30.11.13

Lolo (di Angelico Prati)

Panorama di Lizzano in Belvedere in Emilia Romagna
Lòlo è detto nella Valsugana il vermicciolo del cacio, della farina, delle frutte, nella montagna pistoiese è così detto il vermicciolo delle castagne e a Lizzano in Belvedere (Appennino bolognese) il baco delle frutte e del cacio, che vi è detto pure nonìn. Lòlo corrisponde all'it. ant. lolo, "nonno", venuto dal lat. avulus, "nonnino".

Postilla
Riprendo questa curiosità lessicale dalle Storie di parole italiane (Feltrinelli, 1960) di Angelico Prati, dialettologo ed etimologista tra i più rigorosi ed insigni del secolo scorso. Lòlo fui chiamato anch'io per qualche tempo. Pare che fosse la semplificazione del mio cognome preferita dagli studenti del Liceo Scientifico di Assisi per indicarmi negli anni in cui vi ho insegnato: spero che contenesse un elemento di simpatia affine a quello che spingeva a chiamare "loli" o "nonnini" certi arzilli vermetti. (S.L.L:

Il Fantozzi di Claudio Giunta

Dal sito Le parole e le cose riprendo l’incipit del saggio di Claudio Giunta Diventare Fantozzi compreso in una raccolta dal titolo Una sterminata domenica, appena uscita per Il Mulino. Giunta riesce a mettere insieme – cosa non molto frequente – acume analitico, sguardo storico, stile brillante: il suo Fantozzi è credibile e divertente. Negli altri undici saggi – a quanto si legge nella nota informativa – è possibile trovare di tutto: da Comunione e Liberazione a Luciano Moggi, da Elio e le Storie Tese a Matteo Renzi. Una buona ragione per procurarsi il libro. (S.L.L.)


Negli ultimi quarant’anni si è certamente potuto ridere di cose più intelligenti (anche se si è spesso riso di cose meno intelligenti), ma se si guarda semplicemente alla quantità, al numero, di niente e di nessuno si è riso più che di Fantozzi.
I residui di queste risate, oltre che ben fermi nella memoria, sono tutti visibili nel linguaggio che adoperano gli italiani nati tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta. Quando Giorgia Meloni (classe 1977) dice in parlamento (29 aprile 2013) che c’è «un leggerissimo problema di copertura finanziaria», quel leggerissimo pronunciato calcando sulla prima sillaba, lég-gerissimo, viene da Fantozzi («ho una leggerissima sudorazione»). Quando Paola Cortellesi (classe 1973) annaspa nello sketch della doppiatrice (Magica Trippy), quell’annaspare – bocca spalancata, palpebre a mezz’asta – viene da Fantozzi. E poi merdaccia, coglionazzo, vadi, venghi, dichi, fogna di Calcutta, puccettone, sudorazione azzerata, mani due spugne, fronte imperlata di sudore, la poltrona in pelle umana, la nuvola da impiegato, il direttore galattico, il megadirettore naturale, il Dir. Gen. Lup. Mann. Gran Farabut: tutto questo lessico della disperazione e del sopruso, il lessico usato e subito da chi sopravvive non solo ai piani bassi dell’organigramma aziendale ma ai piani bassi della vita, è diventato ormai – e stabilmente – lessico famigliare degli italiani, quasi senza distinzioni di ceto, istruzione, provenienza geografica.
Si può infatti trovare detestabile sia il linguaggio sia l’immaginario di Fantozzi, ma non si può non prendere atto della loro efficacia, un’efficacia superiore a quella di qualsiasi romanzo o saggio, e paragonabile soltanto o pochi o pochissimi prodotti della TV o del cinema contemporaneo. La corazzata Potëmkin di Villaggio è proverbiale come i tre anni di militare a Cuneo di Totò, ma è ancora più interclassista e interregionale (Totò, al nord, lo vedono, rivedono e citano a memoria soprattutto gli intellettuali); e ‘fantozziano’, ‘fare come Fantozzi’, sono diventate espressioni d’uso comune non in quanto designano uno stile o un modo di vedere il mondo (e insomma non merce per intellettuali come ‘felliniano’ o ‘lynchano’ o ‘kafkiano’) ma in quanto isolano, ritagliano e battezzano un determinato pezzo di mondo: la situazione fantozziana c’era già, solo che mancava la parola per definirla, e dunque nessuno l’aveva ancora messa bene a fuoco. Dal 1971 la parola c’è, e questo ha fatto sì che sia diventato impossibile tollerare senza vergogna – per sé o per altri – situazioni fantozziane.
Che cos’è dunque, in che consiste, una situazione fantozziana?
Da un lato, in una certa inadeguatezza rispetto alle richieste, esplicite o implicite, dell’ambiente nel quale ci si trova ad agire. In questo senso, Fantozzi è l’archetipo dell’uomo medio sensuale, quello che vorrebbe starsene in casa a guardare la partita ma viene trascinato dalla vita e dalle convenienze in posti impensati come il cineclub (al quale Fantozzi è culturalmente inadeguato) o il campo da tennis (al quale Fantozzi è fisicamente inadeguato) o un ricevimento elegante (al quale Fantozzi è inadeguato per ragioni di censo e di maniere). ‘Fantozziano’ è, qui, il nome della frizione tra un uomo semplice e le infinite trappole che la vita moderna, o la vita tout court, semina sul suo cammino: fantozziano è il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con il mondo, e fantozziane le punizioni che il mondo gli infligge.
Ecco per esempio una situazione fantozziana archetipica in poco più di venti parole, da Le sette perle del Mediterraneo:
– Sarà la crociera del sole! – annunciò trionfalmente Filini venerdì sera. La crociera del sole partì il giorno dell’unica inondazione di Genova in questo millennio.
Dall’altro lato, il mondo all’interno del quale Fantozzi agisce è il mondo di una grande azienda, perciò ‘fantozziano’ è soprattutto il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con i suoi colleghi e con i suoi superiori. Proprio qui sta uno dei tratti più originali di Fantozzi. Perché nei film e nei libri sul lavoro girati e scritti prima di Fantozzi il nemico era facile da riconoscere: era il padrone, o era il meccanismo inumano della produzione, dinanzi al quale i lavoratori erano, come si dice, tutti nella stessa barca. Ma Fantozzi vive al crepuscolo dell’età della produzione industriale. I suoi uffici sonnolenti, le sue gite aziendali, i suoi impiegati che giocano a battaglia navale annunciano già l’età del post-industriale, del terziario, e insomma di tutta la fuffa che per un certo numero di anni ha fatto credere un po’ a tutti che fosse davvero possibile restare la quinta o sesta potenza industriale liquidando le industrie. Fantozzi lavora già in un’azienda-ministero che non produce nulla. E da questo pseudo-lavoro (che cosa fa, veramente, Fantozzi?) ricava più mortificazione che stress.
Quando si pensa a libri che parlano del mondo del lavoro si pensa a Donnarumma all’assalto o a Memoriale, non a Fantozzi, il che è comprensibile, è anche giusto, perché quelle di Villaggio, a differenza di quelle di Ottieri o di Volponi, non sono rappresentazioni realistiche, sono parodie. Nel mondo reale non ci sono direttori che si fanno chiamare Dott. Ing. Grand. Uff. Lup. Mann. o che hanno in ufficio poltrone in pelle umana e un acquario in cui nuotano gli ex dipendenti. Ma basta solo citare queste trovate deliziose per capire che Villaggio ha saputo darci qualcosa che prima non c’era: non la sottomissione e l’ossequio, che sono dei luoghi comuni dai tempi del Travet di Bersezio; e nemmeno l’aria irrespirabile dell’ufficio, la guerra silenziosa tra impiegati, che è già un motivo di Gogol; ma qualcosa di simile a ciò che Bachtin ha chiamato lo ‘scoronamento dell’eroe’. Nei libri e nei film dedicati al lavoro i padroni si possono disprezzare o odiare come nemici, ma sono sempre nemici seri. Nei libri e nei film di Fantozzi, invece, i padroni e i dirigenti, prima di essere padroni e dirigenti, sono soprattutto degli imbecilli: gente ignorante, incapace, superstiziosa, meschina, puerile, piena di tic e di manie assurde, a cui nessuna persona sensata affiderebbe la direzione di una bocciofila, figurarsi un’azienda.
Fissando l’attenzione sui lati ridicoli del mondo del lavoro, Villaggio gli ha tolto un po’ di quell’aura sacrale che lo circondava nel giornalismo e nella letteratura engagée. Ha fatto per l’ufficio qualcosa di simile a ciò che Fellini ha fatto per la scuola in Amarcord. Sono parodie, certo, ma parodie che introducono nel ritratto un elemento di verità. Esiste un prototipo del capitano d’industria? E a chi assomiglia di più, al Ciro Nasàpeti delle Mosche del capitale o al Catellani di Fantozzi, il patito di biliardo che venera la vecchia madre? Al primo, certamente. Ma i Catellani esistono. Esiste la catellanità.
Salvo che per fugaci apparizioni (l’incontro col sovversivo Folagra), all’interno dell’azienda-ministero il conflitto di classe non c’è. C’è un conflitto umano, e sempre individuale, non con padroni ma con dirigenti che sono soprattutto capricciosi o pazzi: il patito del ciclismo, il maniaco della nautica, lo schiavo del gioco d’azzardo. Ma il conflitto che conta, quello che dà ai libri e ai film di Fantozzi la loro nota caratteristica di divertimento e di angoscia, è il perenne conflitto con i colleghi d’ufficio. Tra i propri pari – nei libri e nei film sul lavoro usciti prima di Fantozzi – si trovava solidarietà, conforto. Ma i propri pari erano di solito, protagonista essendo un operaio, altri operai. L’ufficio è tutta un’altra cosa, e Villaggio dice la verità sull’ufficio, sul modo in cui l’arrivismo, la vanità, la semplice onnipresente stupidità umana polverizzano ogni ipotesi di solidarietà tra persone che vivono insieme per anni e, dopo anni, si detestano (l’odioso Calboni), si tengono a distanza (con Filini: «Ma che fa, mi dà del tu? – Ma no, batti lei: è congiuntivo!») o si usano per fare esercizio di Schadenfreude («Quando comperava da Gino Sport faceva schifo, tanto era indifeso contro quel diabolico cialtrone, e c’era sempre una piccola folla di colleghi che mentre lui era nella tana del lupo si radunava fuori dalla vetrina a godersi lo spettacolo sghignazzando e dandosi di gomito»). Tutti orrendi, tutti colpevoli. È strano, ma è difficile pensare a qualcuno che sia riuscito a rappresentare meglio le miserie dei colletti bianchi, cioè le miserie della vita normale nell’Italia del post-boom, in quel momento fatato, inspiegabile, inimmaginabile oggi, in cui tutti lavoravano ma nessuno lavorava molto. Non che non ci sia qualcosa di fantozziano in Bianciardi, cioè di bianciardiano in Fantozzi. Per esempio, da La vita agra:
A me accadde, sempre dopo la fine delle vacanze (il settembre, ripeto, è il mese tipico dei licenziamenti), d’essere messo alla scelta fra un sottoscala e un terzo di stanzuccia, con tavolo dietro la porta, e orientato in modo che, entrando, il vetro smerigliato andava a sbattere contro lo spigolo e si rompeva fragorosamente, e questo diventava un altro elemento negativo, che preludeva al licenziamento.
Il tavolo nel sottoscala, la porta a vetri che si apre e si rompe, il commento stesso («diventava un altro elemento negativo, che preludeva al licenziamento»): questo è già Fantozzi senza essere ancora fantozziano. Ma Bianciardi parlava dell’Italia arrabbiata del boom, e di una città frenetica come Milano, non dell’Italia rilassata del post-boom, e di una città sonnolenta come Roma. Il protagonista della Vita agra vive male la città e il lavoro soprattutto perché viene dalla provincia e gli tocca lavorare da solo, a casa, oppresso dalle scadenze e dai debiti. Fantozzi vive modestamente, ma non ha mai veri problemi economici: l’Italia degli anni Settanta offre anche a quelli come lui, per la prima volta, la possibilità di comprare la casa, la macchina, di far studiare la figlia, di andare in vacanza, di partecipare alla sbornia consumistica e di buttare via, «sì, lo riconosco, buttar via due lire» per un’attrezzatura da sci da campione olimpico.

