30.6.11

Il principe ligure ovvero il "cappon magro" (di Grazia Novellini)

Da un supplemento gastronomico de “il manifesto”, Cestini modello, del dicembre 2006, recupero un articolo di Grazia Novellini (di Slow Food) dal titolo Il principe ligure, che mette a confronto la capponalda con il cappon magro, due preparazioni della Liguria cui attribuisce la medesima origine.
La capponalda  (o capponadda o capponada o capponata) ha già trovato posto in questo blog:
http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/06/la-capponata-ligure-da-la-cucina-povera.html .
Spiegavo lì come la caponata siciliana, che ha probabilmente lo stesso etimo e la stessa origine marinaresca, sia piatto più ricco, baroccheggiante.
Lo è ancora di più questo cappon magro, che la Novellini considera principe della cucina ligure e di cui fornisce una ricetta. Io vi ho aggiunto l’immagine di un esemplare di cappon magro dal sito “Il pranzo di Babette” (http://www.ilpranzodibabette.com/ ), la cui variante è ancora più elaborata. (S.L.L.)
Due piatti tipici della Liguria rappresentano l’uno la forma “primitiva”, o quasi, e l’altro la rielaborazione sontuosa di abitudini alimentari radicate in una terra costiera a spiccata vocazione vegetariana, perché stretta tra montagne povere e un mare spesso ingeneroso e difficile.
Accomuna le due preparazioni – e forse anche la caponata siciliana, un misto di verdure fritte condite con salsa agrodolce – l’etimo, incerto ma frequentemente connesso a termini marinareschi. Premesso che capón (cappone) nel gergo di matrice catalana è il serrabozze dell’ancora, va detto che in spagnolo, ma anche in vari dialetti italiani, l’espressione capón de galera indica la galletta ammollata in acqua e aceto che era cibo quotidiano sulle navi a remi: termine ironico e allusivo, nato in contrapposizione al vagheggiato cappone delle mense aristocratiche. Capponalda e cappon magro sarebbero quindi imparentati con il rancio dei gallioti, i rematori delle galee che pasteggiavano con pane biscottato imbevuto di aceto e condito al più con un intingolo di olio, fave, castagne e baccalà, oppure con fettine di mosciame (carne essiccata di delfino, oggi di tonno) e qualche ortaggio.
Se la capponalda ne costituisce la variante “povera”, il cappon magro troneggia sulle tavole liguri, a Natale e in tutte le occasioni importanti, come raro simbolo di opulenza: da umile che era si è sorprendentemente evoluto, affinato e arricchito fino ad acquisire un’arditezza quasi barocca. Il piatto si offre alla vista con un’audace architettura, giocata sull’alternanza policroma di strati di pesce lessato e di verdure bollite.
Questa impalcatura, disposta a piramide e legata da una salsa verde che si inserisce perfettamente fra i diversi strati, è dominata dall’alto dagli ingredienti più sfarzosi, quali l’aragosta e gli spiedini di gamberi, e circondata all’intorno da una guarnizione di ostriche e altri frutti di mare. Una gioia per gli occhi prima che una festa per il palato.
Ecco la ricetta del cappon magro come lo preparano le cuoche del ristorante dâ Casetta di Borgio Verezzi (Savona).

Ingredienti per 15 persone:
un gabilo (nasello) di circa 3 chili, 2 chili di vongole, 2 chili di gamberi, 3 chili di muscoli (cozze), 3 etti di mosciame di tonno, un chilo di zucchine verdi, mezzo chilo di fagiolini, un chilo di patate, un chilo di scorzonera, un chilo di carote, 6 carciofi teneri, mezzo chilo di sedano, mezzo chilo di barbabietole cotte al forno, 4 etti di gallette del marinaio, mezzo bicchiere di aceto, 4 etti e mezzo di olio di oliva. Per la salsa: mezz’etto di filetti di acciughe sott’olio uno spicchio d’aglio, mezzo chilo di prezzemolo, un etto di pinoli, 2 etti di capperi, un etto di olive snocciolate, 6 uova sode, 2 panini, un bicchiere e mezzo di aceto, 2 etti e mezzo di olio di oliva

Preparazione
Lessate separatamente, secondo il loro diverso tempo di cottura, le verdure intere, il gabilo (anch’esso intero, immerso in un brodo vegetale a base di cipolla, carota, sedano e odori) e i crostacei. A parte, preparate la salsa verde tritando molto finemente e legando insieme con l’olio il prezzemolo, i pinoli, le uova sode, i capperi, le olive, i filetti di acciughe, l’aglio e la mollica dei panini precedentemente ammollata nell’aceto. Tagliate le verdure in pezzi molto piccoli, tranne le patate e le barbabietole che vanno ridotte in fette sottili. Mescolate il tutto in modo da renderlo omogeneo.
Spinate e diliscate il gabilo e tagliatelo a pezzetti; sgusciate i gamberi, le vongole e i muscoli e mescolate l’insieme. Bagnate leggermente le gallette in un bicchiere dove avrete mescolato in parti eguali acqua e aceto.
In un piatto di portata che abbia un bordo di almeno due centimetri, cominciate quindi a “costruire” il cappon magro, disponendo uno sull’altro i vari ingredienti a strati, sempre intervallati da un velo sottile di salsa. Iniziate con le gallette, disponete poi le patate, il mosciame tagliato in fettine sottili, le barbabietole e due strati alternati di pesce e verdure. Ricoprite in superficie e ai lati con altra salsa verde e servite in tavola. 

Il tenente Colombo. La maieutica della colpa (di Nefeli Misuraca)

In “il manifesto blog” la sezione Poltergeist - Il piccolo grande schermo americano, curata da Nefeli Misuraca, fornisce una lettura assai acuta del tenente Colombo, non investigatore ma analista maieutico, eccitatore del senso di colpa. A me pare tuttavia fuori bersaglio il considerarlo un non-personaggio. Colombo ha in realtà dei tratti inconfondibili: la tigna, l’onestà, l’indipendenza, la mancanza di qualsiasi complesso verso i ricchi e i potenti; e poi la sbadataggine, l’umanità, la logica stringente e un vecchio impermeabile; un cane (dog) che si chiama Cane (Dog); una moglie che non si vede mai ma è sempre presente. Per un personaggio basta e avanza. (S.L.L.)
Il tenente Colombo è riuscito a costruirsi una nicchia d’eternità nella storia della crime story pur non essendo veramente un personaggio. L’investigatore stropicciato ha attraversato vent’anni di televisione senza mai dare alcuna informazione su di sé – quando gli chiedono quale sia il suo nome, risponde: “tenente” – citando spesso una moglie che nessuno ha mai visto e dichiarando di essere appassionato di ciò che appassiona i criminali con cui ha a che fare. Perché il tenente Colombo non è un investigatore: lui sa già fin dall’inizio chi ha commesso il delitto e il suo ruolo è quello del demone socratico che induce il colpevole a confessare. Nella linea dei detective nati dagli scrittori del XIX secolo, Colombo rientra certamente nella categoria dostojevskiana creata dall’ispettore Porfirij, che indaga sugli omicidi commessi da Raskolnikov in Delitto e castigo. Porfirij, cioè “rosso” in lingua russa, è l’alter ego di Raskolnikov, il cui nome, Rodiòn, significa anche rosso. Nel romanzo Raskolnikov è convinto che Porfirij sappia che è stato lui a uccidere le due vecchie e l’insistente presenza del poliziotto nella sua vita è il motivo principale per cui, alla fine, il protagonista confessa.
Colombo assilla gli assassini in modo simile, intromettendosi sempre come una fastidiosa, incancellabile coscienza che, senza far altro che essere presente, chiude sempre i casi con una confessione. In questo senso il tenente non è il classico investigatore a cui siamo abituati perché non ci sono misteri – nemmeno per lo spettatore che sa tutto fin dall’inizio – e le puntate hanno il fascino di un test psicologico che rivela, infallibilmente, la potenza del senso di colpa. Questa funzione maieutica del detective meno detective della storia riporta la figura del garante della giustizia a quella del controllore delle coscienze, al ruolo socratico della guida che stringe sempre anche i più cinici criminali a riconoscere la potenza della legge morale dentro di noi.
Posizionato a metà tra Socrate e Kant, Colombo ha segnato la storia della televisione complicando l’ovvietà del suo ruolo sociale ed eludendo le necessità del suo ruolo narrativo: è uno schiaffo all’ipercorrettismo della generazione CSI, della fiducia nella scienza e nella tecnica; il tenente ritardatario e ripetitivo non ha bisogno di scoprire ciò che, proprio perché è avvenuto, si pone come esistente.
Peter Falk è morto ma Colombo, non essendo mai stato veramente vivo, nemmeno come personaggio, resterà come metafora eterna dell’incancellabilità della macchia, e se si polemizza molto oggi sui rischi offerti dalle serie come Law & Order e CSI, perché sembrano indicare con precisione cosa fare e cosa non fare per ottenere il delitto perfetto, agli occhi di una figura come Colombo il delitto perfetto non può esistere, perché ogni atto compiuto diventa immediatamente e incancellabilmente evidente.

