31.10.14

Robespierre (Franco Fortini)

Maximilien Robespierre in un disegno di Tullio Pericoli
Cominciò presto a mutarsi in maschera o marionetta. Prima, il mostro. Il Terrore Bianco, con i suoi eccidi, ne fissò i lineamenti. Poi fu lo spettro, anche per i tardi eredi dei giacobini. «Robespierre s'aggira», «Der Robespierre geht um» era il ritornello dei proletari di Strasburgo, fine Ottocento. Lo schema, la caricatura dell'Incorruttibile, del gelido razionalista, dell'ideologo fanatico è già compiuta, negli anni dell'Impero. Chi capì, intorno alla fine del secondo decennio del secolo, quale straordinario dubbio Manzoni, scrivendo di morale cattolica, poneva ai Restauratori con il suo — calmo in apparenza e angosciato in profondo — giudizio su Robespierre? E la capacità di ridurre la storia a melodramma non è solo di un mezzo secolo di film, lungo tutte le sfumature dell'ignobile, fino a Wayda: è stata, ai nostri decenni, anche la lettura poetica, (traditrice della passione rivoluzionaria delle sue scene feroci) che si dà, a uso dei buoni sentimenti, di La morte di Danton di Georg Buchner, 1830. Almeno gli studenti neonazisti tedeschi che, intorno al 1950, ne impedirono una messa in scena avevano capito di che cosa si trattava. E da allora la maschera Danton, con la sua "sanguigna umanità", come tuttora si scrive, fa coppia e antitesi simbolica, multiuso, con quella di Massimiliano, il represso, il sadico, il glaciale amante della virtù, dominato e sedotto dall'«atroce e teatrale» Saint-Just, come lo chiamò Chateaubriand (che non mancava, va detto, di senso degli aggettivi).
Danton, la mano sul petto, urla alle armi dalla sua statua sul boulevard come La Marsigliese sull'Arc de Triomphe; Robespierre non ha, a Parigi, né pietra né parola. Allo Hotel de Noubise, c'è solo il foglio con la sua firma interrotta da una macchia color ruggine, il sangue del tentato suicidio, nella notte del 28 luglio 1794. In quella straordinaria lezione di anatomia ossea che è la storia della Rivoluzione, se si fosse attenti alla nozione disusata di contraddizione dialettica, si cercherebbe di far capire ai giovani perché gli operai e gli artigiani furono relativamente indifferenti alla caduta di Robespierre. Rileggo nel vecchio Mathiéz: «I termidoriani, prigionieri della reazione, saranno presto trascinati più lontano di quanto credevano e molti di loro si pentiranno nella loro vecchiaia di aver partecipato al 9 termidoro. Uccidendo Robespierre, essi avevano ucciso, per un secolo, la Repubblica democratica. Robespierre fu un esempio memorabile dei limiti della volontà umana alle prese con la resistenza delle cose».
Apro i giornali, accendo la Tv. Quante facce di nostri piccoli termidoriani di una rivoluzione inesistente. E i comunisti che si vergognano di Lenin, ossequiosi ai distinguo delle anime belle liberali. Almeno, il vescovo dei Miserabili si inginocchiava davanti al vegliardo giacobino e "regicida"; almeno c'era un Hugo per immaginarlo e per scriverlo.
Non ho da vergognarmi di avere appreso, con la emozione di un ragazzo piccolo borghese, negli anni del delitto Matteotti, a conoscere Robespierre dalle pagine di Michelet e dai versi del Carducci. Non solo il fulminante alternarsi ritmico di polisillabi rallentati e di monosillabi secanti, che dice una verità non solo lirica: «decapitare Immanuel Kant Iddio/ Massimiliano Robespierre il re». Ma l'altro passo, dove si dice come «quel che dall'avvenir salìa/ d'orror fremito udì Massimiliàn» che, come il falciatore «gli occhi ebbe al cielo e al lavor la man». Rida chi vuole. Quel fremito d'orrore non è solo per gli eccidi del Terrore ma per quelli degli eserciti dell'Impero e ripetuti assassinii, nello scorso come nel nostro secolo, delle Repubbliche democratiche.
Robespierre cadde per i decreti di Ventoso (marzo 1794), ossia per il progetto di confisca dei beni dei nemici della rivoluzione e della loro distribuzione gratuita al proletariato rivoluzionario. Le "leggi agrarie" atterrirono ben più della ghigliottina. Era uno sguardo al di là di ogni realtà possibile. Saint-Just e Robespierre avanzavano come le kantiane «idee della ragione», nel vuoto. Dovevano cadere. Ma da quel punto sarebbero venute l'estate del 1848, la primavera del 1871, l'aprile e l'ottobre del 1917, le guerre di liberazione anticolonialista; e anche, nonostante tutto, l'oggi che ci ostiniamo a rimuovere. Ogni rivoluzione, prima di venir travolta, si accende per un attimo a illuminare le ragioni di quella ventura. Così fu con Lenin e con Mao. E forse accade ad ogni singola esistenza. A te che ora sorridi; e a me. Questo, e null'altro, mi dice il nome di Robespierre, se lo pronuncio.


L'Espresso, gennaio 1989, Supplemento Il terrore e la libertà, primo di due fascicoli dedicati alla Rivoluzione Francese.

Margaret Thatcher, la Pasionaria del privilegio (Gennaro Carotenuto)

Nel momento in cui il premier Renzi, pur con qualche incertezza, tenta di dare la mazzata definitiva al sindacato, guardando al suo esempio, non spiacerà – credo - questo puntuto e puntuale ritratto della Thatcher. (S.L.L.)