Questo mondo, che per un paio di decenni è stato il mondo di buona parte degli italiani, non si può dire naturalmente che Villaggio lo abbia analizzato. Al contrario, lo ha semplificato al midollo ricavandone, come fanno i grandi comici, un repertorio di personaggi e situazioni da commedia dell’arte: il guitto Calboni, il nevrotico Filini, la fatua Silvani, il megadirettore dispotico, e poi la gita in montagna, la dieta, il cineforum, la vacanza al mare, eccetera. Ma proprio come accade nella commedia dell’arte, ciò che si perde in termini di complessità e verità psicologica si acquista in termini di forza rappresentativa: semplici come sono, surreali come sono, col tempo questi personaggi e queste situazioni sono diventati degli archetipi. Quanto al modo in cui lo scrittore-attore Villaggio li ha gestiti nel corso di più di quarant’anni, bisogna distinguere.

29.11.13

"Omme se nasce". Storia di una ballata (Eugenio Bennato)

Nel 2011 Eugenio Bennato raccontò in un volume (Brigante se more, Coniglio editore) i retroscena della composizione di Omme se nasce, brigante se more, una sua ballata conosciuta in tutto il mondo. Lo intervistò per “alias” Simona Frasca. Colloco qui uno stralcio dalle sue risposte. (S.L.L.)

Nel 1979 mi fu commissionata la colonna sonora di un film per la televisione tratto dal libro di Carlo Alianello L'eredità della priora, il primo romanzo sulla storia del Risorgimento raccontata dalla parte dei perdenti. L'ingaggio fu di quelli importanti perché la Rai ebbe il coraggio di raccontare una storia fino a quel momento nota all'opinione pubblica solo in maniera unilaterale e di affidare a due giovani autori la musica. Il tema principale era il brigantaggio, la storia di coloro che opposero una strenua resistenza all'esercito dei Savoia e che subirono una doppia sconfitta, quella delle armi e quella della storia, visto che nessuno si ricorda di loro.
Del brigantaggio si è persa memoria, all'epoca ci documentammo ma non trovammo nulla che potesse aiutarci. Carlo D'Angiò e io scrivemmo Omme se nasce, brigante se more, un canto che ha conosciuto una storia atipica perché raggiunse il successo non attraverso il consueto meccanismo discografico ma per scelta popolare. Il nostro componimento, che è stato tradotto in molte lingue, si presta ad essere un canto di lotta per tutti i movimenti protestatari del mondo. Per esempio a Casal di Principe 15 anni fa, in seguito all'uccisione di don Diana, la ballata fu utilizzata come simbolo di lotta contro la camorra con il testo adattato a quella tragica occasione. Ultimamente ho ricevuto un altro rifacimento dal titolo Pa' vita se more realizzato dal presidio contro la discarica di Chiaiano e Marano. È tipico di un canto che diventa popolare di essere modificato e trasformato a tal punto da far perdere di vista il nome dell'autore. Questo ci riempie di soddisfazione salvo poi sottolineare che la ballata non è dell'Ottocento come molti nostri detrattori sostengono ma una composizione originale mia e di Carlo, un brano che noi ci inventammo completamente proprio per colmare un vuoto.
In questi anni ho sentito le cose più stravaganti sull'origine della nostra ballata ma quando ho letto che alcuni la ritengono scritta nel 1861 non ne ho potuto più e ho deciso di scrivere il libro. Non c'è nessuna fonte per questo canto, tutto nasceva dalla nostra profonda adesione alla musica popolare. Mentre scrivevo il libro ho composto altre due ballate, la prima è dedicata al capitano Ninco Nanco, uno dei tanti 'maledetti' briganti uccisi e di cui ci restano le fotografie e l'altra, Il sorriso di Michela, è su Michelina De Cesare. Con queste due composizioni ho cercato di restituire alla storia i nomi di gente che ha combattuto e che è stata completamente dimenticata per 150 anni. Oggi Ninco Nanco è un'icona della rivendicazione storica del brigantaggio e Michelina De Cesare è l'immagine forte di una donna morta a 26 anni combattendo contro l'invasione dei piemontesi. L'esigenza del libro è dettata dalla necessità di raccontare il mio viaggio nella musica popolare del sud Italia.
La storia del Risorgimento fu una vicenda stranissima secondo la quale il piccolo stato piemontese ingaggiò una cruenta guerra contro il sud facendo leva sulle giuste rivendicazioni da parte di intellettuali dell'epoca come i mazziniani de “La Giovine Italia”. L'espansione aggressiva
del Piemonte avvenne invece con una violenza pazzesca, con la creazione di lager come quello di Fenestrelle in Piemonte che accolse 50 mila prigionieri tutti morti uccisi, con la discesa di un esercito ferocissimo e senza la dichiarazione di guerra. I piemontesi sradicarono fabbriche, industrie, cultura e dialetti ingenerando un vittimismo che sopravvive oggi e che è genesi di malcostume, di mancato sviluppo e anche di una criminalità diffusa…

da Simona Frasca Mascalzone napoletano in “alias – il manifesto”, 5 febbraio 2011


Mussolini al Vescovato (S.L.L.)