29.6.11

Periodi ipotetici. La lingua della presidente Marini ("micropolis" giugno 2011)

Proponiamo un esperimento. Si legga l’intervista che la Presidente della regione Catiuscia Marini ha rilasciato l’11 giugno a Lucia Baroncini per il “Corriere dell’Umbria” con il massimo di attenzione e curiosità. Ci si distragga poi per un paio di minuti. Si cerchi infine nella mente quel che è rimasto del suo dire. Pochi ricorderanno qualcosa, il più sarà scivolato via, come l’acqua sul marmo. Il fenomeno ha una precisa ragione. La presidente discorre di tutto (imprese, lavoro, sanità, enti, dirigenti, rifiuti, risultati elettorali, questione morale), ma non dice niente; sistematicamente evita o delega ad altri le questioni politicamente più spinose, ricorre ripetutamente al luogo comune, elenca le buone intenzioni, si sforza di essere rassicurante. Ma il suo dire, bilancio di una amministrazione molto ordinaria in tempi straordinari, appare sfasato rispetto alla realtà, alla crisi che non cessa, al lavoro che viene meno e peggiora, a una rete di servizi che non ce la fa, a uno scollamento sempre maggiore della politica dalle persone in carne ed ossa. 
Una guida politica adeguata direbbe senza mezzi termini che il declino è più di un rischio, che riguarda l’intera economia regionale, a cominciare da quel ciclo delle costruzioni che ne è stato in un recente passato, anche per ragioni contingenti, l’effimero punto di forza. Non potrebbe tacere la fragilità dello stesso equilibrio sociale, affidato ad un welfare di cui un tempo si andava orgogliosi ma che di giorno in giorno rivela le sue crepe. Si cimenterebbe, piuttosto, in una precisa proposta di sviluppo, con scelte coraggiose, dolorose se è il caso. Invece problemi e propositi sono enunciati senza entrare nel merito, come titoli senza contenuto.
Questa sagra dell’ovvio rasenta il surreale quando si parla di rifiuti. Dice la presidente: “Se l’Umbria sarà molto brava a velocizzare la raccolta differenziata, secondo gli obiettivi fissati dalla Regione, in forte sinergia con i Comuni, forse alcune scelte sul completamento del ciclo dei rifiuti potremmo farle con più tranquillità, anche pensando a diverse soluzioni tecnologiche che oggi la ricerca industriale mette in campo e che non necessariamente sono esclusivamente quelle della termovalorizzazione”. Tradotto dalla strana lingua in cui Marini parla potrebbe voler dire: “Se la differenziata va bene, potrebbe non farsi il termovalorizzatore”. Ma non andrebbe bene lo stesso: così può parlare l’uomo della strada, un presidente della Regione non usa periodi ipotetici.

"micropolis" giugno 2011. Editorialino di prima pagina

L'abiura (da "micropolis" giugno 2011)

L’abiura
Più di un testo della letteratura cristiana antica fa menzione dei lapsi e uno dei Padri della Chiesa, san Cipriano, vescovo di Cartagine e martire, dedica al tema un intero libretto. Lapsi (letteralmente “coloro che sono scivolati”) erano per le chiese cristiane dei primi secoli quei cristiani che per scampare alla persecuzione avevano sacrificato all’imperatore divinizzato o avevano comprato da un funzionario corrotto l’attestazione dell’avvenuto sacrificio, abiurando così la fede in Cristo. Passata la tempesta, i lapsi chiedevano di essere riammessi nella comunità. Cipriano propendeva per una riammissione condizionata, ma non mancavano i rigoristi, fautori del “mai e poi mai”. La cosa si intende facilmente: una fede fondata sull’immortalità dell’anima può esigere dagli adepti una testimonianza che sprezza la morte del corpo (“martirio” significa appunto “testimonianza”). Anche il comunismo novecentesco fu fede per cui vivere e morire (e lo stalinismo ne accentuò i tratti di religione popolare), ma non aveva l’orizzonte della trascendenza. Pertanto, in tempo di persecuzione, il militante comunista non cercava il martirio esemplare, ma la vita e la libertà, anche al costo di un’ipocrita abiura, autorizzata dal partito-chiesa a meno che non si trattasse di dirigenti di primo piano.
E’ dunque fuori luogo il clamore con cui l’estrema destra ternana (il piccolo gruppo di ammiratori del nazi-fascismo e di Evola raccolti intorno alla “Voce della fogna” e al Centro Studi Nadir) ha diffuso la copia dell’atto di sottomissione di un militante comunista. E’ firmato nel 1939 dal barbiere Bruno Zenoni, che nella Resistenza e nel dopoguerra avrebbe avuto un importante ruolo, e diretto al Duce, al fine di ottenere una rapida scarcerazione. In verità i “fognanti” scoprono l’acqua calda: il documento non era ignoto agli studiosi e di simili se ne trovano a decine; ma per loro va bene tutto, purché sia utile alla causa revisionista e negazionista.
Un po’ più sorprendente è lo spazio che alla non-notizia dedica il giornalino di Colaiacovo. L’articolista, tal Arnaldo Casali, cita come se fossero storici insigni i propagandisti dell’estrema destra Cappellari e Petrelli e si finge scandalizzato per la messa in scena di Zenoni. Con malevolenza l’articolo è impaginato insieme alla notizia un po’ sbrigativa delle celebrazioni della Liberazione di Terni, avvenuta tra il 13 e il 14 giugno del 44.
Sul “giornalino” del 16 lo stesso Casali, con impudenza impareggiabile, esalta il “vero eroe dell’antifascismo”, il vescovo Bonomini, che “mentre i partigiani della celebratissima brigata Gramsci se ne stavano nascosti in montagna e organizzavano efferati delitti anche ai danni di innocenti, seminando il terrore, … condivideva la sorte di chi era rimasto in città”. Casali dà per indiscutibili le illazioni e invenzioni di Marcellini sugli “efferati delitti” (da cui i partigiani vennero tutti assolti), seguendo la massima  goebbelsiana per cui una menzogna ossessivamente ripetuta diventa verità; comico è poi il confronto tra i partigiani, che in montagna non erano andati certo a villeggiare ed erano oggetto di rastrellamenti e rappresaglie, e l’eroico prelato che stava in vescovato “a mediare con i tedeschi”.
Dicono che il Casali abbia agganci in Curia, che l’elogio di Bonomini sia estensibile ai successori e che i suoi spropositi filofascisti siano in qualche modo legati ai ricorrenti tentativi del vescovo attuale di delegittimare la sinistra che governa la città per meglio mettere le mani in pasta. Forse non è fuori luogo il richiamo di Cipriano, proprio dal De lapsis, che denuncia quei vescovi che “spregiando la missione divina, diventano procuratori e amministratori di patrimoni e beni mondani”.  

