cina attuale.
Parliamo dunque di Yao Wenyuan e del «raffinato» Zhang, della «perfida» Jiang Qing, del «dissoluto» Wang. Con la convinzione di parlare di cose che ci riguardano: avevano la consapevolezza, rivelatasi ahimè più che veritiera, di agire in una situazione in cui «la sinistra non c'era più».

L'entrata in scena
Tutto comincia con un articolo di Yao Wenyuan. E la sua entrata in scena fu proprio a partire dalla difficile situazione di uscita dal disastro del Grande Balzo (1958-1960), che vide Mao cercare di attivare i settori intellettuali, economici e scientifici della società e del partito e nel 1964 costituendo il Gruppo per la rivoluzione culturale, composto da cinque membri, diretto da Peng Zhen, potente sindaco di Pechino e membro dell'Ufficio politico, e con la partecipazione del fedelissimo di Mao, Kang Sheng.
E qui viene il bello. Perché Mao, che aveva voluto questo «Gruppo dei Cinque» ricordando la sua antica indicazione sulla necessità di «incoraggiare l'espressione, dare libero sfogo alla voce del popolo, in modo che tutti osino parlare, criticare, discutere», decise tra l'altro di selezionare alcune decine di opere letterarie che considerava «negative» perché comunque circolassero nel paese per essere conosciute e criticate: tra queste c'era il dramma storico Le dimissioni di Hai Rui di Wu Han, nel quale un onesto funzionario mandarino della dinastia Ming, nel 1559, dopo avere assunto la difesa degli interessi dei contadini della regione di Suchow e avere chiesto all'imperatore di ascoltare i suoi buoni consigli, non solo non veniva ascoltato ma veniva al contrario destituito e relegato ai margini del potere. Sembrava un testo «storico» apologetico come tanti rivolti alla tradizione mandarina cinese, senonché l'autore e il forte tema allusivo dell'argomento affrontato, fecero deflagrare il confronto. E pare quasi incredibile che da un testo teatrale storico sia potuta nascere per intero la stagione del movimento della Rivoluzione culturale - che non durò dieci anni come è stato erroneamente scritto, ma meno di tre, dal 1966 al 1969.
Chi era Wu Han? Era uno storico non comunista, un «compagno di strada», specializzato in saggi sulle dinastie imperiali, che soprattutto era diventato vicesindaco di Pechino, e dunque era vicinissimo al potente Peng Zhen, responsabile del Gruppo dei Cinque. Wu Han aveva cominciato a scrivere l'opera stimolato in un primo tempo dalle lodi dello stesso Mao per quell'antico personaggio e la sua onestà, ma il Grande Timoniere non aveva esitato a criticare poi alcuni scritti di Wu Han indicandoli come esempio di forte politicità esercitata da chi dichiarava invece di non occuparsi di politica e per di più di non essere comunista. Ma il fatto più importante era un altro. In quel dramma attraverso la figura del protagonista Hai Rui era adombrata - ed era immediatamente leggibile, siamo a metà 1965 - la vicenda dell'epurazione del capo dell'esercito, Peng Dehuai, eroe dell'Armata popolare e della guerra di liberazione, uscito di scena dopo uno scontro con Mao sui principi riorganizzativi dell'esercito che Peng aveva voluto piuttosto simili a quelli dell'esercito sovietico (nel 1965 verranno invece aboliti tutti i gradi superiori, dai marescialli agli ufficiali fino ai generali): lo scontro era per la riconduzione delle forze armate, dopo la guerra di Corea, sotto il comando del partito e comunque contro ogni pericolo «bonapartista». Il dramma di Wu Han appariva, e di fatto era, una critica verso Mao e un sostegno aperto alla riabilitazione di Peng Dehuai.
Così il caso «negativo» venne sottoposto all'ufficiale «Gruppo della Rivoluzione culturale», con grande fastidio del sindaco di Pechino Peng Zhen. Allo stesso tempo Mao incaricò la moglie Jiang Qing di avviare un «secondo rapporto» sul testo teatrale. Il rapporto venne affidato a Yao Wenyuan che nel novembre 1965 attaccò Wu Han sul giornale di Shanghai Wen Huipao. «La grande rivoluzione culturale proletaria cominciò con la critica del compagno Yao Wenyuan alla Destituzione di Hai Rui », scrive lo stesso Mao, ricordando di avere chiesto a Jiang Qing che venisse prima letto da «qualcuno dei compagni dirigenti del Comitato centrale, ma la compagna Jiang Qing disse: l'articolo può essere pubblicato così com'è, non credo ci sia bisogno che lo leggano i compagni Zhou Enlai e Kang Sheng». Quello che sembrava una disputa in redazione sulle correzioni e i refusi di un pezzo diventò subito invece il «casus belli». Perché a quel punto insorse l'ala moderata del partito e il potente Peng Zhen impedì la pubblicazione dell'articolo di Yao a Pechino. E' lo stesso Mao a lamentarsene: «Dopo che l'articolo di Yao Wenyuan fu pubblicato - scrive il Grande Timoniere - la maggior parte dei giornali di tutto il paese lo riprese, tranne a Pechino e nello Hunan. Suggerii che fosse pubblicato in opuscolo ma anche questa proposta incontrò opposizioni e non se ne fece nulla... L'articolo di Yao Wenyuan era il segnale della Grande rivoluzione culturale proletaria».
A quel punto lo scontro non era più sul testo di Wu Han ma, con l'entrata in campo degli altri leader cinesi, da Liu Shaoqi allo stesso defilato Deng Xiaoping, diventò un conflitto aperto sul ruolo del Partito comunista. Il «Gruppo dei Cinque» venne sciolto il 16 maggio 1966. E il primo giugno un dazebao firmato da alcuni studenti, neolaureati e docenti di BeiDa, l'università di Pechino, fu affisso sui muri del campus: non attaccava, com'era già accaduto, le autorità accademiche, ma apertamente e pubblicamente, per la prima volta nella storia della Cina popolare, il comitato di partito dell'università, accusandolo di avere impedito la libera discussione sulla vicenda Wu Han. Era davvero l'inizio. Ad agosto Mao Zedong, dentro Zhongnanhai, sede del Partito comunista, appendeva il suo inequivocabile dazebao: «Bombardate il Quartier generale».