Margaret Thatcher è stata una rivoluzionaria. Una rivoluzionaria che ha segnato la storia del suo paese, dell’Europa, del mondo. È stata la “Pasionaria del privilegio”, come la definì il primo ministro laburista Harold Wilson, ha smantellato pezzo per pezzo i fondamenti della democrazia, consegnandola nelle mani della parte più perversa dell’economia capitalistica, quella finanza deregolata sulla quale si è illusa di costruire le fortune di un paese che ha voluto post-industriale. Ha trionfato, ha spezzato le reni a una classe operaia che non si è più risollevata e, nonostante nell’ultimo decennio sia stato chiaro a chiunque fosse intellettualmente onesto quanto fossero d’argilla i piedi della sua rivoluzione conservatrice, muore nel suo letto come il suo amico Augusto Pinochet.
Se siete precari, se vi è stata negata una scuola pubblica adeguata, se siete malati e non avete diritto a un’assistenza sanitaria pubblica degna e non vi potete permettere quella privata, se pensate che la pensione non sarà mai affar vostro, allora potete ringraziare la Baronessa. Figlia di un droghiere costruì il proprio fisico bestiale nel farsi accettare da quella classe dirigente della quale bramava essere membro. Quante ne deve aver passate per arrivare dov’è arrivata, circondata com’era da decine di persone meglio nate di lei per sesso e condizione sociale. Resterà celebre il suo sostenere che la società non esiste e che solo gli individui meritano attenzione, in un’orgia retorica di libertà e meritocrazia che in soldoni garantiva solo chi era già libero dal bisogno e meritevole per censo, per meglio affondare e sfruttare tutto il resto del paese e del mondo. Doveva farsi più realista del re, più dura di tutti loro. E lo è diventata. Come iniziazione, già da ministro dell’istruzione, nel 1970, cominciò col rubare il latte ai bambini. La “milk snatcher” privò i bambini proletari di quell’apporto calorico fino ad allora garantito dallo stato. Tre anni dopo anche il suo intimo Pinochet cominciò così, appena si sollevò il fumo del bombardamento della Moneda a Santiago del Cile dopo l’11 settembre. Quel latte pubblico, quel latte popolare risultava così odioso ai leader di quella nuova stagione politica che per sconfiggere i lavoratori organizzati decisero di cominciare dall’affamarne i figli.
Sul comodino teneva Friedrich von Hayek e Milton Friedman e quell’Inghilterra keynesiana, che il suo stesso partito aveva contribuito a costruire come lenimento allo scontro sociale, divenne spazzatura. Almeno lei, laureata a Oxford, aveva qualcosa sul comodino, il suo amico Ronald Reagan nulla. Voleva lo scontro, lo cercò, lo trovò, lo vinse. Contro tutti, contro i sindacati, contro l’IRA irlandese, indifferente allo sciopero della fame di Bobby Sands e dei suoi, morti come mosche, contro l’Unione Sovietica. La storia continuerà a interrogarsi se lei e Reagan la sconfissero davvero o quanto questa crollò su se stessa, avvizzita e improponibile. Con l’URSS alla sua crisi finale però tutto fu più facile per la rivoluzione conservatrice che non ebbe più bisogno di patteggiare con nessuno. Furono liberi di vedere un mondo semplificato dove i loro interessi coincidevano con quelli della società. I corpi intermedi, le rappresentanze di classe, l’equilibrio della trattativa, tutto perdeva di senso. Avevano vinto loro.
Margaret Thatcher fu la grande costruttrice del mondo unipolare e del pensiero unico, di una globalizzazione neoliberale proposta come la mondializzazione dei valori della libertà e della democrazia e che si è rivelata un’illusione occidentalista che ne ha invece marcato il declino e segnato in peggio le esistenze di chiunque sia nato dagli anni ’60 in avanti. Ai nostri genitori è toccato il miglior slot della storia, hanno goduto di buone scuole pubbliche, servizi sociali, salute, e sono andati in pensione – per la prima e forse unica volta della storia - con assegni dignitosi. A noi e ai nostri figli – thanks to Mrs. Thatcher - è toccato il baratro.
Grande statista chi butta a mare due terzi della società per dimostrare quanto è brava a far star meglio la parte più privilegiata. Se Silvio Berlusconi consigliò la giovane precaria di trovarsi un fidanzato ricco, sintesi perfetta della conservazione maschilista, Margaret Thatcher ha fatto di meglio: si è fidanzata con tutti i ricchi del paese. È nell’etica immorale dell’aiutare solo chi è già forte a essere ancora più forte, nella balla scientifica del merito che ha affondato milioni di diseredati, nella pretesa di una tassazione uguale per tutti -ricchi e poveri- e proprio per questo più iniqua, è nell’odio senza quartiere contro ogni valore di solidarietà e comunità in collaborazione con un sistema mediatico che imponeva consumi, consumi e consumi, come gli unici valori meritevoli il segno del suo trionfo e della desolazione attuale. Il suo sovranismo antieuropeo fu proverbiale e forse piacerebbe molto oggi a chi non vede nell’Europa l’unica costruzione meritevole di essere difesa. Ma è lei, come ha detto autorevolmente Romano Prodi, la madre della crisi attuale, disegnando un mondo affidato solo al mercato che oggi segna il declino dell’Europa stessa e dell’Occidente.
È lei che ruppe l’egemonia culturale della sinistra socialdemocratica che aveva dominato il dopoguerra e l’ha sostituita con un’egemonia oppressiva, quella del neoliberismo e dell’individualismo più duro, darwinista più che calvinista. Amica per la pelle di dittatori sanguinari come Augusto Pinochet (per la liberazione del paziente inglese si spese come per nessuno dopo l’uscita da Downing Street), nemica giurata di eroi positivi come Nelson Mandela, che per lei era solo un “terrorista”, non aveva tabù. Neanche quello di lanciare la bomba atomica su di una città di 12 milioni di abitanti come Buenos Aires. Se lo portò dietro, il gingillo atomico, pronto all’uso alla bisogna. Il gioco delle parti con quell’ubriacone di Massera, il dittatore argentino succeduto a Videla, fu magistrale. O lui o lei: entrambi i regimi erano in crisi di consenso. Nel momento di massima difficoltà per Margaret Thatcher, che si avviava senza gloria a perdere le elezioni dell’83, dopo quattro anni di governo fallimentare per gli stessi tories e con la disoccupazione alle stelle (vinse comunque solo per la divisione dell’opposizione), l’avventurismo dei generali argentini alle Malvinas/Falkland fu il più gradito dei regali: quel consenso che non poteva avere in politica economica e che solo i monopoli mediatici facendole da grancassa le magnificavano, lo ottenne facendo capo al decrepito nazionalismo imperialista dell’Union Jack e delle cannoniere.
Modernissima nell’intuire nel neoliberismo la nuova frontiera del conservatorismo, seppe guardare indietro, all’imperialismo classico delle cannoniere e della regina Vittoria per stringere a coorte il popolo britannico e costruire nella bandiera quel consenso che non poteva avere spingendo senza pietà milioni di persone fuori del mercato del lavoro. Come sempre la nazione vince sulla classe, la comunità militarizzata vince su quella solidale. Trionfò, nel remoto sud dell’Atlantico e quindi nelle urne, e andò avanti a smantellare la base industriale del paese che l’industria aveva inventato due secoli prima. Per lei avere più disoccupazione non significava niente, non era lei a pagare e indusse il “nemico”, perché nemico erano per lei i lavoratori organizzati, alla disperazione.
Con lei il conservatorismo smise di essere il partito dello status quo per presentarsi come quello della trasformazione. Erano i sindacati, perfino quelli britannici prudenti e responsabili, a essere di colpo vecchi, a essere un freno al “riformismo”, una parola con un secolo di passato progressista e sequestrata con lei dall’altro campo. Fu così, sulle macerie di una sconfitta totale della classe lavoratrice, che il suo principale emulatore si rivelò essere quel giovane arrivista di Tony Blair. Privatizzazioni come quella delle ferrovie, un monopolio naturale, sono un monumento all’inefficienza del neoliberismo: più care, più scadenti, più pericolose, più costose per lo stato costretto a sovvenzionarle per tenerle sul mercato. Oggi in Gran Bretagna ci sono più disoccupati, meno studenti universitari, meno riserve auree, più debito. Solo la finanza ha distribuito un po‘ di ricchezza, ma dal 2008 in avanti anche questa, col sistema bancario, ha avuto bisogno di quasi mille miliardi di soldi pubblici per restare in piedi. Lo Stato glieli ha dati. Per le banche ce ne sono sempre.
Chi scrive viveva a Londra in quella fine di novembre del 1990 quando Margaret Thatcher fu messa in minoranza da John Major e dovette abbandonare dopo undici anni e mezzo il numero 10 di Downing Street. Conservai a lungo la copia dell’Economist che ne tesseva le lodi in un lungo speciale. Aveva creato tanta ricchezza, è vero. Compiacere i ricchi era la sua ossessione. Ma a che prezzo questa ricchezza era stata creata si poteva leggere in quello stesso speciale. Durante il suo governo per ogni cittadino britannico che aveva passato verso l’alto l’assicella delle 50.000 sterline di reddito annuo, ben dieci lavoratori avevano dovuto scendere verso il basso al di sotto della linea delle 5.000. Per fare un ricco le fu necessario spingere dieci persone verso la povertà. È questo il prezzo del neoliberismo. I media monopolisti mostrano incessantemente chi ce l’ha fatta. Ma da Brixton a Civitanova Marche, l’eredità di Margaret Thatcher è pianto e stridore di denti.