Intorno alla morte di Mussolini - ora, luogo, esecutori - fu edificato - forse artatamente e di sicuro senza successo - un mistero. 
Al di là dell'occasione di questa o quella "sensazionale rivelazione" l'operazione appariva come un miserabile tentativo di oscurare la sentenza eseguita "in nome del popolo italiano". Ma concordano le testimonianze sui colloqui al vescovato prima della fuga ingloriosa, sul tentativo di mediazione del cardinale Schuster. 
L'ex duce fa delle proposte, dice di voler trasferire i suoi poteri al partito socialista. I rappresentanti del CLN lo zittiscono, gli dicono - giustamente - che non è in grado di trattare alcunché, che può solo arrendersi e consegnarsi. 
Eppure credo che non fosse soltanto uno dei colpi di scena in cui il "mascellone" era versato, un "ballon d'éssai", un tentativo estremo e ridicolo per prendere tempo e sondare le intenzioni altrui. 
Forse c'era di più: in quel momento lì ricordava la settimana rossa, la solidarietà operaia, la giovinezza ribelle e intuiva confusamente che - dopo - aveva sbagliato tutto.

Pellegrinaggio invernale. Una poesia di Carlo Chiaves (1882 - 1929)

Foto di Dani Purcaru
L’altro giorno – non so da qual coraggio
l’anima a un tratto mi sentissi invasa -
son tornato a la tua piccola casa
coi miei ricordi, in pio pellegrinaggio.

Sono tornato quasi in sogno: attratto
da quel senso che si compiace e appaga
come di un gioco, di inasprir la piaga,
di ravvivarla, in fondo al cuor disfatto.

Varcato il fiume, presi, lento, lento,
a salir per la via de la collina:
splendeva il sole e tanta era la brina
che ogni ramo parea quasi d’argento.

Ho rivista la panca, tutta verde
di musco; il ponticello; la fontana
ghiacciata: più non canta in voce umana
e solo a gocce giù l’acqua disperde.

Giunsi e varcai la soglia: che deserto,
il giardino! che schianto! le tue rose,
morte! e i gerani! quante morte cose!
Una donna è venuta, che mi ha aperto.
. . . . . .

Cadea la sera. In basso, fra le brume,
per le tremule fiamme dei fanali,
si costellava la città di opali.
Qualche bagliore si frangea, nel fiume.

da Sogno e ironia (1910)

Laici e cinici (S.L.L.)

Fu negli anni di Natta (e di Gorbaciov) che si diffuse il leit-motiv "Bisogna essere laici". 
Diventò ben presto un tormentone. 
In verità quando si diceva "essere laici", s'intendeva "essere cinici". E non in riferimento alla nobile scuola filosofica di Aristippo e di Diogene, ma nel senso, volgare, banale e storicamente infondato, di "non credere in niente se non nel potere, nel denaro e nel potere del denaro". 
Meglio si sarebbe detto: "essere opportunisti senza principi".

Come se ogni bacio... Una poesia di Fernando Pessoa

Come se ogni bacio
fosse d'addio,
mia Cloe, baciamoci amando.
Che forse già si posa
sulla nostra spalla la mano che chiama
alla barca che non viene se non vuota;
e che in un solo fascio
lega ciò che l'uno per l'altra fummo 
all'altrui somma universale della vita. 

Dal sito “Digitale purpurea”, pubblicato da Francesca Vicedomini

Il saluto romano nei campi di calcio (Alberto Piccinini)

1934 . L'Italia col braccio teso allo stadio Flaminio di Roma
Negli anni ’30 l’obbligo per squadre di calcio italiane di fare il saluto romano all'entrata in campo faceva parte del regolamento del gioco. A teorizzarne la pratica fu Lando Ferretti, primo presidente del Coni posto sotto diretto controllo del regime nel 1925, il quale «annunciò appena insediato che il saluto romano sarebbe stato obbligatorio prima dell'inizio di ogni partita». Citiamo da un recente saggio dello storico inglese Simon Martin su Football and fascism (Berg Publisher), che torna in un terreno solo parzialmente frequentato dagli storici italiani (due anni fa era uscito un analogo Lo sport nella propaganda fascista, di Andrea Bacci). Martin ricorda ancora come «la sostituzione del tradizionale hip! hip! hurrà col più romano Eja Eja Alalà dimostra come la nazionalizzazione del gioco si estendesse anche ai giocatori».
Il punto cruciale di questo genere di studi è da sempre questo: quanto giocatori e allenatori, ma anche semplici tifosi, furono veramente consapevoli della politicizzazione, cui il regime cercò di sottoporre il calcio? Il fascismo infatti pose le basi dello spettacolo popolare che oggi ancora conosciamo, con la costruzione dei grandi stadi e la creazione dell'apparato massmediatico. Tentò anche - lo ricorda Martin - di piegare il calcio alle sue esigenze ideologiche. «Il programma del regime fu simboleggiato dalla figura dell’Italiano Nuovo, le cui caratteristiche mitiche erano evidenti nella maniera in cui i calciatori fascisti mostravano eroismo, sacrifico e attaccamento alla causa della squadra». Si aggiungerà che una cosa era la teoria - ben simboleggiata dalla prosa ultraretorica della “Gazzetta dello sport” di Bruno Roghi - e una cosa era la pratica. Secondo Antonio Papa e Guido Panico, autori di una Storia sociale del calcio in Italia, «numerose sono state le testimonianze di giocatori del tempo che hanno negato ogni interferenza dei dirigenti fascisti nella loro vita sportiva (...) Agli inizi degli anni '30, quando il saluto con il braccio teso era divenuto usuale non mancò chi si astenne dal farlo. La cosa era attribuita dai dirigenti fascisti à purismo calcistico, senza conseguenze politiche».
Una delle testimonianze significative, da questo punto di vista, resta quella di Aldo Olivieri portiere della Lucchese prima e del Torino poi, ma soprattutto estremo difensore della Nazionale che vinse il Mondiale a Parigi nel 1938: «Quando giocavo fui punito in un solo caso - raccontava il giocatore qualche anno fa - Entrai in campo senza fare il saluto romano, strinsi la mano al capitano avversario e l'arbitro me la fece pagare». Una testimonianza che apparentemente mette in discussione la cautela con la quale gli storici hanno affrontato la fascistizzazione del calcio italiano. Olivieri aggiunge subito che «sì, eravamo obbligati a fare il saluto, a recitare, e io recitavo».
Proprio Oliveri si trovò a far parte di una delle «recite» più note del nostro calcio: quella che andò in scena allo stadio di Marsiglia in occasione della prima partita del Mondiale 1938. Per l'incontro con la Norvegia si calcola che fossero presenti 10.000 esiliati politici dall'Italia. Con conseguenze inimmaginabili, stando all'ormai classico racconto del ct Vittorio Pozzo: «Vado in campo con la squadra, ordinata alla militare, e mi pongo sulla destra. Al saluto ci accoglie, come previsto, una bordata solenne e assordante di fischi, di insulti e di improperi. (...) Ad un certo momento il gran fracasso accennò a diminuire, poi cessò. Ordinai l'attenti. Avevamo appena messo giù la mano, che la dimostrazione riprese violenta. Subito: Squadra attenti Saluto! E tornammo ad alzare la mano, per confermare che non avevamo paura».
Ancora un saluto romano. Sembrerebbe quasi una sfida tout court, verso il pubblico sugli spalti, invece che una performance da soldatini del duce. Tra l'altro non servì a molto: l'Italia vinse stentatamente quella partita, 2-1 nei supplementari. E fin dall'incontro successivo vennero messi fuori tre giocatori in chiaro difetto di forma - tra cui Eraldo Monzeglio, unico azzurro fascista dichiarato e amico personale della famiglia Mussolini. Ma la cosa più divertente la racconta Gianni Brera nella sua Storia del calcio italiano «Lo sa commenda perché siamo andati male? - domanda capitan Meazza a Vittorio Pozzo - Perché ci abbiamo il sangue grosso». Don Vittorio incupisce, stringe i denti, strizza gli occhietti maligni - «E sia, ma niente concessioni al vizio!», si arrende il CU. «L'atto naturale!», promette il Peppin. Nella successiva partita contro la Francia gli azzurri presero un'altra bella razione di fischi, e giocarono così bene che non solo vinsero, ma anche gli antifascisti si unirono agli applausi dei francesi. L'Italia si presentò in campo con la maglia nera e l'ordine, a quanto pare, venne da Mussolini in persona. Fece il saluto romano. Servì a qualcosa? Se solo, in questa grande e ambigua leggenda del nostro calcio, entrasse a far parte anche la storia della visita di Peppin Meazza nei favolosi casini della capitale francese, ci sentiremmo tutti un po' più sollevati.