Diritti. La lingua dei segni e il Parlamento dei sordi (Silvia Bencivelli)

Silvia Bencivelli, che - con il gruppo di giornalisti www.effecinque.org - collabora con “Alias”, il magazine del sabato del “manifesto”, ha curato nel numero del 18 giugno 2011 una doppia pagina dedicata ai sordi e alla loro battaglia perché sia riconosciuta, anche in Italia come in molti altri paesi, la lingua dei segni. Contiene un articolo che dà conto delle rivendicazioni dei non udenti e dell’ottuso dibattito parlamentare corredato dall’intervista a una psicologa della lingua, udente, che spiega di che cosa si tratti con competenza e chiarezza.
Mi è sembrata una bella pagina di giornalismo, anche per la capacità di rispondere in anticipo a curiosità e ad obiezioni del lettore comune. Ho ripreso le immagini dal sito http://www.lissubito.com/ , ove si possono trovare notizie fresche su questa battaglia di civiltà. (S.L.L.)
Ma come dobbiamo dirlo
di Silvia Bencivelli
C’è tutto. Campanacci, sirene, fischietti. Striscioni e magliette con le scritte. Bambini che giocano per terra e altri che sorridono, ti danno un volantino e corrono via. Una piccola piccola sulle spalle del papà che si guarda intorno imbronciata e uno con la faccia colorata che si intrufola tra le gambe degli adulti. Tanti ragazzi, gruppi di vecchietti, una tipa con le maniche arrotolate, la sigaretta in bocca e lo sguardo incazzato. C’è tutto, come in tutte le manifestazioni che si rispettino, e soprattutto c’è un gran fracasso. Ma non si sente un grido. Perché gli slogan, i sordi, li urlano con le mani.
Li trovi davanti a Montecitorio o nel traffico del centro di Roma, direzione piazza Navona, oppure, a gruppi più piccoli, sotto alle prefetture di mezza Italia. Stanno protestando fragorosamente perché vogliono che la lingua dei segni italiana (o Lis) sia riconosciuta anche dalla politica, visto che la scienza lo ha fatto già 30 anni fa. Perché c’è un disegno di legge che dal 2009 è in discussione in Parlamento e, proprio adesso che sembrava essere arrivato il momento della sua approvazione
definitiva, alla Camera qualcuno lo ha bloccato. Sembra un po’ la storia della legge contro l’omofobia. Anche qui c’è una minoranza tutt’altro che silenziosa che cerca di farsi ascoltare e soprattutto di farsi rispettare, e anche qui c’è un muro di ignoranza e paura che impedisce al nostro Paese di comportarsi come tutti gli altri.
«Il fatto che noi segniamo, che parliamo con le mani, non toglie niente a voi udenti mentre a noi dà
un’opportunità in più», spiega, a parole, Violante Nonno, che è sorda da quando è bambina e tre anni fa ha deciso di cominciare a studiare la Lis. Nel frattempo, ha frequentato le scuole pubbliche ordinarie, si è laureata in Conservazione dei beni culturali e oggi fa la guida ai Musei Vaticani. «Con il metodo orale io sono entrata nel mondo degli udenti, ma loro non sono mai entrati nel mio. Imparare la Lis perciò è stata per me una grande ricchezza, perché mi ha finalmente permesso di conoscere un mondo che ha la mia sensibilità e che è davvero mio».
È ovvio che c’è bisogno di una lingua per tutto questo: «Noi segniamo da sempre ed è così che parliamo», incalza Valentina Foa, che fa la psicologa e segna con un certo trasporto, mentre un interprete trasforma quei gesti in parole per le nostre orecchie. «Abbiamo una grammatica, una sintassi: non siamo mimi. Mentre parlo con le mani, dentro di me sento che sto usando una lingua per comunicare con te». E funziona, sì. «Noi parliamo anche l’italiano, lo scriviamo, lo leggiamo e non vogliamo impedire a nessuno di usare un approccio oralista coi bambini sordi». Sono intere comunità, famiglie intere, gruppi di amici che segnano e così chiacchierano, dialogano, ridono, si emozionano e organizzano manifestazioni sotto a Montecitorio. È ovvio che c’è bisogno di una lingua. «Ed è per questo che vogliamo essere riconosciuti come bilingui».
Però: se è ovvio che c’è bisogno di una lingua, è un po’ meno ovvio che ci sia bisogno di una legge per definirla tale. La risposta di Daniele Chiri, che insieme a Valentina Foa fa parte del movimento «Lis subito», è provocatoria, quasi paradossale: «Prova a pensare se ti dicessero che da oggi l’italiano non è più una lingua. Che non si può parlare agli sportelli pubblici, in ospedale, a scuola. Che non esiste proprio. Riesci a immaginartelo? Siamo settantamila sordi segnanti solo in Italia: che cosa parliamo, se non una lingua?». Per questo oggi, ieri, e se serve anche domani scendono in piazza coi loro campanacci. Poi i campanacci per suonarli basta sbatterli e ai sordi il loro suono non dà nessun fastidio: «facciamo tutto questo rumore per voi, perché sennò voi non ci ascoltate. È il nostro modo di urlare. E adesso stiamo urlando per farci sentire dai parlamentari: sono loro i veri sordi, sono loro che non vogliono sentire».
A marzo il disegno di legge è stato approvato dal Senato, in commissione Affari costituzionali, all’unanimità. Poi è arrivato alla Camera, in commissione Affari sociali e lì si è fermato. Sembra un po’ la storia della legge antiomofobia, dicevamo, e infatti anche qui c’è l’onorevole Binetti che si alza e dice: non ho niente contro i sordi, ma sarebbe bene che imparassero a parlare con la bocca come facciamo noi. Non solo: quella non è una lingua, ma è un linguaggio gestuale, al più una tecnica comunicativa, e non va incoraggiata. A seguire, una levata di scudi bipartisan, a difendere la lingua parlata dal gravissimo rischio che i segni la possano mettere in pericolo: parlamentari di destra e di sinistra (tutti udenti) uniti nel dire che il fatto che la scienza dica che la Lis è una vera
lingua è irrilevante. Nel nostro Paese i sordi si devono adeguare.
Ma qual è il problema? Perché questo accanimento? Nel caso dell’omofobia, con un certo sforzo di
fantasia, si può capire quale sia il problema di chi rifiuta la legge: l’omofobia stessa, per cui è bene
che l’omosessualità non si veda, non si senta, che non esista proprio. Ma nel caso della lingua dei segni perché c’è questa chiusura? «Qualcuno teme che la Lis possa uccidere la parola, perché se segni troppo, pensano, poi va a finire che non parli – spiega Daniele Chiri - Ma guarda l’interpete che sta segnando con me per poi parlare con te: ti sembra che i segni gli impediscano di parlare? E dimmi, tu che lo senti: sta parlando italiano o sbaglio? Sono barriere mentali, perché questi pensano che una lingua debba passare necessariamente attraverso il canale acustico – vocale e che non possa essere visiva: non accettano le diversità, non riescono ad allontanarsi da quello che considerano normale». Mentre la lingua può passare anche dagli occhi e riconoscerlo, per i sordi, significa accettare pienamente anche la loro cittadinanza, oltre che garantire diritti che fino ad oggi sono parzialmente negati come quello di avere interpreti nei luoghi pubblici.
C’è però chi dice (e tra loro anche alcuni sordi educati solo con l’approccio oralista) che la lingua dei segni crei un ghetto, che isoli i sordi dal resto della società. E in effetti, a guardarli riuniti in un rumoroso sit-in in cui chi non agita campanacci muove le mani per parlare, si può capire che qualche udente possa essere assalito dalla sensazione di essere escluso.
«Ma no, al contrario: nessun ghetto – rassicura Violante Nonno – attraverso il riconoscimento della Lis ci sarà più integrazione, ci saranno più servizi per i sordi e i sordi parteciperanno di più anche al vostro mondo. Così avranno più visibilità e a voi piano piano passerà la paura. Uno spettacolo come questo, un assembramento di sordi segnanti, diventerà normale ». Proprio come per l’omofobia: deve essere che alle minoranze si rimprovera d’ufficio la creazione di propri ghetti, anziché pensare a includerle e a renderle parte normale del paesaggio. «Chiediamo di poter vivere senza dover rinunciare a niente. Non chiediamo altro. Non siamo preoccupati di perdere la nostra lingua: i sordi la usano da secoli e noi continueremo a parlarla anche senza riconoscimento di legge.
Chiediamo solo che ci venga riconosciuta la Lis come lingua, perché solo così possiamo essere riconosciuti come cittadini italiani che comunicano anche in quella lingua», chiosa Valentina Foa. In effetti, a guardar bene, si scopre che molti degli altri Paesi europei ed extraeuropei riconoscono ciascuno la propria lingua dei segni (già: non esiste una lingua dei segni universale, come per le lingue parlate ogni comunità ha la sua), in ottemperanza a due risoluzioni del Parlamento europeo che risalgono al 1988 e al 1998. Ed esiste una convenzione delle Nazioni Unite del 2007, ratificata anche dall’Italia nel 2009, che prevede che gli Stati sostengano le proprie lingue dei segni.
Siamo l’unico Paese al mondo in cui si scende in piazza per difendere una lingua. Per questo ai sordi di casa nostra sta arrivando la solidarietà delle comunità di sordi di mezzo mondo. Intanto qui, questa piccola minoranza rumorosa, agita i suoi campanacci, alza le mani e chiede di parlare.