dal sito “sotto le bandiere del marxismo”, 9 aprile 2013

Il vecchio Bordiga, oggi (Giuseppe Fiori, 1970)

Amadeo Bordiga in un disegno a penna degli anni 20 del Novecento
Napoli, maggio (Dal nostro inviato speciale)
Vicino agli ottantun anni e afflitto da disturbi circolatori, Amadeo Bordiga è costretto quasi all'inattività. Riesce a star seduto, ma la posizione l'affatica. E' un corpaccione afflosciato. Poggia i piedi gonfi su un cuscino e l'ampio torace alle mani annodate sull'impugnatura di un bastone che gli fa da puntello. Ci vede poco, le figure sono filtrate da lenti molto spesse.
«Tu», subito il tu che invita al rapporto confidenziale, «hai scritto un mucchio di ...», e qui un'espressione plebea, «ma non sei una carogna».
Come accoglienza non è poi tanto male. Ci avevano avvertito. Da venticinque anni Bordiga rifiuta le interviste, non ama i giornalisti, li giudica tutti «mercenari». Che abbia acconsentito a vederci, è quindi un fatto già di per sé incoraggiante.
D'origine piemontese, figlio d'un professore d'economia rurale a Portici ed anch'egli, dopo la laurea in ingegneria, assistente a Portici di meccanica agraria, ebbe un ruolo preponderante nella fondazione del partito comunista d'Italia e lo diresse, capo incontrastato, sino al ritorno di Gramsci da Mosca e Vienna nel '24. Un po' tutti ne subivano il fascino, compresi gli uomini dell'Ordine Nuovo, di formazione culturale assai diversa.
Il primo a staccarsene fu Gramsci, che però del leader napoletano ammirava la «personalità vigorosa», l'ingegno, l'intraprendenza e il carattere «tenace ed inflessibile». Quando il Comintern gli propose di prenderne il posto alla guida del partito, ebbe inizialmente forti esitazioni: «Per sostituire Amadeo nella situazione italiana bisogna avere più di un elemento perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale di lavoro, vale almeno tre». Più lenti a respingere le posizioni schematiche e settarie di Bordiga furono altri «ordinovisti» come Togliatti e Terracini e Gramsci, una volta fatta la sua scelta sulla linea dell'Internazionale, non mancò di dolersene.