“il manifesto”, 9 gennaio 2005

Esenin, un demonio con gli occhi azzurri (Cesare G. De Michelis)

La poesia di Sergej Esenin (leggi: Jessjénin) ha avuto una sorte singolare nel nostro paese. E' stata tra le prime, della moderna letteratura sovietica, a venire importata, grazie soprattutto ad un fervente eseniniano come Renato Poggioli, che tra il 1928 e il 1940 s'ingegnò di partecipare al pubblico letterario dell'Italia fascista il grande mito del poeta campagnolo russo; ma anche grazie alla versione di Requiem, fatta nel 1930 da Giuseppe Ungaretti, e alla bella pagina che ne scrisse Benedetto Croce nel 1944. In compenso, non è stata particolarmente coltivata dai traduttori (fatta eccezione per Iginio De Luca), né ha destato particolari riflessioni o analisi critiche. Curioso esempio, si diceva tempo fa con Giovanni Raboni, che sta a testimoniare come la ricezione 'poetica' e quella 'culturale' d'un poeta straniero non necessariamente coincidono, anzi son cose diverse.
Ecco in qualche misura spiegato anche perché il primo grosso volume che compare in Italia sull'autore di Inonija, del Breviario campagnolo, dell'Uomo nero, non è opera d'uno studioso italiano bensì d'uno scrittore polacco, Wiktor Woroszylski (con la collaborazione di Elwira Watala: Vita di Sergej Esenin, Vallecchi).

Teppista drogato
Personalmente, non sono mai stato un patito di Esenin; il mio confuso disamore, che con gli anni è divenuto sempre meno confuso, deriva dalle medesime ragioni che in altri suscitavano entusiasmo: la poesia contadina (sì, ma d'un contadino approdato a Pietroburgo in abiti civili, che si mascherava da mugiko per imbrogliare gli intellettuali cittadini alla ricerca della campagna); i biondi capelli e gli occhioni azzurri (angelici, sì, ma per circuire le sprovvedute impiegate che 'gli si concedevano' per ritrovarsi poi madri nubili); le pose da scita, da rivoluzionario agreste, ma in attesa di scappare a far baldoria in Europa e in America; il teppista, il drogato, l'alcolizzato, il mettiscandali; l'anima vomitata senza ritegno, ma bisognosa d'un pubblico che applaudisse. E soprattutto: quel viscerale amore per la Russia, anzi la Rus', «vasta, boschiva, cerulea», che celava nel profondo la becerità antisemita, antioccidentale, anti tutto quello che non fosse il proprio compiaciuto orgoglio grande-russo (non starò certo a pagare tributi al leninismo di maniera, se ricorderò qui la denuncia fatta da Lenin dell'alterigia nazionale grande-russa: del resto, è da essa che discendono — utilizzando non di rado Esenin — tanto il 'russismo' dei settori più retrivi e ottusi tardo stalinisti, quanto quello, certo più sofferto, ma non per questo meno retrivo e ottuso, dei dissidenti 'alla Solgenitsyn'). E insieme a tutto ciò: il giovanotto che gioca a fare il 'vecchio-credente', mentre all'osteria «sputa il corpo di Cristo»; ovvero, l'ateo, il bezbozhnik militante, che piagnucola: «Ho vergogna d'aver creduto in dio, / ho amarezza di non credervi più». Insomma, sì, l'eseninismo.
Questa ponderosa biografia eseniniana rappresenta e documenta da capo a fondo tutto ciò; con evidente compartecipazione, ma senza riuscire a coinvolgere il lettore che (come nel nostro caso) non ne fosse già attratto. Wiktor Woroszylski è uno scrittore polacco d'un certo rilievo che, dopo aver militato per anni tra i 'duri' dell' ortodossia politica, si ritrova oggi, poco più che cinquantenne, tra i 'clandestini'. Formatosi all' Istituto «Gorki» di Mosca (vi hanno studiato molti dei più noti scrittori sovietici odierni), non è nuovo a ricostruzioni biografiche; anni fa stava per essere pubblicata in Italia quella dedicata a Majakovskij.
Documentatissima, la sua biografia eseniniana non si lascia sfuggire uno solo dei molti aspetti del poeta, che ne fanno davvero personaggio da romanzo: dal giovanile rapporto con Kljuev (che nutriva per lui un'attrazione omosessuale) ai tre successivi e disastrosi matrimoni, con Zinaida Raich — sarà poi la compagna del regista Vsevolod Mejerchol'd —, con la celebre ballerina americana Isadora Duncan, infine con una nipote di Tolstoj, Sofja Andreevna (poco prima di sposarla, confessò ad amici tra i fumi dell'alcool: «Le ho sollevato un po' la gonna, e ti vedo certe gambe pelose... Se la tenga pure Pil'njak, io non la voglio, non posso sposarla...»; insigne esempio di romanticismo) e alle molte altre relazioni, agli scandali per mezzo mondo, alla cupa disperazione finale, confinante con la demenza, che lo spinse trentenne al suicidio. Quello che resta un po’ in ombra, in questa turbolenta storia degli anni folli è la poesia di Esenin, il nesso tra l’eccentricità del personaggio e la sua voce poetica che, come scrisse Jurij Tynjanov, è una «banalità epica», che scivola verso «la sciattezza della poesia generica», dando luogo a versi fatti per una lettura 'leggera', «spesso cessando d'essere versi».

Carica libertaria
All'indomani del suicidio di Esenin (28 dicembre 1925), si scatenò in Urss una violenta campagna contro l’eseninismo, che tendeva a rovesciare sullo sciagurato poeta tutti i modelli di comportamento 'antisociale' immaginabili: teppismo, ubriachezza, cinismo, individualismo, misticismo, e — appunto — suicidio. Ne furono interpreti sia i portavoce dell'ormai vincente linea staliniana (insomma, gli scrittori 'proletari'), sia i loro più acerrimi nemici, i 'futuristi': Aleksej Krucenych nel solo 1926 pubblicò nove opuscoli antieseniniani (Carla Solivetti ne ha dato una silloge, due anni fa, su “La rivista europea”, in uno dei quali proclamava — senz'avvedersi dove avrebbe portato la via indicata — che «Esenin è richiesto e favorito da: 1 ) banditi e prostitute; 2 ) quelli che fanno le fiche nelle tasche... Speriamo che siano prese misure perché questa produzione velenosa (le opere di Esenin) non venga pubblicata».
Non credo che si debba oggi riprendere quella polemica, assai datata, sull'eseninismo; né accortamente lo fa Woroszylski. E' anzi da tener presente che una qualche carica libertaria le poesie di Esenin debbono ben averla, se sono lettura emblematica del 'non integrato' sovietico; e se, come ricordava Poggioli, venivano avidamente lette, in traduzione, dai nostri partigiani in montagna.

Tuttavia, questo non smentisce che si tratti di «versi fatti per una lettura leggera»; e tanto meno sono una ragione per farsi un mito di «un ragazzo di Rjazan» convintosi d'essere il poeta più grande, cui sia (dannunzianamente) tutto concesso.

da un ritaglio senza data da "la Repubblica", probabilmente 1980 

Salinas, molto di più di un poeta che canta l'amore (Glauco Felici)