L’INTERVISTA
Parlare di tutto con le mani
di S.B.
Diciamoci la verità: è bella da vedere la lingua dei segni. A volte è quasi buffa, con la sua esasperazione delle espressioni facciali. Ma a chi ci sente bene e parla solo con la bocca fa strano pensare che coi segni si riesca davvero a dire tutto quello che si vuole. Strano.
«D’accordo, è vero, la Lis ha un vocabolario più ristretto rispetto all’italiano, ma è ovvio che sia così, dato che si tratta di una minoranza linguistica. Però questo non significa che sia una lingua più povera. Anche perché la ricchezza di una lingua non si misura mica dal numero delle sue parole!». Elena Tomasuolo è psicologa e psicoterapeuta specializzata in sordità, collabora con l’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr di Roma ed è interprete Lis. Con la lingua dei segni,
sostiene, si può dire proprio tutto: «un tempo facevo l’interprete all’università e mi trovavo a tradurre lezioni di filosofia, di matematica, di antropologia... Oggi la uso anche per la psicoterapia: non so se mi spiego!».
Ma perché dite che è una lingua? Che cos’è che la rende tale?
La definizione di Ferdinand de Saussure, il fondatore della linguistica moderna, dice che la lingua è il potenziale innato dell’uomo di produrre il linguaggio e non dice che deve avvenire necessariamente attraversi il canale acustico – vocale. La Lis per noi è una lingua che semplicemente viaggia attraverso il canale visivo–gestuale, che nelle persone sorde è integro.
Come è nata la lingua dei segni?
Le lingue dei segni sono nate spontaneamente nelle varie comunità di sordi sparsi nel mondo, come le lingue vocali sono nate spontaneamente proprio per il bisogno innato dell’uomo di comunicare. Nessuno si è seduto al tavolino e si è inventato le lingue dei segni, come nessuno si è seduto al tavolino e si è inventato le lingue vocali. I ricercatori di tutto il mondo non hanno fatto altro che studiare le lingue dei segni che però già esistevano.
Ma attenzione: la Lis è una lingua a sé ed è indipendente, non è una traduzione gestuale dell’Italiano. Come tantissime altre lingue vocali al mondo, non ha una forma scritta cioè è una lingua solo orale. Le persone sorde quindi sono bilingui: conoscono sia la Lis che l’italiano e, quando scrivono, usano la lingua nazionale scritta d’appartenenza, nel nostro caso l’italiano.
Anche nella Lis, come nelle lingue parlate, esistono accenti o varianti locali?
Certo. È una lingua a tutti gli effetti per cui da città a città ci possono essere alcune varianti. Se vedo una persona segnare, posso anche dirti da qualche regione proviene. Ma come per la lingua parlata, nonostante le varianti, i segnanti italiani poi parlano tutti la Lis e si capiscono benissimo anche se vengono da città diverse, come un piemontese capisce un siciliano.
Come si insegna e come si impara la Lis?
I bambini sordi figli di sordi imparano la Lis dai genitori esattamente negli stessi modi e tempi in cui i bambini udenti imparano la lingua vocale. I bambini sordi figli di genitori udenti la imparano dal contatto con altri sordi segnanti. Noi udenti la impariamo facendo un corso e studiando. Ci sono tantissimi libri per imparare la Lis, soprattutto libri di teoria (molti meno di pratica). I nostri docenti di Lis sono sordi, ma insomma: anche quando frequentiamo un corso d’inglese il nostro docente è quasi sempre madrelingua inglese, no?! E come per l’inglese, il modo migliore per impararla davvero è avere tanti amici sordi con cui chiacchierare
in segni.
Negli altri Paesi come funziona? Le altre lingue dei segni sono riconosciute come lingua negli
altri Stati occidentali?
In tantissimi altri Paesi europei e mondiali le lingue dei segni sono riconosciute da diversi anni ed è per questo che il caso dell’Italia ha suscitato nella comunità sorda internazionale moltissimo interesse, tanto da farci avere lettere e messaggi di supporto, sostenute anche da numerose manifestazioni davanti alle tante ambasciate italiane sparse per il mondo.

Romanticismo. Realismo. Illuminismo. Storia e stile in Eric Auerbach.