A colloquio con Lenin
Poco più che trentenne, Bordiga era stato il primo dirigente comunista italiano a conoscere e a scontrarsi con Lenin, il quale tuttavia ne aveva grande stima. Si videro per l'ultima volta pochi giorni dopo l'ascesa di Mussolini al potere. Di quest'incontro abbiamo adesso la testimonianza diretta.
«Si svolgeva a Mosca» ci racconta il vecchio capo, «il IV Congresso dell'Internazionale. Gli altri della delegazione italiana avevano lasciato l'Italia prima della "marcia" su Roma. Io fui l'ultimo a partire, e questo avvenne dopo il 28 ottobre. Lenin era malato: si diceva che non ce l'avrebbe fatta a venire al congresso. Preoccupato, chiesi di vederlo. Non era facile, perché i medici gli avevano sconsigliato i colloqui prolungati e le discussioni politiche. Ma all'improvviso mi fu concesso di fargli visita, Lenin voleva conoscere da me gli avvenimenti italiani, e proposi a Camilla Ravera di accompagnarmi. Vennero anche D'Onofrio e Silone. Non poterono salire e s'accontentarono di aspettare giù in attesa. Ricordo che Lenin ci accolse non a letto ma nel suo studio. Ce l'aveva, scherzosamente si capisce, con i medici, molto severi nel controllargli la durata dei colloqui coi compagni».
Parla torrentizio, mangiandosi le parole, e si fatica a seguirlo: «Subito mi chiese un rapporto sui fatti d'Italia. Gli dissi della "marcia" su Roma, dell'incarico dato dal re a Mussolini di formare il governo eccetera; poi aggiunsi la mia interpretazione degli avvenimenti».
Secondo il capo del Pcd'I, fascisti e liberali andavano messi nello stesso mucchio, tutti nemici di classe, tutti ugualmente difensori dell'ordine capitalistico: Mussolini valeva Giolitti o Turati, e dunque dov'era il fatto nuovo se un partito borghese, quello fascista, prendeva il posto d'altri partiti borghesi alla guida del governo? Del resto, in ciò Bordiga era seguito da Terracini, che giudicava la "marcia" su Roma e l'affidamento del potere a Mussolini «una crisi ministeriale un po' mossa», e da Togliatti, per il quale il «tiranno bieco» da combattere aveva «un solo aspetto e un triplice nome: Turati, don Sturzo e Mussolini».
Non riusciamo a sapere da Bordiga se Lenin ebbe qualcosa da obiettare a simile interpretazione. «Mi chiese come avessero reagito gli operai. Gli raccontai i molti episodi di lotta avvenuti in luoghi diversi per respingere le violenze fasciste. Allora Lenin ci esortò a mantenere, ed anzi ad accrescere, i contatti con le masse. Prevedeva che saremmo andati incontro a momenti difficili. Si parlava appunto di questo, quando entrò la moglie. Dovevamo accomiatarci: il tempo concesso dai medici per il colloquio era scaduto».
Ebbe inizio il declino di Bordiga, sino alla definitiva sconfitta nel congresso di Lione (gennaio del '26). Poi l'arresto, il 10 ottobre del '27, l'assoluzione due anni dopo e l'invio a Ponza, confinato.
«Ripresi a fare l'ingegnere» ricorda.. «I ponzesi erano piuttosto causidici, litigavano per questioni di confine dei terreni, e se una famiglia si affidava per la perizia a Peppino Romita, altro ingegnere confinato, la controparte veniva da me. Facevo anche progetti di case. Ma un giorno ci chiamano in Comune: "I vostri progetti non potranno più essere approvati". E perché mai? Il confinato ha l'obbligo di lavorare. Deve mettersi forse in un mestiere che non sa? Inoltrammo ricorso al ministero dell'Interno. La risposta: picche. Liberato nel '30 tornai a Napoli. Vita difficile: i clienti per paura s'allontanavano».
Intanto Bordiga, sempre più in contrasto col nuovo gruppo dirigente guidato da Togliatti, era stato espulso dal Pci. E qui cade opportuna una domanda. A quel tempo, Trockij viveva a Royan, nei pressi di St-Palais (Gironda). Alfonso Leonetti, altro dirigente espulso, era andato a trovarlo. Sentì chiedersi: «Perché Bordiga non viene a darci una mano?». «Trasmisi l'appello all'ex capo del partito», ci ha testimoniato Leonetti, «ma non ne ebbi risposta». Chiediamo dunque: «Come mai, dopo che foste espulso...».
Non ci lascia terminare, «Io», esplode, «non sono mai stato espulso». Lo grida con tutta la sua antica vigoria, è squassato da un impeto d'ira. Ha sollevato il bastone, lo agita a mulinello davanti al nostro viso, tutto il corpo vibra «Sono stato io a buttarli fuori quei...» e giù una tempesta di parole triviali.
Emerge infine un lato insospettabile della sua personalità. Le nuove generazioni quasi ne ignorano il nome. Sino a pochi anni fa, le storie ufficiali tacevano la parte dominante da lui avuta nella formazione del partito. Chissà quanti lo credono morto, tanto a lungo s'è fatto silenzio intorno alla sua figura. In ogni caso, un Bordiga direttamente impegnato nella lotta politica quarant'anni dopo il suo ritiro dalla milizia di partito chi poteva immaginarselo?
Eppure è così. Il fondatore del partito comunista d'Italia si considera ancor oggi il capo dell'unico vero partito comunista operante nel paese. Ha «buttato fuori» Togliatti e soci, i cui eredi gestiscono «un partito riformista». («Gli avvenimenti storici hanno dimostrato che avevo ragione io», sostiene) e dopo «l'espulsione» dei «traditori» ecco, depurato della frangia «opportunista», il solo partito rivoluzionario d'Italia, il suo, quello più seriamente ispirato ai testi classici del marxismo, il «partito comunista internazionale». Ha un migliaio di seguaci («il numero non m'interessa», dice), in generale vecchi emigrati politici che gli sono rimasti fedeli. Pubblica un quindicinale, «il programma comunista», un mensile di lingua francese, «Le proletaire» ed un periodico in lingua danese «Kommunistik Program». Le tesi attuali del «Partito comunista internazionale»? Esattamente quelle del 1921-22.
Tifo sportivo
Ripensiamo ad una battuta riferitaci in apertura di colloquio; di Zinoviev che diceva, per definire l'ostinato dirigente napoletano: «E' un palo telegrafico. Dov'è piantato, dopo dieci anni lì lo trovate». Lo abbiamo ritrovato lì dopo cinquant'anni. E ancora non s'arrende. «Al lavoro di partito non rinunzio anche se mi dicessero che dopo due ore muoio».
L'assiste, leggendogli i giornali e scrivendo sotto dettatura lettere e articoli, Antonietta De Meo, che ha sposato cinque anni fa, dopo la morte della prima moglie Ortensia, sorella di Antonietta. Oltre la politica, ha una sola passione, rivelata da questo episodio. Gli telefona Sergio Zavoli, chiedendogli un'intervista per la televisione. Il vecchio rivoluzionario, puntigliosamente sfuggito per decenni a fotografi e cineprese, risponde immediatamente di sì; ma non all'intervistatore di Von Braun, Schweitzer, Follerau, accetta di ricevere l'animatore del «Processo alla tappa», ritrattista di ciclisti. I campioni della bicicletta hanno in Bordiga un ammiratore fervido. «Prima che si iniziassero le riprese» sappiamo da Zavoli, «a lungo mi ha parlato di Lenin, Gimondi, Stalin, Trotckij e Motta».