Una buona recensione che fa il punto su un poeta importante. (S.L.L.)
Pedro Salinas in un ritratto di Marisol Cales
Con Favola e segno sono ormai quattro i volumi di Pedro Salinas che appaiono per la cura di Valerio Nardoni presso l'editore Passigli (dopo Sicuro azzardo, Ragioni d'amore e Presagi).
Quattro volumi che sembrano preludere a un'integrale - possiamo augurarcelo di tutto cuore - del grande lirico madrileno (1891-1951), che si è invero conquistato un posto particolare tra chi coltiva la «poesia d'amore». Questa definizione è sin troppo vasta, e impropria, è una scorciatoia per imporre etichette ai poeti che etichette non accettano. Ma il mondo va così, e Lorca - ad esempio - sembra noto più che altro come esperto di corride per aver scritto il Lamento in morte dell'amico torero Ignacio Sánchez Mejías (che, per inciso, non era un matador truculento, ma un intellettuale fascinoso e inquieto con la passione della letteratura, scrittore a sua volta). Anche per Lorca, tuttavia, si è fatto ricorso all'etichetta «poesia d'amore» (amor oscuro o no che fosse ...), con prevedibili semplificazioni e sminuimenti a danno del suo genio poetico.
Per Salinas, è accaduto altrettanto. Austero studioso di letteratura, professore ineccepibile in giro per il mondo, intellettuale a tutto campo (critico, narratore, drammaturgo, traduttore della Recherche, soprattutto poeta), appartenne a quella Generazione del '27 che - in epoca di nazismi, fascismi e franchismi più o meno incipienti - diede al mondo un incomparabile florilegio di autori, i «nipoti di Góngora» (Salinas appunto, Jorge Guillén, Dámaso Alonso, Lorca, Alberti) e molti altri (Bergamín, Aleixandre, Larrea, Altolaguirre, Cernuda, Prados…). «La più bella poesia d'Europa», la definì Lorca.
Favola e segno apparve nel 1931, terza prova di Salinas, e conclusione di un ideale primo periodo tra quelli in cui si usa suddividere la sua attività lirica: una fase di ricerca, preludio alla completa dischiusura delle ricchezze poetiche che culminano nella «grande trilogia amorosa», tra il 1932 e il 1939, composta da La voz a ti debida, Razón de amor e Largo lamento. (Poi, altri versi nel terzo periodo - quello dell'esilio - e una diversa immagine formale, che trova la voce più compiuta in El contemplado, lungo poema in cui Salinas dialoga con il mare di San Juan de Puerto Rico, città dove venne sepolto nel 1951 dietro sua commossa richiesta).
Nella raccolta si confrontano due entità, «favola» e «segno», contrastanti e complementari: in Escorial II, ad esempio, si legge «Non sognare, ma contare», dove appare l'equivalenza tra favola e sogno, tra segno ed enumerazione. Sempre con l'amore che domina: «Io è te che amo, e te | e te. | Tre di voi amavo io». Altrove, sintomi di modernità invadente (quasi accenni a temi del futurismo), come in Underwood Girls dove le teclas (i tasti della macchina da scrivere) «sono assopite, tranquille, | loro trenta, tonde, bianche. | Tutte unite | a sostenere il mondo» e si trasfigurano in ragazze, anzi «eterne ninfe | contro il grande mondo vuoto».
Nell'ininterrotta declinazione del suo personalissimo concetto di amore (non facile, non convenzionale), la realtà pose sul cammino di Salinas un impetuoso incidente: l'incontro, nella primavera del 1932 a Madrid, con Katherine Prue Reding, leggiadra studiosa del Kansas, all'epoca trentacinquenne. Un innamoramento travolgente, una storia d'amore durata due estati e un corso accademico, «un incontro emotivo, allegro, devastante e triste per entrambi» (scriverà la stessa Katherine), alla quale la donna pose fine a causa del tentato suicidio di Margarita Bonmatí, moglie di Salinas.
Di quell'amore, che innescò il meccanismo compositivo di almeno un capolavoro come La voz a ti debida, si seppe ufficialmente tardi, dopo la morte di Salinas, e grazie alla regia dell'inseparabile amico Jorge Guillén. Oggi, il lettore può immergersi in quel mondo appassionato anche consultando le lettere che Salinas inviò a Katherine (circa metà delle 354 scritte dal poeta è pubblicata in Cartas a Katherine Whitmore, Tusquets 2002: un libro imprescindibile nel suo genere).
Non è semplice comprendere perché un poeta di complessa ispirazione e di rarefatta scrittura come Salinas abbia poi trovato una schiera di appassionati «consumatori» dei suoi versi. Si rimane sbalorditi, ad esempio, nello scoprire che un'icona pop dei nostri giorni - Pietro Taricone - avesse tatuato sul polpaccio sinistro i versi della Poesia 39 (Salinas può permettersi anche questo, niente titoli e invece numeri, «segni») di La voz a ti debida, che recita: «E io sto abbracciato a te | senza fare domande, per paura | che non sia verità | che tu vivi e mi ami. | E sto abbracciato a te | senza guardarti o toccarti. | Perché non debba scoprire | con domande o carezze | l'immensa solitudine | d'essere il solo ad amarti».


"Tuttolibri - La Stampa", 11/09/2010 

28.11.13

Epistolari. Rilke e Andreas-Salomè (di Italo A. Chiusano)

Rilke e Salomè al balcone
Rilke è stato uno degli autori prediletti dei nostri padri, che lo tradussero (e intesero) per lo più in uno stile floreale di derivazione dannunziana. Corifeo di quel culto, il generoso, un po' incontrollato Vincenzo Errante. Di Lou Andreas-Salomè, figlia di un generale zarista, spavalda e intelligentissima cosmopolita, scrittrice (ottima) in lingua tedesca, gli italiani per molto tempo non hanno saputo nulla di diretto. Ne avevano scritto la Mazzucchetti, Leone Traverso, Giorgio Zampa. Ma traduzioni niente. Poi, dopo il 1975, un profluvio: scritti autobiografici, saggi psicanalitici, il libro su Nietzsche. Intanto Mondadori aveva ripubblicato nel 1977 una biografia di lei (H.F. Peters, Mia sorella mia sposa) che nel 1962 era passata quasi in penombra presso un altro editore. Così, finalmente, si aveva una certa informazione. Restava, forse determinante, la Lou vistosamente reinventata e trasgressiva del film di Liliana Cavani (Al di là del bene e del male). Ma emergeva un'altra Lou, quella vera, che in fondo non era meno interessante.
In attesa di leggere in italiano anche qualcuno dei suoi romanzi e racconti (ne varrebbe la pena, dicono gli esperti), avanzava in primo piano soprattutto la grande ed esperta amatrice che aveva fatto impazzire di desiderio Nietzsche e il futuro marito, l' orientalista Andreas, Hauptmann e Wedekind, ch'era stata la madre-maestra (non solo in erotismo) di Rainer Maria Rilke, che aveva conosciuto assai bene Freud, tanto da diventare una delle sue prime e più valide allieve e praticanti dal 1912 alla morte (1937).
L'editrice La Tartaruga ci presenta l'Epistolario intercorso dal 1897 al 1926 (anno della morte di Rilke) tra lo stesso Rilke e Lou (curatore Ernest Pfeiffer, traduzione di Claudio Groff e Paola Maria Filippi). Sappiamo di aver di fronte due enormi personaggi (peso l'aggettivo, poi sospirando lo ribadisco: enormi), entrambi scrittori di grande capacità, lei più sul versante dell'indagine, lui vate e veggente con cadute in un kitsch quasi infame, agli inizi, ma via via assurto a un'intelligenza dell'intuire, più che del riflettere, che presto toccherà le vette. Sappiamo che per alcuni anni (1897-1900) i due furono amanti, e nel senso un po' torbido che è un rapporto tra un giovane inesperto e molto ansioso (nel 1897 Rilke aveva ventidue anni) e una donna sposata e già parecchio vissuta (Lou, a quel tempo, di anni ne aveva trentasei). Sappiamo ancora che tra gli scritti freudiani di Lou ci sono titoli come Anale e sessuale, La materia erotica, Psicosessualità, L'erotismo. Bene, dirà il goloso, questo scambio di lettere me lo leggo. Il goloso, se lo è anche di buona letteratura e di acume psichico, le legga davvero queste pagine, perché gli daranno molto. Ma non speri di trovarci nulla che assomigli allo stuzzicante. In questo senso l' epistolario Rainer-Lou è una delusione. Ma che splendida delusione! Anche sul piano dei sentimenti.
Di epistolari arroventati tra amanti se ne conoscono a montagne. Raramente reggono bene. Spesso sono imbarazzanti, sgraziati, retorici. Com'è raro invece uno scambio di messaggi tra un uomo e una donna che si sono totalmente amati e che continuano, per quasi tre decenni, a confidarsi, a darsi aiuto e illuminazione, a godere delle relative personalità e capacità ed esperienze. Insomma, l'amicizia è rara; quella tra uomo e donna dicono che non esista nemmeno. Queste pagine ne sono una smentita. L'amicizia, qui, è la sostanza, lo charme, il tessuto connettivo. Solo all'inizio c'è un po' di vagheggiamento amoroso. Ma è poca roba, e non della migliore. Poi comincia il rapporto tra amico e amica (ma non nel senso appiccicoso che usava D'Annunzio), tra maestra sempre più brava e comprensiva, e allievo sempre più geniale e ispirato.
Lou capisce Rilke a fondo, nella sua grandezza e nella sua miseria. Anche senza Freud e prima di Freud, essa era già una psicologa formidabile; ma sostenuta da una fortissima carica di amore nel senso di benevolenza, accettazione, tenerezza. Del resto, Rilke non è avaro di materiale indiziario su se stesso. Oltrepassando spesso la frontiera della discrezione, bambino narcisista e vittimista qual è, sciorina su un enorme prato tutti i suoi panni sporchi o macchiati di sangue e di pus: malattie grandi e piccine, nevrosi quasi tutte macroscopiche, rapporti difficili con la moglie, la madre, gli amici, le donne (ma non cade mai nel pettegolo e meno ancora nel maligno: in confronto ad altri epistolografi Rilke è "un gran signore"), incubi e allucinazioni degni di Dostoevskij e di Kafka, indecisioni di un amletismo irritante, lunatici rapporti di attrazione e di rifiuto verso gli stessi luoghi (ad esempio Parigi), curiosità vogliosa per la psicanalisi e poi fuga da essa per timore di perdere, coi propri complessi, anche la propria genialità (e Lou approva, forse dubitando che, in un nevropatico così incallito, l' analisi possa ancora far qualcosa).
In queste lettere di Rilke ci sono vere gemme da antologia, in parte effettivamente passate in opere letterarie, come il ritratto della figlioletta Ruth, la lezione artistica e morale venutagli da Rodin, la veduta-visione di Avignone e di Les Baux, certi apprezzamenti felicissimi su Proust e Valèry, il ritratto del castello di Muzot e del paesaggio circostante; e, forse il meglio in assoluto (18 luglio 1903), la descrizione di un'angoscia interiore che si rispecchia in alcuni personaggi da corte dei miracoli visti a Parigi. Qui c'è già […] tantissimo Kafka, quel Kafka che allora aveva appena vent'anni.
Alla fine, qualcosa che non si oserebbe inventare per due personaggi di romanzo, tanto sa di chiusura gloriosamente costruita, sia nell'apoteosi che nella tragedia. Nel 1912, al castello di Duino, Rilke inizia la composizione di quel ciclo di elegie di cui sa che saranno il meglio della sua opera. Poi l'aridità lo blocca per anni. Si dice perché lo spettacolo della guerra lo paralizzò. Vero, ma è altrettanto vero che già prima del conflitto (vedi la lettera dell' 8 giugno 1914) Rilke è in pieno collasso psico-nervoso. Passano gli anni delle stragi, delle rivoluzioni, della fame. E un giorno, nel castello elvetico di Muzot, le elegie si ridestano e in pochi giorni vengono messe in carta. Ma l'onda creativa è tale che l' autore scrive anche i cinquantacinque Sonetti a Orfeo. E' il febbraio 1922. Giorni memorabili, ma anche per il rapporto Rilke-Lou. Chi non ha letto le epistole che questa donna materna e in qualche modo sempre amante scrive al suo Rainer dopo aver appreso la grande notizia e letto quelle composizioni, non sa che cosa sia gioia altruistica, felicità allo stato puro per la grande realizzazione e liberazione di una persona cara. Poi la morte di lui, preceduta da malattie e angosce sopportate con pazienza proprio perché il regalo del febbraio 1922 era stato troppo grande per dimenticarlo. E' patetico come Lou, per quest'unica volta, cerchi di aiutare Rainer col linguaggio più canonico della psicanalisi, parlandogli di pene, di fase orale, di fase anale. Rilke non si difende. Finalmente sobrio e senza lagni, dichiara a pochi giorni dalla morte la propria condizione senza speranza ("Gli inferni... Da dove trarre coraggio?"). Poi muore, mentre Lou continua per qualche giorno a scrivergli "alla cieca".