Il comizio a Shanghai
Addio dunque Yao Wenyuan. Era la «penna» del partito, ma certo non un letterato come Mao. Forse un giornalista polemista del tipo «al servizio di...», ma aveva scritto anche l'importante saggio dal titolo La classe operaia deve dirigere tutto, tentando così di imitare il davvero raffinato teorico Zhang Chunqiao, con il quale aveva parlato al comizio che il 5 febbraio 1967 aveva insediato, davanti ad un milione di persone, la Comune di Shanghai. Un'avventura destinata a durare meno di 20 giorni: il 24 febbraio la Comune diventerà infatti «comitato rivoluzionario» e sarà lo stesso Zhang Chunqiao, tornato da un doppio incontro con un preoccupato Mao di fronte alle divisioni che ormai stanno mettendo in discussione l'esistenza del Partito comunista, ad invitare gli operai, i soldati e i contadini comunisti di Shanghai a fare un passo indietro e a non mettere la Comune al posto del Partito.
Addio Yao Wenyuan, di cui è ormai impossibile trovare in Cina - dove non si può parlare di due cose: di Tian An Men `89 e della Rivoluzione culturale - almeno uno dei milioni di opuscoli scritti e pubblicati nel 1966. Chissà se era vero quello che raccontavano di lui - e che i sinologi non hanno certo mai preso sul serio, a ragione? Che abitava nella casa del Grande Timoniere e quindi lo vedeva di continuo. Che avesse sposato la figlia di Mao e Jiang Qing, Li Na. Addirittura (voce circolata a Mosca) che Yao non fosse altri che il figlio di Mao, quell'Anlung che, secondo questa versione, non era stato giustiziato dal Kuomintang nel 1930 ma, avventurosamente sfuggito alla morte, nascosto e allevato da Yao Fengtsu, lo scrittore progressista e non comunista.