Di Eric Auerbach, l’autore di Mimesis, una delle opere più fascinose e profonde della critica del Novecento, e il rinnovatore degli studi danteschi attraverso l’interpretazione figurale è uscito un volume di testi sparsi, sicuramente allettante per gli insegnanti, Romanticismo e realismo e altri saggi su Dante, Vico e l’Illuminismo (Edizioni della Normale, pp.XXV-222, € 30,00), che propone, per la prima volta in italiano, saggi e brevi recensioni di Auerbach usciti tra il 1924 e il 1953, a cura di Riccardo Castellana e Christian Rivoletti. Forse la penuria economica mi obbligherà a vincere la tentazione dell’acquisto che mi ha stimolato la bella recensione dal titolo Stile e Storia per ragionare trovata su “Alias” del 18 giugno 2011 e firmata da Mario Mancini. Ne riporto alcuni stralci: vi si citano giudizi e intuizioni che eccitano a riletture e a verifiche, primo fra tutti quello su Stendhal. (S.L.L.)
Eric Auerbach
Questo Romanticismo e realismo di Auerbach… ci consente di entrare nel suo atelier, di assistere alla prima formulazione di alcune decisive categorie – quotidiano, mescolanza degli stili, interpretazione figurale –, di arricchire con nuovi materiali la nostra conoscenza del suo discorso critico…  
Nei primi tre saggi della raccolta – Romanticismo e realismo (1933), Sull’imitazione seria del quotidiano (1937), Il realismo in Europa nel XIX secolo (1942) – troviamo la prima individuazione della categoria di «realismo», come «imitazione seria del quotidiano», come «demolizione della
dottrina antica e classicistica e della sua concezione della dignità umana», come «mescolanza degli stili», che costituiranno, sia pure in modo mobilissino e ricco di nuances, il filo rosso di Mimesis.
Ma c’è anche una prospettiva diversa. Viene messo in luce, soprattutto nel primo saggio, il forte legame sotterraneo tra i grandi scrittori realisti dell’Ottocento e la rivoluzione, stilistica ma anche psicologica e sociale, dello Sturm und Drang e del Romanticismo. Questa «ricerca della realtà autentica del flusso della vita», che si afferma con slancio alla fine del Settecento, accomuna i grandi realisti, Stendhal, Balzac, Flaubert. Diversissimi, certo, nelle particolarità del loro mondo e del loro stile. La cifra di Stendhal: «il disprezzo per la quotidianità che ritrae», «una superiore arguzia e libertà dello spirito, come divin imprévu», «il suo edonismo, la sua inclinazione alla filosofia ideologica». Balzac: «Come la magia demonizza la natura, Balzac svela il demonico nella vita sociale dell’uomo moderno». Flaubert, in contrasto: «Qualsiasi demonizzazione della società è bandita; la vita cessa di ardere e schiumare: scorre lenta e ostinata. Lo scrittore non desume la vera essenza del quotidiano da turbolenti gesti e passioni, bensì da una contingenza dilatata, il cui incedere è quasi impercettibile, ma onnipotente e indefesso, tanto da conferire un’apparenza di relativa stabilità al retroscena politico, economico e sociale dell’insieme, che resta tuttavia oppresso da tensioni intollerabili».
La grande riflessione sul «realismo» coinvolge anche la conferenza Aspetti del pensiero di Dante (1948): «L’aldilà non mostra solo la pervasività e l’ubiquità dell’ordine divino e della gerarchia universale, ma anche la perfezione e la piena autorealizzazione dell’essere umano. Il giudizio di Dio è in ogni caso identico alla piena autorealizzazione dell’individuo da lui giudicato»…
Questi i nodi teorici di rilievo, che si distendono in pagine di finissima analisi stilistica, dove la storia e lo stile sono tutt’uno. Stendhal, come i suoi eroi, è caratterizzato nel segno dell’idealità e del calcolo: «quella particolare commistione di segreta idealità e capacità di entusiasmarsi da una parte e di freddo e diabolico calcolo dall’altra». Flaubert: i personaggi – il discorso riguarda sempre Madame Bovary – «sono privi di un mondo condiviso, che potrebbe sorgere, infatti, solo se in molti trovassero la via d’accesso alla propria autentica, personalissima realtà». In questo mondo non accade nulla, ma quel nulla è pesante, opaco, minaccioso: «è un tempo saturo, schiacciato da un’ottusità senza sbocco».
Le pagine più intense, più tese, più drammatiche sono quelle dei saggi Voltaire e la mentalità borghese (1947) e Montesquieu e l’ideale di libertà (1945). Sono pagine fortemente politiche.
L’idea voltairiana della morale si basa sull’utilitarismo, sul lavoro, sull’interesse. È il trionfo del buon senso borghese, condito di «una rabbia e di un rancore inesauribili». Dobbiamo dimenticare il Voltaire del processo Calas, il combattente pugnace e vittorioso contro gli abusi della giustizia, contro la pratica della tortura, il Voltaire dell’antisuperstizione, dalla verve teatrale, veloce, travolgente, comicamente irresistibile, che affascinava Starobinski e Calvino, il Voltaire delle
nostre letture. Compare qui un Voltaire molto particolare, e molto parziale …: «Voltaire sa bene come disporre la luce al fine di oscurare o illuminare le strade necessarie per ordinare astutamente gli eventi e conseguire il suo obiettivo in modo che ciò non venga percepito dal suo nemico. In questo modo mostra di saper mentire dicendo la verità, ovvero dicendo solo quella parte di verità che risulta più conveniente, e di saper alterare la relazione tra i vari elementi che producono la verità».
La figura di Montesquieu viene vista nel quadro dell’opposizione all’assolutismo e soprattutto dell’elaborazione di una teoria politica che ha come centro, con la separazione dei poteri dello stato, la salvaguardia delle istituzioni democratiche e della libertà dei cittadini. È molto significativo il confronto tra l’idea di sovranità popolare di Rousseau, molto più «radicale» ma suscettibile anche di derive totalitarie, e il costituzionalismo di Montesquieu:«La libertà relativamente limitata che vuole dare agli uomini, intende darla come un bene sicuro e costante e completamente difeso da un forte sistema legale». Auerbach cita parola per parola, con evidente emozione, un famoso passaggio del sesto capitolo dell’undicesimo libro dell’Esprit des lois: «Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati». L’Auerbach che rende omaggio al «genio morale e legale» di Montesquieu è l’uomo che ha visto la crisi della Repubblica di Weimar e l’ascesa al potere di Hitler. E che riflette, insieme a noi – perché anche nel 2011 c’è chi attacca furiosamente i giudici – sulla politica e sulla democrazia.

28.6.11

Martin Eden e Jack London (di Claudio Gorlier)

Il 28 febbraio 2004, “Tuttolibri”, inserto culturale de “La stampa”, nella rubrica I classici pubblica un breve saggio di Claudio Gorlier su un grande libro, Martin Eden, evidenziando l’americanità del romanzo e il rapporto tra scrittura e vita nell’opera del suo autore, Jack London. (S.L.L.)
Jack London
A poco meno di un secolo dalla sua pubblicazione - il 1909 - Martin Eden di Jack London, un libro osannato e stroncato, amato dal pubblico, in certi casi idolatrato, e accettato dai critici dapprima con riluttanza poi con crescente attenzione, resiste come uno dei romanzi di culto del Novecento. Sgombriamo subito il terreno da un'etichetta ricorrente e, tutto sommato, limitativa, quella dell'esplosione autobiografica, di Martin Eden come esemplare canonico di “Bildungsroman”, romanzo di educazione, di iniziazione. Scontato il suo realismo, conviene sottolineare che si colloca in una dimensione simbolica peculiare della letteratura degli Stati Uniti, a cominciare dal cognome del suo protagonista. Martin tenta di conquistare tormentosamente l'Eden, un suo terrestre paradiso, salvo, dopo l'effimero successo, autodistruggersi. S'intende che le analogie tra la travagliata esistenza dell'autore e la vicenda del suo eroe rimangono evidenti; pure, Martin Eden non va inteso quale romanzo confessionale.
Jack Griffith London era nato a San Francisco nel 1876, figlio illegittimo riconosciuto poi dal marito della madre, e il crollo economico dei genitori lo indusse a tentare la fortuna tra i cercatori d'oro dello Yukon: questo l'ambiente del suo primo romanzo di successo, apparso nel 1903, Il richiamo della foresta. Tra i disparati mestieri della giovinezza, comunque, quello sia pur breve del marinaio lo aveva segnato. Martin Eden fu scritto in parte durante un lungo viaggio in nave e terminato addirittura a Tahiti. London era un autodidatta, anche se non privo di studi; avido lettore, frequentatore di biblioteche. Sta qui l'analogia con il suo personaggio, che in realtà parte letteralmente da zero, nutrendosi però del mito americano del successo, il cui modello si identifica nel cosiddetto «darwinismo sociale», la dottrina modellata sulle teorie dell'inglese Herbert Spencer, ispiratore dei vari Carnegie o Rockefeller, e che Mark Twain non mancò di deridere. Non stupisce, dunque, che Martin aspiri a entrare nell'élite medio o alto borghese: questo il suo Eden. Ci riesce grazie al legame con una giovane donna, Ruth Morse, che lo incoraggia a scrivere, e nella quale si e' voluto identificare una donna amata da London, Mabel Applegarth. Ruth lo introduce negli ambienti che Martin sognava, e qui entra in gioco un'altra influenza non indifferente sul giovane London: il pensiero di Nietzsche che, grazie a H.L. Mencken, cominciava a essere per così dire volgarizzato negli Stati Uniti. Così, nella sua effimera ma rapida ascesa, Martin combina l'aspirazione spenceriana al successo e la fascinazione del superuomo. Abituato alle risse sui moli di Oakland, la città sulla baia di San Francisco, al duro lavoro in una lavanderia, quando Martin, dopo qualche iniziale fallimento, si afferma come scrittore, crede di essersi finalmente realizzato. Ma l'ambiente letterario borghese - i salotti - finisce per rivelare tutta la sua paternalistica falsità, la sua intollerabile ipocrisia. L'Eden si presenta come inganno, e qui affiora un altro paradigma caratteristicamente americano, quello dell'innocenza minacciata dal potere. Si trova la radice di uno degli interrogativi di fondo di Martin Eden, del dilemma che lo porterà ad annullarsi: se la conquista della conoscenza non comporti la perdita, appunto, dell'innocenza. La fama, la popolarità internazionale - Parigi, l'Inghilterra - incoronano Martin: «Aveva colto il pubblico di sorpresa, travolgendolo, proprio come Kipling». Naturalmente, il danaro. Ma scatta la crisi, di fronte a un Eden corrotto, avvelenato e, specularmente, si spegne l'amore per Ruth, in un romanzo privo di sessualita'. L'amico poeta Brissenden vorrebbe convertirlo al socialismo ma non ci riesce, del resto lo stesso Brissenden muore suicida. Martin «cade nella tenebra»: si getta in mare e «nell'istante in cui seppe, cessò di sapere». E' l'ultima, memorabile frase del libro. London, per qualche tempo socialista militante, lo seguirà nel 1916, precedendo il poeta Hart Crane, che nel 1932 si gettera' in mare da una nave nel golfo del Messico. L'ideologia non ha cittadinanza nella cultura americana. Il simbolo, sì. Come in Moby Dick, qui è il mare. Borges, che a London dedicò un saggio, opportunamente paragonandolo a Hemingway, osserva che aveva esaurito «fino alla feccia la vita del corpo e quella dello spirito», non soddisfatto da nessuna delle due, e «cercò nella morte il tetro splendore del nulla». Qui London si reinventò come Martin Eden. 