 “La Repubblica”, 11 maggio 1985

27.11.13

Lutero e il prete interiore (Karl Marx)

Martin Lutero
Lutero, in verità, vinse la servitù per devozione, mettendo al suo posto la servitù per convinzione. Egli ha spezzato la fede nell'autorità, restaurando l'autorità della fede. Egli ha liberato l'uomo dalla religiosità esteriore, facendo della religiosità l'interiorità dell'uomo. Egli ha emancipato i corpo dalle catene, ponendo in catene il cuore.
Ma se il protestantesimo non fu vera soluzione, fu tuttavia la vera impostazione del problema. Adesso bisognava non più che il laico lottasse contro il prete al di fuori di lui, ma contro il proprio prete interiore, contro la sua natura pretesca.

da Critica alla filosofia del diritto di Hegel 

Caravaggio, La morte della Vergine (Michel Laclotte)

La morte della Vergine (1605 circa) è il quadro di Caravaggio più importante che si possa trovare fuori d'Italia.
La sua storia è particolarmente interessante. Fu dipinta dal Caravaggio alla fine del suo periodo romano, contemporaneamente alla Deposizione dei Musei Vaticani, per la chiesa di Santa Maria in Trastevere. Quando presentò il quadro, però questo fu rifiutato, perché mostrava la Vergine "col ventre gonfio e con le gambe larghe".
La vide qualche tempo dopo Pietro Paolo Rubens, che ne consigliò l'acquisto al duca Federico di Mantova. Più tardi, come la Deposizione nel Sepolcro del Tiziano, il quadro fu venduto a Carlo I d'Inghilterra, che aveva la più bella collezione del tempo e lo ospitò nel palazzo reale di Hampton Court. In Francia fu comprata nel 1661 per espressa volontà di Luigi XIV, che aveva appena venticinque anni.
Il quadro è bellissimo, ma per me è legato a un ricordo personale: quello del mio amico Roberto Longhi, il quale ogni volta che passava da Parigi voleva vedere questo Caravaggio.

Postilla
La nota sul dipinto è tratta da un supplemento del settimanale “L’Europeo” dedicato al Louvre. L’autore era al tempo ispettore generale dei Musei di Francia. L’anno, non indicato, dovrebbe essere il 1986. (S.L.L.)


Vieni, vieni da me, che già son vecchio. Una poesia di Carlo Betocchi

Vieni, vieni da me, che già son vecchio,
amore no, ma tu ombra d’amore fatta
di mute cose quotidiane, viste
di tetti, strade, di schiuse finestre
da cui spiano gli amanti la venuta
dell’amante, o d’invetriate malate,
e procedere smunto di giornate
penose, e pace ombrosa che ti perdi
come si perde nel padule in volo
fulminata la folaga che affoga
e poche piume restano per l’aria:
io sono la realtà che qui vacilla
senza nemmeno un suo perché
se tu non vieni, amore, ombra d’amore,
o caro sonno, a darmi la tua requie.


Da Poesie del sabato, Mondadori, 1980

Concerti di fine 800: la nascita della musica classica (Paolo Prato)

Il pubblico dei concerti di fine secolo - nella descrizione di un romanziere come Fogazzaro - appare diviso fra ascoltatori competenti, una minoranza eletta, e ascoltatori per passatempo, tronfi nella sicumera che deriva loro da una condizione sociale elevata. La «grande musica» del passato non fa parte dei loro orizzonti, vi entra solo a forza in ossequio a un rito irrinunciabile che serve a marcare una «distinzione» di gusti e dunque di ceto.
Certo è che maestri come Haydn, Mozart o Beethoven vengono riconosciuti come tali solo attorno alla metà del secolo. Mai prima d'allora composizioni di autori scomparsi venivano suonate con regolarità e percepite con un alone di rispetto che sconfinava nella sacralità. Fino a quel tempo, nelle occasioni in cui si faceva musica la relazione interpersonale contava più della musica stessa. Fino alla metà del secolo i concerti, in molte città europee, si chiamavano «promenades», avvenivano all'aperto, davanti a un prato ove la gente (per lo più di classe medio-bassa) passeggiava, parlava, faceva merenda, mentre luci e fuochi d'artificio aggiungevano un tocco di psichedelia.
Poi l'avvento di orchestre professionali mise a morte quelle amatoriali e si creò un repertorio ad hoc, fatto di autori del passato, mentre il concerto s'impose come rito di appartenenza all'emergente civiltà industriale e urbana.
Fino ad allora la musica non aveva, come la letteratura e l'arte, modelli classici da imitare o a cui richiamarsi: era un'arte orientata al presente. Ora invece si crea il mito dei grandi maestri, da venerare, e il pubblico si divide in coloro che, con conoscenze adeguate (musicisti di professione, dilettanti, operatori), vanno ai concerti per celebrare la grande tradizione germanica, e coloro che, come prima, ci vanno solo per divertimento. A quelli resta la musica più facile, quella leggera. «Ecco conseguita, attorno al 1870, la frattura tra alto e basso: musica leggera era tutto ciò che si poteva apprezzare senza aver bisogno di sapere un gran che; musica classica era tutto ciò per il cui apprezzamento avevi bisogno di un gusto acquisito. Solo l'opera era considerata come sempre, come musica della quale non era necessario avere grandi conoscenze, ma queste potevano comunque aiutare» (da W. Weber, Mass Culture and the Reshaping of European Musical Toste, 1770-1870)