“il manifesto” 13 gennaio 2006

Contro le radici. La tradizione è costruzione e scelta (di Roberto Danese)

Riprendo uno stralcio da Tradizione, identità, memoria, un articolo di Roberto Danese, pubblicato su “alfabeta 2” n.18 di aprile 2012, il cuore di una riflessione profonda e convincente sul concetto di “radici”, che diventa un ragionare di natura, cultura e libertà. (S.L.L.)

E’ appena uscito per il Mulino un interessante libretto, subito al centro di un acceso dibattito sulla stampa, di Maurizio Bettini, filologo classico e antropologo del mondo antico, intitolato Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, che sviluppa un articolo apparso qualche anno fa sulla rivista omonima della casa editrice bolognese.
Bettini si occupa del concetto di «radici» culturali, che, secondo alcuni, è fondamentale per stabilire l'identità di un popolo, come potrebbe essere quello padano o quello europeo, sulla base di una tradizione che ne ha conservato alcuni tratti ineludibili, capaci di distinguerlo da altri popoli o altre culture con esso incompatibili. L'esempio più tipico è quello delle fumose radici cristiane, che molte forze politiche volevano inserire nel preambolo della Costituzione Europea, in modo tale da creare un gap incolmabile con altre culture, come, tanto per dirne una a caso, quella islamica.
Il punto nodale di fenomeni come questo è che si dà per certo che la nostra identità collettiva sia costituita da una tradizione a cui facciamo naturalmente capo, nella quale affondano appunto le nostre radici. Questo, secondo Bettini, non è per è nulla scontato, come non è scontata l'immagine metaforica delle «radici» da cui questa o quella comunità fisiologicamente proverrebbero.
In altre parole, bisognerebbe esser quanto meno cauti nel dire con convinzione che la nostra civiltà è cresciuta dalle radici giudaico-cristiane o dalla tradizione classica dei Greci e dei Romani o da altro.
L'idea della tradizione intesa come il fusto di un albero che affonda le proprie radici in una terra particolare e che, tramite queste radici, da questa terra trae identità e nutrimento, quasi come una legge di natura che impedisce di scegliere liberamente i propri riferimenti culturali, in realtà è più un meccanismo simbolico che un dato sostanziale. Si tratta di un'immagine, creata artificialmente molti secoli fa, che, acquistando forza, ha generato la convinzione che «una volta «radicati» in una certa tradizione, scegliere autonomamente la propria identità culturale diventa impossibile» (p. 28). Si crea cosi, tramite una figura retorica, quello che Bettini chiama «dispositivo di autorità», istillando la convinzione che appartenere a una tradizione sia un fatto automatico, frutto di una necessità biologica, piuttosto che di una scelta culturale.
Invece le cose non stanno così. Immagini come quella botanica delle «radici» o quella della «discendenza» da culture condizionanti che stanno sopra la nostra e che quindi sono ineluttabilmente più importanti, sono in realtà solo immagini, forti quanto si vuole, ma immagini. Basta «smarcarsi» un po' da esse per avere uno sguardo assai più lucido su quello che è la tradizione e su cosa sia veramente lo sviluppo storico di una cultura. I fermi richiami alla tradizione dell’antichità classica, del Cristianesimo delle origini si possono rivelare assai più fragili di quanto non si creda. Già i Greci - come dimostra Bettini — sapevano bene che nel corso dei secoli la loro civiltà non è cresciuta dritta e imponente come il tronco di una quercia, ma avevano piena consapevolezza che c'erano stati mutamenti e contaminazioni culturali in grado di creare, nel corso della loro storia, più tradizioni, una diversa dall'altra.
Abbiamo usato non a caso il verbo «creare», perché le tradizioni non ci sono per natura, ma le si creano, selezionando e insegnando alle generazioni future i valori e i disvalori che più interessano. Quindi anche la tradizione, come la metafora delle «radici» che la rappresenta, è una pura costruzione, volta a «identificare» fortemente un gruppo sociale, dotandolo di riferimenti culturali univoci che quasi mai corrispondono alla sua natura, ma che invece «definiscono» la purezza della sua lignee, come uno schermo protettivo contro pericolose contaminazioni con culture diverse, quasi sempre considerate inferiori.