La Stampa, n. 102, 16 maggio 1970


NONOSTANTE LA CGIL. UN MACIGNO SUI PIEDI DI RENZI (S.L.L. - Stato di fb)

Roma, La manifestazione CGIL del 25 ottobre 2014. Alcuni perugini
Facciamo a capirci. La manifestazione di Roma della Cgil è stata convocata da una confederazione riluttante non per un dissenso radicale sull'insieme dei provvedimenti sul lavoro, che sarebbero stati tranquillamente criticati e assorbiti, ma per un articolo sui licenziamenti che - dopo l'abolizione dell'articolo 18 - tende a renderli ancora più facili. Si trattava di un provvedimento del quale nessuno in Italia sembrava sentire il bisogno, emanato dal governo Renzi con l'evidente scopo di provocare e sfidare un sindacato per tante ragioni impopolare, insomma per crearsi un "nemico" di comodo, secondo una tecnica politica antica e da molti collaudata.
Per rendere più evidente la sfida il leader del Pd e capo del governo, nello stesso giorno della manifestazione romana indetta dalla Cgil, aveva programmato alla Leopolda di Firenze uno "Spezzeremo le reni alla Grecia!", che non a caso aveva tra finanziatori e protagonisti diversi esponenti del capitalismo finanziario e manageriale.
Al di là delle stramberie di alcuni interventi, il messaggio da Firenze è stato esplicito: per i "leopoldi" non c'è ragione per cui il lavoro sia un soggetto politico e sociale; per loro non è altro che una merce, sottoposta come tutte le altre alle leggi del mercato. Per Renzi e i suoi la stessa esistenza del lavoro è anzi un effetto dell'azione del capitale e dell'impresa, che devono perciò essere aiutati dal governo perché possano crearne. Per i “leopoldi” nella produzione della ricchezza sociale il lavoro è fattore assolutamente secondario e la sua remunerazione può essere mantenuta a livelli di sopravvivenza. La "centralità dell'impresa" che i berlusconidi rampanti volevano costituzionalizzare, cancellando lo scandalo della "repubblica fondata sul lavoro", viene per questa via posta alla base della nuova "costituzione materiale". Il Pd in questo modo cessa di essere un "partito della nazione" che come la migliore Dc programmaticamente mediava tra interessi sociali diversi e tra loro a volte contrapposti, o un partito democratico all'americana, articolata coalizione sociale ed etnica, ma il "partito del capitale e dell'impresa", considerati i primattori, anzi i mattatori di uno sviluppo a cui si chiede assai più quantità che qualità. Sono capitale ed impresa la guida naturale dell'intero corpo sociale e ai loro interessi deve essere piegata l'intera legislazione.
Ma stavolta al presidente del consiglio e comandante in capo del Pd non è andata bene. Il successo della manifestazione di Roma, l'ampiezza e la varietà delle partecipazioni dicono con chiarezza che Renzi ha sollevato un macigno per farselo ricadere sui piedi. Egli si aspettava un fallimento della giornata romana, una manifestazione di apparato e di pensionati (di nonni, diceva qualcuno) a testimoniare la residualità dell'opposizione "lavorista" alla nuova ideologia e alla nuova prassi e invece si è trovato davanti a tanti di quei giovani che hanno consigliato ai collaboratori del premier qualche segnale di moderazione (gli sberleffi arriveranno, ma solo stasera nell'intervento del capo, secondo lo stile di Mussolini e Bossi). Il successo della manifestazione non si deve affatto, a mio avviso, alle capacità e alla tenuta dei gruppi dirigenti Cgil, Camusso inclusa, che l'hanno decisa con riluttanza, come trascinati dalla provocazione governativa. Tantissimi manifestanti sono andati a Roma "nonostante la CGIL": lo hanno detto e lo hanno dichiarato. In ogni caso il successo carica di responsabilità la dirigenza sindacale, specie quella della FIOM, a cui tanti chiedono qualcosa di più di una dignitosa sconfitta, cioè la promozione - in forme tutte da inventare - di una forza politica di sinistra ampia e responsabile, capace di dare rappresentanza e voce al lavoro e di ottenere qualche vittoria, una sinistra molto rinnovata nei metodi, nello stile e nelle figure di rappresentanza, visto lo scarso credito di cui godono, a buona ragione e ad ogni livello centrale e locale, i gruppi dirigenti dei partitini dell'estrema e le correnti antirenziane del Pd.
E' già accaduto in molti paesi d'Europa e in Italia nel 1892, anno di costituzione del partito socialista, che fossero le Camere del Lavoro e i dirigenti delle organizzazioni operaie di mestiere mestiere a premere perché il lavoro avesse una diretta rappresentanza politica, di modo che i sindacati avessero una sponda nelle assemblee legislative. Credo che il problema si riproponga oggi, con molta forza.