Da La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità a oggi, Donzelli, 2011, in “alias – il manifesto”, 5 febbraio 2011

Enrico Berlinguer: "Contro le mafie lotta di massa" (1983)

Quelli che seguono sono alcuni brani del discorso tenuto da Berlinguer a Ravenna l’8 gennaio 1983 nel corso di una manifestazione regionale del Pci e della Fgci. Il discorso, ragionato e vibrante, per molti versi purtroppo ancora attuale, presenta alcuni passaggi bellissimi, per esempio quello sul deperire della politica e sui modi del suo possibile rinnovamento. Molte cose sono cambiate nei trent’anni trascorsi, per lo più in peggio, ma io credo che da lì si possa e si debba ripartire dopo il diluvio del berlusconismo. (S.L.L.)
Desidero che sia assolutamente chiaro che il nostro impegno contro la droga non vuol essere motivo di agitazione strumentale contro il governo e contro altri partiti, non ha secondi fini giacché il nostro scopo in questo campo è solo quello di arginare e sconfiggere la piaga della droga come male in sé, per liberare i corpi e le menti da questa servitù avvilente e distruttiva. E noi comunisti vogliamo dunque continuare ad essere alla testa di questa battaglia di civiltà contro l'imbarbarimento, di questa lotta per la vita e contro la morte. (...)
È indubbio — e noi comunisti lo comprendiamo forse meglio di altri — che il diffondersi del consumo della droga è un portato dell'epoca attuale, uno dei prodotti di un assetto sociale e di un sistema di valori - ma sarebbe meglio dire di disvalori - che creano smarrimenti e alimentano vane fughe dalla realtà e dalla lotta per cambiare la società e il mondo con la consapevolezza e la tenacia che questo impegno richiede a ciascuno. Il ricorso alla droga, che si reputa essere una evasione, si rovescia però rapidamente da presunta liberazione in effettiva tirannia e schiavitù. La droga è la risposta ingannevole e funesta cui ricorre talvolta chi vede irrisolti e giudica irrisolvibili i concreti problemi e le reali situazioni che ha davanti a sé, che non sono solo individuali, ma collettive. E, invece, non c'è problema che non abbia la sua soluzione, almeno in parte. Si tratta di cercarla, di trovarla, con l'intelligenza, la solidarietà, l'impegno umano e la lotta di quanti credono o vengono persuasi a credere, appunto, che ogni problema non è irrisolvibile.
Per contrastare la diffusione della droga fino a debellarla occorre perciò saper alimentare e riaccendere la fiducia non mitica più, certo, ma razionale, nella possibilità del cambiamento; occorre mantenere viva, cioè, la speranza rivoluzionaria. E in questo compito è chiaro che proprio noi comunisti abbiamo una precisa funzione che risponde alla nostra ragione di essere.
Compito tanto più indispensabile oggi, di fronte a una vera e propria crisi della politica, acutamente avvertita da tutti, ma in modo particolare dai giovani che vedono tanto spesso la politica ridotta a intrigo, a mercato di posti, a puri calcoli, personali o di gruppo, elettorali e di potere, mentre la politica è e dovrebbe essere — e così la concepiamo noi — lotta tra grandi interessi e tra diversi ideali dei rapporti sociali e dei rapporti umani.
Per questo noi abbiamo posto tra i punti centrali delle nostre battaglie quello di un rinnovamento dei partiti, quello nostro compreso, ma anche della politica in generale e del modo di far politica, affinché essa si colleghi, nel pensare e nell'agire, ai bisogni nuovi e ai movimenti reali che sorgono nella società, parte dei quali sono diversi dal passato. E tra questi emergono anche quelli connessi all'esistenza della piaga della droga e alla lotta per vincerla.
Ma, detto questo, bisogna subito aggiungere che sarebbe profondamente sbagliato fermarsi alla considerazione che la droga è un prodotto della società attuale e credere che per debellarla si debba aspettare il cambiamento generale della società. La droga deve e può essere combattuta, arginata, sconfitta fin da ora. E per questo, la prima condizione è sapere come stanno le cose.
Bisogna quindi che si faccia sempre più strada una precisa consapevolezza: il consumo e poi il bisogno di droga è alimentato, provocato da chi ne organizza e controlla la produzione, il mercato e il traffico; da coloro che, attraverso la rovina e la morte di tanti ragazzi, attraverso la disperazione di tante famiglie costruiscono le basi di un vasto potere finanziario e politico, di un dominio perverso che penetra, agisce, ricatta in aree sempre più estese della società, nei gangli della vita pubblica, non solo in singole regioni (Sicilia, Campania, Calabria), ma sul piano nazionale.
Queste organizzazioni hanno un nome: si chiamano mafia, 'ndrangheta, camorra. Ed esse non sono soltanto associazioni criminali che operano isolate, ma hanno collegamenti, protezioni, omertà in settori dello Stato, delle amministrazioni pubbliche, centrali e locali, e in settori dei partiti governativi. Quella che controlla e dirige il mercato della droga è una organizzazione ramificata, che utilizza per questi fini criminali tecniche moderne, metodi e suddivisioni di lavoro propri delle grandi società multinazionali. Si va dalla coltivazione del papavero e della coca, alla installazione di raffinerie clandestine tecnologicamente sofisticate; dal trasporto, ai depositi, alla distribuzione, allo smercio capillare, che viene realizzato con le più collaudate tecniche dell'industria al consumo: dapprima immissione di massicce quantità di droghe leggere a bassi prezzi, poi repentine cadute di questo tipo di offerta e sua sostituzione con droghe pesanti. Così è avvenuto, così avviene in aree sempre più estese. E giungono ormai anche nei più sperduti centri, attraverso una capillare rete distributiva fatta di spacciatori e consumatori, vittime dei mercanti di morte e mercanti essi stessi.
Per avere un'idea delle dimensioni dell'accumulazione di profitti attuata attraverso la droga, basti pensare che il capitale investito nel passaggio da un kg. di morfina a un kg. di eroina si valorizza di ben 20 volte: si passa cioè da 15 milioni di lire per un kg. di morfina base a profitti per il corrispettivo di eroina dell'ordine di 350 milioni di lire nel mercato americano e di 200 milioni in quello europeo. Un dato esemplare: in una sola delle raffinerie di Palermo, delle cinque finora individuate dalle forze dell'ordine, si realizzava una produzione complessiva settimanale valutata in 700 miliardi di lire.
Questa massa enorme di denaro così accumulato finanzia poi altri traffici illeciti, altri traffici di morte come quello delle armi, ma si tramuta anche in denaro riciclato attraverso banche e poi investito in attività produttive e finanziarie, utilizzando flussi di denaro pubblico per mezzo di appalti, subappalti e così via, godendo di condizioni di vantaggio e adoperando mezzi di intimidazione che danneggiano, mettono fuori concorrenza e colpiscono gli imprenditori onesti.
Come vedete, la presenza di questa mostruosa industria del delitto, fondata sul traffico della droga, ma estesa a una serie di altre attività anche economiche, ripropone con forza nuova, con urgenza problemi generali che riguardano la questione meridionale, la democrazia, l'indipendenza nazionale, per riuscire a frantumare e a disperdere il coacervo di interessi criminosi, l'espandersi dei poteri occulti, le mafie, le camorre, le P2, con i loro collegamenti economici e politici, nazionali e internazionali, e le losche operazioni di centri stranieri di ogni tipo ai danni del nostro paese. In questi ultimi anni l'Italia è diventata quello che padre Dante avrebbe chiamato il «vasel d'ogni strame». È avvenuto e sta avvenendo di tutto: sede non solo di consumo ma di transito e di produzione della droga; sede di traffico e fornitura di armi; sede di operazioni finanziarie di carattere puramente speculativo (pensate solo all'Ambrosiano e allo Ior); sede in cui si incrociano e intrigano servizi segreti dei più vari paesi. E si vorrebbe ora che l'Italia divenisse pure sede di nuove basi di missili nucleari. Bisogna che torniamo a essere un paese indipendente, sovrano, pienamente libero e finalmente pulito.
E quale forza può lottare per questi obiettivi più efficacemente e credibilmente del Partito comunista italiano, che è l'unico che può affermare, senza tema di smentite, di essere una forza pienamente libera, pulita, indipendente da ogni vincolo con Stati, governi e partiti stranieri?
Ma questi obiettivi generali debbono essere conseguiti anche con una lotta concreta e specifica sui vari terreni, uno dei quali è proprio quello rivolto a stroncare il mercato della droga. (...)
L'Italia, che è stato finora il solo paese dove la lotta al terrorismo ha assunto un carattere di massa, strettameli te collegata alla azione meritoria e spesso piena di sacrifici delle forze dell'ordine, è il paese che dà anche alla lotta contro la droga il carattere di una grande battaglia di popolo. Ciò fa onore al popolo italiano. E questa impronta popolare e di massa, che è stata così decisiva per isolare e colpire duramente i disegni e l'azione delle bande terroristiche, sarà certamente determinante per colpire i mercanti della droga e per aiutare i giovani a rifiutarla o a liberarsene.