Castagne a Campo dei Fiori (di P.P.Pasolini). Che cos'è il frigone?

Instambul, Ragazzo che vende castagne
Le castagne venivano da Campo dei Fiori e i crisantemi da Primavalle. L’aria era pura ed essi la penetravano coi loro profumi come lame, sotto la scalinata della chiesa, grigia, ruggine, e bianca nel vertice, dove la sfiora il sole. Ma com’era lontana Chieti!
Qui dimenticato, col frigone tra le ginocchia allargate, seduto su una scannellatura della vecchia pietra della chiesa, il viso color oliva o legno sulle braci senza luce, il ragazzino pensava nel suo dialetto alla piccola città distesa al sole tra i fianchi delle montagne. Poi si alzava in piedi per accomodare i soldi dentro la saccoccia, si vedeva che era già alto, per quel suo faccino da burinello, colorito e scialbo come un frutto, fragola o mela; e i vestiti gli andavano corti, coi calzoni poco più su delle caviglie o poco più giù dei ginocchi, e la giacca che lasciava scoperti i buchetti dei calzoni di dietro, con le maniche arcuate ai gomiti e così corte che ne restava nudo un palmo di polso, sopra la lunga mano arrossata. Si chinava sul frigone, alzando la padella con le castagne e rimestando le braci che la gran luce del sabato impallidiva, stingeva e umiliava.
Da Chieti, raccolta nel sole, giù al Campo dei Fiori mattutino, quanto odore di castagne: non ricordava forse, il piccolo venditore, in tutto più di una decina di autunni, ma era così fuso nel loro odore – di castagne e di fuoco – che non se ne distingueva. Dove rimaneva il ragazzo e dove cominciava l’odore dei suoi frutti? Erano uno dentro l’altro, solidi e vivi, una sola creatura.

Postilla
Pier Paolo Pasolini negli anni 50 e nei primi anni scrisse per quotidiani e riviste raccontini, elzeviri e brevi articoli dedicati alla città di Roma dove si era trasferito e che imparava ad amare. Furono poi raccolti nel volume Storie della città di Dio a cura di Walter Siti (Einaudi, 1995).
Alcune di quelle scritture hanno come protagonisti dei ragazzi e intendono esprimerne l’innocenza cercando di indovinare i loro pensieri. Hanno spesso l’andamento della prosa d’arte.
Così ad esempio Castagne e crisantemi, di cui ho ripreso il delicato incipit. L’immagine qui postata, di un piccolo venditore di castagne, è di Davide Cherubini e ripresa dal suo sito ( http://davidecherubini.com/ ). La foto è stata scattata ad Istanbul e in apparenza ha pochi rapporti con il testo di Pasolini. Ma a me ha suscitato una domanda: chissà da quale piccola città distesa al sole proviene il ragazzo che vende castagne nell’antica capitale che chiamarono Nuova Roma e fu anch’essa una città di Dio.
M’è rimasto un altro dubbio. Che cos’è il “frigone”? l’oggetto misterioso che il piccolo venditore di castagne di Pasolini tiene fra le ginocchia? Nei vocabolari di cui dispongo non ho trovato il lemma e che si tratti di un “grande frigo” non mi pare probabile. Aspetto dalla rete qualche risposta. Grazie. (S.L.L.)

27.6.11

Flaubert e la narrativa moderna (di James Wood)

I romanzieri dovrebbero ringraziare Flaubert come i poeti ringraziano la primavera: con lui tutto rinasce. C’è davvero un’epoca pre- e un’epoca post-Flaubert. Fu lui a fissare una volta per tutte ciò che, per la maggior parte dei lettori e degli scrittori, è la narrazione realista moderna, e la sua influenza è quasi troppo familiare per essere visibile. A malapena notiamo, nella buona prosa, che essa caldeggia il dettaglio eloquente e brillante; che privilegia un alto grado di osservazione visiva; che mantiene una compostezza asentimentale e sa indietreggiare, come un bravo valletto, di fronte al commento superfluo; che giudica il bene e il male con neutralità; che cerca la verità, anche a costo di disgustarci; e che le impronte dell’autore su tutto ciò sono, paradossalmente, rintracciabili ma non visibili. Potete trovare l’uno o l’altro di questi caratteri in Defoe o Austen o Balzac, ma in nessuno li troverete tutti fino all’arrivo di Flaubert.

Da James Wood Come funzionano i romanzi. Breve storia delle tecniche narrative per lettori e scrittori pp. 192, e 18). Mondadori, 2010

Paesaggi italiani. Dall'Eden a Gomorra (di Alberto Ziparo)

In una sorta di ricognizione bibliografica su testi recenti, di studiosi di discipline diverse, da Salvatore Settis a Piero Bevilacqua, a Guido Viale, Alberto Ziparo su “il manifesto” del 26 giugno discorre della distruzione ecologica e paesaggistica dell’Italia e anche delle proposte per una inversione di tendenza. Ne riporto qui una buona parte. E’ davvero da leggere. (S.L.L.)
Nel suo recente Il Grande Saccheggio (Laterza 2011, pp. 217, euro 16), Piero Bevilacqua sottolinea come la questione ambientale sia l'aspetto più drammatico della crisi economica - una crisi che distrugge non soltanto le risorse ecopaesaggistiche, ma anche e soprattutto, il tessuto politico-culturale e le soggettività civili e sociali. Per uscirne bisogna «rimettere in valore» il territorio - con un senso, però, che sia lontano tanto dalle marxiane «teorie del valore», quanto dal concetto di «valore di mercato» (spesso più finanziario che economico) con cui oggi si pretenderebbe addirittura di ridefinire (e svendere) anche i beni comuni e culturali come l'ambiente, il territorio, il paesaggio. Parlare di «valorizzazione» significa invece richiamarsi ai dettami del Codice del Paesaggio, («riattribuzione di peso socio-culturale») o a quelli del Programma Territorialista (affermazione dei valori «verticali», intangibili, non spostabili, tipici dei luoghi).