Stato di fb, 26 ottobre 2014    

Gìmene al letto... Una canzone erotica del Trecento

Tra le Cantilene e ballate, strambotti e madrigali nei secoli XIII e XIV, che Giosuè Carducci raccolse (Sesto San Giovanni, 1912), traendo i testi dai codici collezionati dall'erudito fiorentino settecentesco Antonio Malabechi, sotto la voce « Canzoni popolari» c'è questo bel dialogo tra un amante e la donna amata, che non mi sembra in senso stretto “popolare” seppure anonimo. (S.L.L.)

Gìmene al letto della donna mia,
stesi la mano e toccaile lo lato.
Ella si risvegliò, ch'ella dormìa:
«Onde ci entrasti, o cane rinnegato?»
«Entraici dalla porta, o vita mia;
priegoti ch'io ti sia raccomandato.»
«Or poi che ci se' entrato, fatto sia.
Spogliati ignudo e corquamiti a lato.»
Poi ch'avem fatto tutto nostro gioco,
tolsi li panni e voleami vestire:
ed ella disse: «Stacci un altro poco,
che non sai i giorni che ci puoi transire».

30.10.14

L'inflazione galoppante nella Germania di Weimar (Lucio Villari)

Tra le spiegazioni che si danno delle rigidità tedesche nelle politiche monetarie dell'Unione e della Banca Europea, ce n'è una di carattere storico, quella secondo cui a quasi cento anni di distanza in Germania farebbe ancora paura lo spettro dell'inflazione galoppante di cui fu vittima negli anni Venti del Novecento. A me sembra che quella vicenda, per quanto persistente nella memoria collettiva, non conti molto nell'orientare oggi le scelte di governanti e banchieri e tuttavia può rispondere a qualche curiosità la ricostruzione giornalistica che segue, vivida. (S.L.L.)
Nel 1924 una troupe americana diretta da David Griffith, l'autore di Intolerance e di Nascita di una nazione, girò nei dintorni di Berlino un film ambientato nella Germania dell'inflazione e della miseria. Non ho mai visto questo film, e non so se il titolo datogli da Griffith (Non è meravigliosa la vita?) fosse una amara ironia oppure un invito alla speranza. Certo, se il grande regista americano era venuto in Germania per raccontare una storia di desolazione e di fame (nel film i protagonisti mangiano quasi esclusivamente patate: spettacolo, comunque, non inconsueto neanche negli Stati Uniti), qualcosa doveva averlo colpito o attratto fa modo particolare. La percezione, forse, che la grande inflazione, questo dramma esistenziale quotidiano che da due anni attanagliava il popolo tedesco, rivelasse la decadenza invisibile di una civiltà; infatti molti, in Germania e fuori della Germania, erano convinti da tempo che una grande nazione stesse morendo nel cuore dell'Europa.
Gli intellettuali, gli artisti e quanti avevano immaginato e amato la società e la cultura tedesche come parte fondamentale dell'universo compatto della civiltà europea, si sentivano davanti alla Germania come degli archeologi in gara col tempo dissolvitore. La forte e antica Germania scompariva a vista d'occhio, consumata dall'inflazione. Una agonia inedita nella storia del mondo contemporaneo, ma anche, come accade nelle sconfitte, un momento di verità collettiva e di turbamenti individuali. Di lì a poco sarà Thomas Mann a far balenare, nello sconcertante romanzo breve Disordine e dolore precoce del 1925, la testimonianza dello sgomento borghese annidato in una crisi economica generale e in un «disordine» intellettuale e familiare.