In Berlinguer, attualità e futuro, supplemento a "l'Unità", 11 giugno 1989 


Spudorati! I vescovi dell'Umbria si autotassano a pro dei disoccupati (S.L.L.)

Aprile 2013. I vescovi dell'Umbria a rapporto dal papa poverello.
Alla resa dei conti le sdolcinate sviolinate papali a favore di una Chiesa povera si rivelano per quello che sono: imbonimento puro e semplice. Pigliate i vescovi dell'Umbria: hanno deciso di autotassarsi per finanziare un fondo a favore dei disoccupati. Altro che "Chiesa povera" che rinuncia ai beni terreni e vive d'elemosina e men che mai una "Chiesa onesta" che in un momento di crisi rinuncia - almeno in parte - all'otto per mille estorto anche a chi non esprime preferenze, alle scandalose esenzioni fiscali per i redditi clericali, alle tante provvidenze pubbliche perché s'istituisca un sistema generalizzato di protezione sociale.
Tutto il contrario. I vescovi umbri, senza una parola di critica del loro capo romano, si comportano da grandi, caritatevoli signori pronti a rinunciare a qualcosa per soccorrere i bisognosi. Naturalmente, poi, il fondo governato dai vescovi non distribuirà i sussidi secondo regole certe e criteri di equità, ma a simpatia, com'è uso di lor signori: "A te sì che sei umile, a te no che sei ribelle!".
E intanto tutte le televisioni del mondo, tutti i giornali del mondo e perfino non pochi compagni che se la bevono a dire: "Quant'è bravo sto papa, quant'è umano sto papa". E tutte le televisioni dell'Umbria, i giornali dell'Umbria, certi compagni dell'Umbria: "Hai visto i vescovi! Vedi se lo fanno i politici, se si autotassa la Marini". Chi può dar loro torto? 
La Marini forse gode di qualche privilegio da eliminare, ma non ha fatto voti né fa proclami sulla propria povertà e, se decide di soccorrere i disoccupati e i bisognosi, lo fa da buona cristiana, cioè di nascosto e senza ostentazioni. Mentre Sua Eccellenza il Vescovo senza pudore ostenta la sua carità pelosa.

26.11.13

Nè lui né io. Una poesia di Cecilia Casanova

Berenice Abbott, Interference pattern, 1959-61
Né lui
né io
ci siamo resi conto
che la nostra amicizia era piena
di curve.
Raddrizzarla
sarebbe stato sacrilegio.

La "diversità" dei comunisti italiani (Enrico Berlinguer)

Nel gennaio 1981, per il 60° anniversario del Pci, Enrico Berlinguer rilasciò una lunga intervista alla redazione di “Critica marxista”, che aveva  come oggetto principale la “diversità” comunista, denunciata come “fattore k” dagli avversari, che ne ricavavano l’aprioristica esclusione dal governo, e orgogliosamente rivendicata dal segretario del partito, anche e soprattutto dopo lo strappo con l’Urss. Ne riprendo qualche brano. (S.L.L.)

D. - Il tema della «diversità» comunista è tornato di attualità nei dibattiti, nei discorsi, negli scritti per il sessantesimo anniversario della fondazione del nostro partito. Tu stesso hai parlato, in più occasioni, di una «originalità», di una «peculiarità», di una «alterità» e persino di una «anomalia» del nostro partito.
R.Ho già avuto modo di dire che anche noi, anche il Pci è figlio della rivoluzione russa del 1917, ma un figlio ormai adulto e autonomo. Se ci si giudica in base a ciò che effettivamente facciamo, pensiamo ed affermiamo in ogni sede e circostanza, con fermezza, con serenità e senza alcuna iattanza in Italia e fuori, credo che la nostra piena indipendenza si sia dimostrata effettiva al punto tale che per tutti dovrebbe ormai essere fuori discussione. E non credo nemmeno che valga la pena ricordare che da tempo abbiamo criticato ogni interpretazione totaliz­zante del ruolo del partito. La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio qual è il Pci non ha rinunciato a perseguire l'obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all'assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo (e che tu hai opportunamente ricordato), sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasfor­mazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire una «società di liberi e uguali», non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la «produzione delle condizioni della loro vita». L'obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari. Consapevoli che, invece di avere uno sviluppo dell'umanità, si possa andare anche verso una nuova barbarie (come dice il Marx del Manifesto, verso la «comune rovina delle classi in lotta), noi ci battiamo perché questo esito catastrofico sia evitato all'uma­nità, e chiamiamo a combattere per conseguire un fine di felicità, di serenità, di giustizia, di libertà. […]
L'«assalto al cielo» — questa bellissima immagine di Marx — non è per noi comunisti italiani un progetto di irrazionali­stica scalata all'assoluto. Da storistici, quale era lo stesso Marx (e i nostri Labriola, Gramsci, Togliatti), non ci muoviamo sul piano di un esaurimento della storia: tendiamo invece tutte le energie di cui siamo e saremo capaci per rendere concreto e attuale ciò che è maturo dentro la storia, ce ne facciamo «levatrici», favorendo con il lavoro e con la lotta la processuale fuoriuscita della società dall'assetto capitalistico che, per dirla con le parole del vecchio Engels, ormai veramente “merita di morire”.

D. - Qual è la radice della nostra «anomalia»? In che cosa consiste e come si manifesta la nostra autonomia?
R.Oggi, lo sforzo della classe operaia (e del partito) per affermare la propria autonomia ideale e politica rispetto alla società capitalistica nasce dalla ripulsa dei «valori» dominanti. Per esempio, uno dei valori costitutivi e fondanti delle società capitalistiche è l'individualismo, la contrapposizione fra gli individui, la lotta di ciascuno contro tutti gli altri, di ciascun gruppo o corporazione chiusa in se stessa contro tutte le altre. La classe operaia, e noi comunisti, tendiamo ad affermare invece il valore della solidarietà di classe e della solidarietà di tutti gli oppressi e gli sfruttati. Con ciò è chiaro che noi apriamo una lotta, perché siamo convinti della necessità, della possibilità e della utilità generale di costruire rapporti nella società e nello Stato fondati sul ribaltamento di quel valore, di quella idea base del capitalismo che è appunto l'individualismo.
Ma l'affermazione e la dichiarazione non bastano: bisogna calare questo valore della solidarietà dentro una politica di trasformazione, altrimenti tale valore rivoluzionario si trasforma in quel banale e qualunquistico detto, secondo il quale «stiamo tutti nella stessa barca».
La difficoltà in cui si sono imbattuti i partiti socialdemocratici sta proprio in ciò: che la loro politica, illudendosi di essere «realistica e concreta», nei fatti è diventata spesso adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi dell'impegno al cambiamento dell'assetto dato, li ha portati cioè all'offuscamento e alla perdita della propria autonomia ideale e politica dal capitalismo. La nostra «diversità» rispetto alla socialdemocrazia sta nel fatto che a quell'impegno trasformatore e a quella autonomia ideale e politica noi comunisti non rinunceremo mai.
Quando, per esempio, noi vedemmo che la nostra partecipazione ad una maggioranza di governo non serviva, per altrui volontà, ad avviare un processo di cambiamenti reali, anche se soltanto parziali, del modo di governare lo Stato e di far vivere la gente, non esitammo ad abbandonare quella maggioranza che funzionava ormai in modo antitetico all'obiettivo per cui era nata e cioè far vivere una solidarietà che servisse a far rinascere a rigenerare l'Italia.

Ora in Berlinguer, attualità e futuro, supplemento a "l'Unità", 11 giugno 1989

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