Ecologista per forza
Non dovremmo infatti dimenticare mai che un tempo il territorio non era esclusivamente «fattore di produzione» e che tale è diventato soltanto con le rivoluzioni industriali «moderne». Prima, come ricorda Angelo Turco in Configurazioni della territorialità (Franco Angeli 2010, pp. 336 euro 24), abbiamo «abitato i luoghi», depositando «strati di civiltà» che non degradavano, anzi arricchivano, il paesaggio proprio per le relazioni virtuose tra l'ambiente naturale e gli oggetti che man mano vi trovavano posto. Un tempo, certo, mancava la tecnologia per iperconsumare, offendere l'ambiente. L'uomo era «forzosamente» ecologico ma, acquisita la tecnologia necessaria, si è illuso di «garantirsi la sostenibilità con il progetto», finché il peso degli interessi economici è stato tale da pervadere e modellare l'intero spazio (diceva Walter Benjamin che «il territorio della contemporaneità è disegnato dalla statistica»).
Un futuro possibile (anche economico) richiede dunque il blocco del consumo di suolo, il risanamento ambientale, la riconversione ecologica delle produzioni e un alto tasso di smaterializzazione (innovazione sociale, quanto tecnologica, mobilità sostenibile ed energie rinnovabili, ripresa delle colture tipiche, accorciamento delle filiere, consumi a «chilometro zero»). Di questo tipo è la Green Economy prefigurata da Guido Viale nel suo La conversione ecologica. There is no alternative (NdA Press 2011, pp. 184, euro 10). Una visione di economia ecologica che tratta con le pinze il termine «sviluppo» forse qui più prossimo alla «decrescita» e che comunque è fondato su una ripresa «colturale e culturale» dei contesti.
Molti riferimenti in una direzione simile giungono anche dall'ultimo lavoro di Salvatore Settis, Paesaggio, costituzione, cemento. La lotta per l'ambiente contro il degrado civile (Einaudi 2011, pp. 326, euro 19). Nell'enfatizzare il possibile versante culturale della green economy, molta vulgata politica e mediatica usa ricordare che «l'Italia è il paese che possiede se non il 70, il 60 o forse il 50% dei beni storico-culturali» di tutto il pianeta e quindi «ciò che stiamo distruggendo o degradando», i beni culturali, «devono e possono diventare una voce importante della nostra economia, magari intrecciata a un turismo intelligente». Opportunamente Settis sottolinea la futilità di tali argomentazioni e ricorda piuttosto il senso «costituzionale del nostro paesaggio» («L'Italia è stata il paese al mondo a fornire al paesaggio dignità costituzionale, con l'articolo 9 della Carta»).
Un senso costituzionale che non è solo il riconoscimento culturale di quel Bel Paese, già connotato da un alto valore sociale (l'importanza del paesaggio agrario italiano, descritto da Emilio Sereni, dopo i viaggiatori del Grand Tour), ma che sancisce l'esito di sistemi di regole con cui la comunità nazionale - anche assai prima dell'Unità - tutela il proprio patrimonio culturale e ambientale, e afferma così «il proprio costituirsi come cittadinanza» - proprio con «il rapporto quanto mai stretto tra natura e cultura, la creazione del famoso paesaggio italiano (Hannah Arendt)». La citazione è di Settis, che così prosegue: «Quest'Italia non era immobile, cambiava anzi ogni giorno, ogni ora, piano, con cura. Quei mutamenti anche profondi, ma sempre meditati, furono per secoli il frutto maturo di una mediazione mentale e sociale fra l'eredità del passato e qualche ipotesi per il futuro: ma quali che fossero desideri e progetti, l'ago della bussola era sempre fisso su un saldo senso di familiarità dello spazio vitale».

Monumenti della classicità
Questa continuità è ben sottolineata da Ilaria Agostini, che nel suo Il paesaggio antico (Aion 2009, euro 16) ci offre alcune notevoli descrizioni di diversi contesti del Bel Paese di ieri da parte dei viaggiatori del Grand Tour, tra cui famosi studiosi del Sette-Ottocento. «Richiamati in Italia dalle meraviglie antiche di Roma, dalle recenti scoperte archeologiche vesuviane e dalle ricchezze naturali tiburtine, ma anche dalle mutate condizione geo-politiche, i voyageurs focalizzano l'attenzione sulle curiosità di storia naturale e sulle opere d'arte. Il paesaggio agrario archeologico - come definito da Piero Camporesi - può costituire il fondale, ma talvolta si rivela protagonista della scena fino ad essere letto esso stesso come monumento della classicità».
La studiosa fiorentina descrive le visitazioni di tre contesti ecoagricoli : la Campagna Romana, Tivoli e il Tiburtino, la Campania Felix. Questi ambienti «costituiscono nei decenni tra Sette e Ottocento le tappe fondamentali del Voyage d'Italia (...) e offrono ai protagonisti, nel contesto agrario di ascendenze millenarie, la testimonianza archeologica dell'insediamento classico, lo spirito nel rapporto tra l'idea dell'antico e la longue durée della nostra cultura materiale»; esemplari icone di quella fertile territorializzazione che aveva saputo dare luogo al Bel Paese.

Gli aranci di Chateaubriand
Colpisce pensare che molti dei contesti «cantati» da esponenti notevoli della storia della cultura occidentale, da Montaigne a Cassini, da Madame De Stael a Chateaubriand, da Bornstetten a De Sade, sono oggi cancellati, coperti dalla «blobbizzazione di cemento» che costituisce la versione italica della città diffusa. E lo studio di Ilaria Agostini è tanto più importante perché sottolinea come viaggiatori ed intellettuali coglievano un climax, che significava relazioni virtuose - ancorché costrette - non solo tra ambiente, paesaggio e territorio (non ancora costituitisi come modi, e quindi discipline, differenti, di leggere lo stesso oggetto spaziale), ma tra categorie etiche, estetiche e pragmatiche del sapere pratico, quotidiano.
Quello che oggi è «Gomorra» ieri era l' Eden: «Da Gaeta ci si trova a tutti gli effetti nel Sud. Lasciata Fondi - scriveva Chateaubriand nel 1804 - ho salutato il primo aranceto: questi begli alberi erano pieni di frutti maturi... La strada per Napoli attraversa un jardin continuel: l'aria è così dolce e la campagna, così ricolma di ogni sorta di verdura in tutte le stagioni, è come il paradiso terrestre».
Siamo lontani da quel mare di «cemento e rifiuti» che oggi sommerge tutto questo e che è anche, osserva Piero Bevilacqua, la migliore rappresentazione della distruzione dei tessuti sociali, culturali e civili. Eppure, nonostante tutti questi sfasci - sostiene Bevilacqua - il Bel Paese presenta ancora, oltre al patrimonio culturale, brani di paesaggio di assoluta eccellenza e rilevanza. Ce n'è abbastanza per concordare con Settis: un'altra pietra miliare sulla quale appoggiare quello scenario di società sostenibile, …è la tutela, che significa non solo conservazione del patrimonio, ma capacità di fruirlo, in coerenza con le sue caratteristiche. La nuova centralità di cultura e qualità della vita in uno scenario sociale prossimo futuro costituisce insomma la struttura principale di un programma politico…
È interessante rilevare come i diversi autori che abbiamo fin qui citato, pur provenendo da esperienze scientifiche e culturali affatto diverse, convergano con il Programma Territorialista di Alberto Magnaghi.
Nel progetto territorialista emerge una mente ‘glocale’, capace di declinare le attitudini locali di processi globali. Lo scenario futuro evolve secondo i criteri dello «sviluppo locale autosostenibile». Protesta tuttavia Serge Latouche, affermando che, dopo aver percorso molta strada nella critica al concetto di sviluppo, Magnaghi e i territorialisti cadono anch'essi nella «trappola dello sviluppo locale». Qui conviene mettere a fuoco quella che sembra una sfumatura, ma è un caposaldo del progetto territorialista: nello Sviluppo Locale Autosostenibile il concetto di sviluppo è un pretesto: ciò che deve crescere è il paniere di grandezze rappresentative dei valori che strutturano il luogo, caratteri tipici del contesto, non ripetibili né trasportabili: ecologia, cultura, archeologia, produzioni, colture...
Nel riconoscimento di un nuovo soggetto sociale - riemergente dalla fase liquida - Settis propone «azioni popolari», probabilmente attorno alle crescenti «tracce di nuove comunità» che secondo Zygmunt Bauman si ritrovano «individualmente insieme» attorno alle nuove sensibilità - non solo estetiche, ma di nuovo etiche e pragmatiche - verso il paesaggio (su simili concezioni «strutturali» di estetica si sofferma Paolo D'Angelo in Estetica, Laterza 2011, pp. 234, euro 15).