Meccanismi impazziti
Della grande inflazione che aveva colpito la Germania agli inizi degli anni Venti e che aveva raggiunto il massimo della virulenza nel 1923 non era facile, infatti, capire tutte le ragioni, né era possibile seguire i meccanismi degenerati e impazziti. In generale, questo accade nei confronti di tutte le inflazioni, dalla «rivoluzione dei prezzi» scoppiata in Europa nei decenni a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, all'attuale inflazione italiana del 20 per cento. Ci si accorge stupiti che il denaro scivola velocemente tra le dita, che agli speculatori, agli evasori, ai tagliatori di cedole, le cose vanno comunque bene; che i capitali e i prodotti ci sono fa abbondanza, e tuttavia incombe l'insicurezza, si avverte una smania impotente e si protende dappertutto l'ombra dell'indigenza. Ebbene, nella Germania della grande inflazione questi stati di fatto e questi sentimenti culminarono fa una crisi mai conosciuta fa un paese capitalistico. «Fu quello», ricorderà un altro regista, Fritz Lang, «un periodo di incertezze, di isterismo, di corruzione sfrenata. Gli uomini si trovarono a dover affrontare una situazione sconosciuta: l'inflazione».
Come è stato descritto fa diverse ricerche storiche, la miseria dilagava in un paese che, seppur vinto in guerra e pressato dalla Francia per le riparazioni, aveva la produzione industriale più avanzata e moderna del mondo, ma nonostante ciò quasi tutta la popolazione attiva era ridotta sul lastrico; finivano tutti i privilegi, eccetto quelli dei proprietari di capitali e di mezzi di produzione, si assisteva al «trionfo della speculazione, della corruzione, della prostituzione, alla dissoluzione di tutte le barriere sociali, di tutte le ideologie democratiche, alla irrisione di tutti i cosiddetti valori morali».
Uno scenario di tali dimensioni non poteva essere pienamente dominato e inteso, e difficilmente se ne sarebbe potuta dare una spiegazione complessiva e un'immagine totale. C'è dunque una motivazione storica oltre che estetica nelle parole, ancora di Fritz Lang, del 1925: «Se c'è qualcosa che ha il dovere di testimoniare davanti al mondo sul popolo tedesco, sulle sue disgrazie, sulle sue speranze, è proprio il cinema; nella sua forma più elevata, l'unica che gli conferisca il diritto di esistere». E i suoi film eccezionali sono infatti anche un documento, oltre che una metafora dell'inflazione.
Immaginiamo allora che nel novembre del 1923 degli operatori cinematografici seguissero per qualche giorno le quotazioni del dollaro sui tabelloni luminosi delle Borse di Berlino e di Colonia. Si sarebbero viste cose incredibili. 12 novembre: alla Borsa di Berlino il dollaro aveva già raggiunto la quotazione ufficiale di 630 miliardi di marchi. Ventiquattr'ore dopo, raggiungeva la quota di 830 miliardi. Il 14 novembre 1.260 miliardi, il 15 novembre 2.520 miliardi e il 20 novembre 4.200 miliardi. Negli stessi giorni, la Borsa di Colonia registrava quotazioni ancora più folli: dai 6.850 miliardi di marchi del 14 novembre agli 11.700 miliardi del giorno 20. Praticamente ogni minuto il valore del marco tendeva a diminuire. Volendo fare dei calcoli precisi, sulla base delle quotazioni alla Borsa di Berlino, si può stabilire che fa quella settimana di novembre i berlinesi erano in possesso di moneta che ogni ora perdeva rispetto al dollaro 18 miliardi e 593 milioni di valore, cioè 309 milioni al minuto. Risponde dunque a verità quanto gli attoniti viaggiatori stranieri raccontavano di avere visto fa Germania. Un paese di «meraviglie», dove si entrava fa un ristorante e si veniva immediatamente avvisati, anche con segnali luminosi, che il prezzo di ciò che si mangiava aumentava man mano che lo si mangiava.