Tito Livio sapeva bene invece che la grandezza di Roma era nata, sin dagli albori della sua storia, dalla commistione di più culture e di più genti, da un meticciato diffuso che aveva permesso di sviluppare la magnitudo roboris dell'Urbe. E forse anche noi dovremmo abituarci a non aver paura del meticciato, visto che viviamo una globalizzazione in cui tutto si mescola e si confonde: è giusto riconoscere e conservare gli elementi caratterizzanti trasmessi «verticalmente» nel corso della storia attraverso la creazione di tradizioni, ma bisogna anche valorizzare e considerare gli apporti «orizzontali» di civiltà e culture diverse che confluiscono nella nostra cultura, come gli affluenti di un grande fiume, conferendole quella costante mutevolezza e quella instabilità che sono l'unica vera garanzia di vitalità e progresso per un popolo. Anche un argomento che Bettini non tratta, come l'immetodica e strenua difesa dei dialetti, che ha portato alla bizzarra proposta di inserirli nei programmi delle nostre scuole, potrebbe rispondere a questa logica. L'idea che un dialetto si possa insegnare in classe, implica la convinzione che esso sia una lingua pura, radicata nella cultura di una comunità, legata alla terra e alla tradizione, ma anche ben definita e codificata, dotata di una grammatica normativa e quindi propinabile agli studenti. Abbiamo grandi dialettologi e storici della lingua italiana che ci possono insegnare come l'idea che esista, ad esempio, un dialetto veneto tout court, unico e puro come una vera e propria lingua di cultura, sia quanto meno peregrina: ci sono decine di dialetti nel Veneto, molto diversi tra loro, vivi solo nel parlato quotidiano e perciò sempre in continuo sviluppo e in continua simbiosi con altri dialetti, con l'italiano, con lingue straniere europee e non. Insomma la legge del meticciato vale anche per la lingua d'uso, che diventa invece «insegnabile» a tavolino quando attorno a essa nasce una secolare tradizione letteraria, che permetta di codificare artificialmente alcuni suoi aspetti, in modo tale da darle una grammatica, delle regole che possono essere scritte. Come faccio a fare una cosa simile col dialetto, mettiamo, di Pieve di Cadore, di Cingoli o di Cutro? Eppure ho visto in edicola grammatiche del dialetto veneto a dispense: anche questo una sorta di fake, una mitologia populista di stampo ideologico, una artefatta «tradizione» linguistica che, come quelle discusse da Bettini, è legata «indissolubilmente all'esistenza della scrittura» (p. 51).
La purezza di una civiltà, il suo legame stretto e imprescindibile con la terra in cui «affonderebbe le sue radici», in grado di dare preminenza rispetto ad altri, sono dunque concetti privi di un vero fondamento antropologico; sono edifìci ideologici inventati per distinguere - spesso sanguinariamente - un popolo dall'altro, negando la dinamica «combinatoria» di cui da sempre le culture vivono. Basti leggere, per convincersene, l'illuminante capitolo Scegliere la tradizione, in cui Bettini, con disarmante chiarezza, ci spiega come è nata la cruentissima lotta in Ruanda fra Hutu e Tutsi, in realtà lo stesso popolo, ma percepiti come etnie diverse solo grazie a una maldestra classificazione ottocentesca fatta dai missionari e dai colonizzatori occidentali, rivelatasi talmente forte e condizionante da convincere i due gruppi di appartenere a tradizioni se non addirittura a razze diverse. Quindi la memoria collettiva e la tradizione che ci fanno inorgoglire di discendere da questo o da quel ceppo etnico in realtà non ci sono, ma ce le siamo costruite, da sempre, per secoli. Sono mitologie che abbiamo trasmesso e insegnato nelle nostre scuole percependole e facendole percepire come storia, come le 'radici' di quello stesso albero di cui noi siamo rami e polloni…

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