Tra joie de vivre e politica
Del resto, nella recente riproposizione del suo Progetto Locale (Bollati Boringhieri 2010, pp. 334, euro 19) Alberto Magnaghi ricorda come in questo senso andasse l'esperienza - peraltro non conclusa - della Rete del Nuovo Municipio, che insieme ad altri network di istituzioni e soggettività locali, tentava di risostanziare le politiche istituzionali (non solo urbanistiche e paesaggistiche) attraverso l'incontro tra gestioni municipali «avanzate», ricerca innovativa sul territorio, associazionismi e movimenti di tutela e affermazione del bene comune. Una strada che, probabilmente per i caratteri della fase socio-politica che viviamo, si è rivelata assai - forse troppo - faticosa.
Oggi il gruppo «multidisciplinare» dei territorialisti passa forse «dalla mobilitazione diretta alla promozione dell'apprendimento sociale», come direbbe John Friedmann, proponendosi una fertilizzazione più lenta, di più lungo periodo, ma sempre dal basso, non solo di istituzioni politiche e tecnico-professionali, ma di settori crescenti di «società sensibile», tra cui dovrebbero annoverarsi le figure appartenenti alle moltissime tipologie di «difensori del territorio». Nel manifesto della giovanissima (dicembre 2010) Società dei Territorialisti si legge infatti: «Lo sviluppo della società locale si misura sia mediante la crescita del suo benessere, inteso come joie de vivre, felicità pubblica, buen vivir, sia attraverso la capacità di promuovere partecipazione politica, apertura dialogica verso i valori e le conoscenze degli altri; si misura infine con l'elaborazione di percorsi critici e alternativi...».
Gli aspetti più interessanti di questa «convergenza di specialismi diversi» vanno insomma ben oltre i tentativi di costruire azioni di tutela ambientale e dei beni comuni, per prospettare «orizzonti di futuro», possibile quadro scientifico di riferimento per un arcipelago ormai assai largo di associazioni, gruppi, comitati che, collegati spesso in «reti di reti», intendono predisporre strategie di blocco del degrado verso il ripristino della qualità sociale.

“il manifesto” 2011.06.26

La cucina nell'enclave valdese (di Loris campetti)


Walter Aynard
Non è “il mondo dei vinti” di Nuto Revelli quello che ci racconta il libro La cucina valdese, di Gisella Pizzardi e Walter Eynard, edito da Claudiana. Semmai, come spiega Gianni Genre nella prefazione, è un “mondo sconfitto dal passare del tempo e da ciò che il tempo ha portato con sé: il ‘progresso’, i cambiamenti radicali dello stile di vita introdotti dalla rivoluzione industriale, la globalizzazione del cibo e la omologazione delle abitudini, delle culture, degli approcci alla vita”.
Dove sta la differenza? Sta nel fatto, prosegue Genre, che “vinto è chi non ha più voce per insegnare nulla, chi non merita di essere ripreso in considerazione, chi viene archiviato senza che nessuno se ne accorga. Il mondo evocato in questo libro, invece, parla il linguaggio dell’attualità, dell’ecologia,
dell’attenzione per il creato e le sue leggi. Insegna… il rispetto delle stagioni, delle catene che dovrebbero regolare l’esistenza umana, della terra e dell’acqua, degli animali e delle piante che Dio ci ha messo a disposizione”.
Scusate, ma non dovevate parlare di cucina? E poi, che razza di mondo è quello di cui si sta sproloquiando? Andiamo per ordine, partendo da un concetto che ormai dovrebbe essere acquisito: la cucina è, più che un assemblaggio di ingredienti, una metafora, un grimaldello per aprire la cassaforte della cultura dentro cui sono racchiuse la memoria del passato – le radici – e le tendenze del futuro. In cui s’impastano tradizioni e rotture, identità e meticciato. Ciò detto, questo piccolo mondo antico è l’enclave valdese radicata da secoli in tre valli del torinese difese con le unghie e con i denti da montanari coraggiosi armati di pentoloni di olio bollente rovesciati sui crociati a caccia di scalpi eretici. Valli abbandonate quando diventavano indifendibili, dentro una storia fatta di grandi fughe in Francia e gloriosi rimpatri, fino all’editto del 1848 di Carlo Alberto che riconosce anche ai protestanti di casa nostra la libertà religiosa.
Ristretto di coniglio
La cucina valdese è uno strumento utile per imparare a conoscere uno strano popolo-comunità ricco di cultura, tutt’ora insediato in Val Pellice, Val Chisone e Val Germanasca, di cui si sa pochissimo. Il territorio è situato a un tiro di schioppo dalle Langhe di cui ormai tutti sanno tutto: basterebbe
fare una piccola deviazione, archiviare per un po’ tartufi d’Alba e crema di gianduia, per immergersi in una realtà curiosa, riservata quanto rudemente orgogliosa delle proprie differenze. Ci si troverà immersi in un intreccio inedito di locale e globale, dove il locale ha vizi e virtù della tradizione comunitaria, che però si impasta con altri mondi e culture. Da quasi tre secoli pastori e dotti valdesi inviano le figlie a servizio presso famiglie inglesi “in qualità di governanti”, cosicché
tutt’oggi, a metà pomeriggio, nelle famiglie protestanti si beve il tè, magari accompagnato da gelatine di more e sambuco, di marmellate di lamponi, scodelle di mirtilli. Perciò l’inglese è una lingua nota, mai però come il francese che nelle valli è quasi lingua madre, quasi, perché quassù, tra i bricchi impervi e le montagne terrazzate con muretti a secco per consentire faticose coltivazioni di patate e improbabili orti, vigne d’altura, si parla l’antico patuà. Il tedesco non è un lingua straniera:
gli uomini, spaccatori di pietra – la losa azzurra di Luserna San Giovanni – spesso andavano a lavorare in Svizzera per poi tornare a casa con un carico di silicosi e una moglie di fatture e cucina germanica. Provate a immaginare come questa mescola di lingue possa arricchire la cucina tradizionalmente povera di un popolo montanaro, per quanto colto e aperto al mondo. Il rabarbaro che cresce nell’orto viene cotto e posato su un letto di custard, la cremina inglese importata dalle figlie dei pastori di cui sopra.
Erbe profumate, frutti di bosco, verdure dell’orto, animali da cortile sono gli ingredienti di base della cucina valdese. La raffinatezza del racconto fatto dai due autori, accompagnato da un’ottima ricerca iconografica, sono invece gli ingredienti di La cucina valdese. Le ricette sono antiche, tutte però rivisitate con cura e un pizzico di contaminazione (la difesa dalla globalizzazione che omologa gusti, sapori e abitudini non passa attraverso l’arroccamento stantio nei monti della tradizione).
Gli autori del libro sono i titolari di uno dei più straordinari ristoranti italiani, Flipot di Torre Pellice, sommelier lei e cuoco lui. I cibi di base che propongono nascono poveri e si arricchiscono nel processo di lavorazione lento e accurato (del resto, se avete fretta in cucina e a tavola, non abbiamo altro da dirci).
Ricette non ve ne raccontiamo: con 25 euro le potete consultare da soli. E poi occorre viaggiare per conoscere, perché non è facile trovare altrove trote di torrente come quelle che ancora si nascondono nelle valli valdesi. Valli segnate da fiumi, cascatelle di montagna, laghetti alpini. E tante leggende che danno il nome ai luoghi. Le fate abbondano, da quelle parti, generalmente
hanno buoni sentimenti ma “quelle dei laghi erano fate temibili, poiché attiravano gli uomini sul fondo per godere della loro compagnia”: “A un’ora di strada al di sopra del ridente pianoro del Prà, sulle alture di Bobbio, un bel lago nasconde la sua superficie d’un azzurro profondo ai piedi del Manzol, sul fianco destro della valle. Un pastorello si trovava sulla riva quando scorse, dall’altra parte del lago, una ragazza dalla bellezza raggiante, che lo invitava a raggiungerlo. Stava per farlo, attraverso l’inestricabile dedalo di grosse rocce che circondano il lago, quando, di colpo, la superficie ondeggiante dell’acqua gli apparve liscia come il cristallo e solida come la roccia. Era gelato, e la vergine incantatrice gli faceva segno di avventurarsi con coraggio. Il giovane, impaziente, perdutamente innamorato vi si lanciò: era giunto in mezzo al lago quando il ghiaccio si aprì ed egli scomparve nell’onda scura. Scomparve pure la fata, e scese senza dubbio a introdurlo nella sua umida dimora”. Al lago, “incassato tra grandi pietraie, è rimasto il nome di Mal Counseil, vale a dire ‘cattivo consiglio’”.


Da Cestini d’autore supplemento alimentazione a “il manifesto” dicembre 2006

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