L'intervento di Schacht
Ho indicato il 12 novembre, come la data iniziale di una settimana-campione tra le più pazze della grande inflazione, perché fa quel giorno entrò in scena il banchiere Hjalmar Schacht, uomo chiave del capitalismo tedesco per i successivi vent'anni. Il 12 novembre Schacht fu infatti chiamato alla carica di Commissario monetario del Reich con poteri pieni e straordinari. Era una decisione del cancelliere Stresemann, che appena tre mesi prima aveva formato un governo di coalizione insieme con i socialisti. Ma neanche i socialisti avevano saputo fino a quel momento che pesci prendere.
Gli unici dati, per così dire, certi — oltre la progressione geometrica verso il basso del valore del marco — erano le trenta cartiere che lavoravano a pieno ritmo per fornire alla Reichsbank (l'equivalente della nostra Banca d'Italia) la carta filigranata, e le 133 tipografie con 1783 macchine che stampavano fa continuazione biglietti di banca. Una massa di denaro che si spendeva rapidamente e sulla quale tuttavia c'era chi speculava fa modo forsennato. Infatti, mentre i biglietti di banca avevano pur sempre la «firma» dello Stato e una, seppur parziale, copertura nelle ricchezze naturali della Germania, quali ad esempio la terra (con l'avvento di Schacht il marco fu appunto riconvertito nel Rentenmark, il marco-rendita fondato sul valore della terra), le grandi imprese private, industriali e commerciali, si misero a stampare in proprio moneta senza copertura, per un valore che nel 1923 era il doppio di quello stampato sulle emissioni della Reichsbank. Questo denaro privato (chiamato Notgeld) raggiunse nel 1923 la cifra allucinante di circa 500 trilioni.
Quando, in tale marasma, i negozianti al minuto cominciarono a chiudere i loro negozi in certe ore e in certi giorni della settimana, sapendo che alla riapertura avrebbero guadagnato di più, scoppiarono dappertutto sommosse e avvennero innumerevoli saccheggi. Stresemann fu costretto, il 27 settembre, a proclamare lo stato d'emergenza. «Dalla primavera del 1919 in poi», scrive nelle sue memorie il banchiere Schacht, «la Germania non era più stata, come in queste settimane, tanto vicina al pencolo della bolscevizzazione».
Uno dei primi interventi di Schacht fu un'ordinanza della Reichsbank del 17 novembre, che vietava a chiunque di accettare in pagamento i Notgeld, gettando così nel panico i profittatori di questa gigantesca truffa. Di essi si fece subito portavoce il magnate della siderurgia Stinnes, l'anima nera del capitalismo tedesco, che cercò di impiantare una campagna diffamatoria contro il pur conservatore Schacht. Ma il governo Stresemann non si fece intimidire e proseguì per la sua strada avviando, già nei primi giorni di dicembre, un processo di stabilizzazione monetaria e di riconversione del marco che proseguì per molti lunghi mesi grazie anche al sostegno degli Stati Uniti e, fa particolare, dei banchieri di Wall Street. Costoro fiutavano infatti l'affare di investimenti colossali fa un paese ricco di risorse come la Germania.
Grazie a Schacht, l'«Internazionale del capitale» si rimetteva dunque fa moto. La sera del 31 dicembre 1923 Schacht partiva per Londra e il giorno dopo festeggiava 1'anno nuovo con il governatore della Banca d'Inghilterra: anche la City a dichiarava disposta a collaborare aprendo crediti alla Germania. Altrettanta disponibilità dimostrò il presidente della Banca d'Olanda che Schacht visitò nel viaggio di ritorno da Londra. E così anche il ruvido Stinnes cominciò a capire che la fotta all'inflazione avrebbe potuto tornare a vantaggio della accumulazione capitalistica e dello sviluppo degli apparati produttivi del paese. Intanto i membri socialisti del governo sbiadivano sullo sfondo di una operazione che non erano fa grado di controllare fa alcun modo.
Dalle macerie della grande inflazione rinasceva dunque il capitalismo «organizzato». La repubblica di Weimar riprendeva a camminare guidata dalla mano ferma del potere economico e dalle idee di una borghesia che aveva rasentato la perdizione.


“la Repubblica”, 24 novembre 1981

I mostri di Palagonia (Leonardo Sciascia)


Almeno una volta l'anno, rivedo la villa Palagonia, la settecentesca villa di Bagheria dove, diceva Giovanni Meli, l'arte impietrisce, eterna e addensa gli aborti di bizzarra fantasia (e l'ottava continua con Giove che riconosce la propria «insufficienza»: mostri ne escogitai quanto seppi; ma dove finì la mia potenza, da quel punto stesso cominciò Palagonia - cioè il principe Ferdinando Gravina di Palagonia; ed è un bel concetto, direi alla Borges, questo del dio che consegna alla fantasia umana la prosecuzione della serie dei mostri). E ogni volta mi appare sempre più disgregata, fatiscente, dentro il cerchio che le si stringe a soffocarla del cemento, delle case nuove.
Goethe, che con tanto spregio ne scrisse, sarebbe forse contento di questa nemesi: una mostruosità che ne divora un'altra. Noi no: poiché abbiamo bevuto in ben altre cantine e ben altri mostri abbiamo visto generati dal sonno della ragione. Questi di Palagonia ce li eravamo addomesticati: piccoli mostri da guinzaglio, da passeggio; roba da «spleen» rurale, domenicale. Sicché mentre si disgregano e scompaiono, la sola cosa che nella villa resta a suscitare inquietudine è il ritratto di colui che così l'ha voluta: un signore magro e allampanato, tutto azzimato e incipriato, in abito da cerimonia; uno cui piaceva pagare da sé le proprie follie e far pagare agli altri le proprie virtù – così lo vide Goethe, questo seppe di lui. E anche noi. (da Nero su nero, Einaudi, 1979)

Postilla
L'appunto di Sciascia spinge a una (ri)lettura della rappresentazione che Goethe fa nel suo Viaggio in Italia del principe di Palagonia. La si può trovare in questo stesso blog al seguente link: 
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2010/06/quasi-un-apologo-goethe-palermo-dal.html

29.10.14

L'inferno e l'ostia consacrata. Gli studi di Camporesi (Michele L. Straniero)

Raffaello, Disputa del Santissimo Sacramento, particolare, Palazzi vaticani, Roma
Partendo dai suoi studi di letteratura italiana (materia che insegna all'Università di Bologna), il professar Piero Camporesi è arrivato inopinatamente all'Inferno. Un inferno di parole, naturalmente, che si colloca — nell'urbanistica del mito cristiano — appunto in luogo basso, nei sotterranei di quel triplex habitaculum che Dio stesso ha allestito e che comprende due piani stabili (l'aldilà celeste e quello infero), tra i quali sta come sospeso il nostro mondo terrestre, a differenza di quello destinato a perire.
La conoscenza del testi e la loro assidua, divertita frequentazione, consentono all'autore (già ben noto per le sue escursioni terrificanti nel Paese della fame, tra la Carne impassibile e il simbolismo del sangue inteso come Sugo della vita, avviate con successo a partire dal 1978) un caleidoscopico itinerario infernale nel suo nuovo saggio La casa dell'eternità, (Garzanti). Vi s'incontrano, come da copione, tutti i più raffinati e afflittivi tipi di pena che l'immaginazione sadica degli autori più pii ha saputo escogitale a partire dallo scritturale «pianto e strider di denti» (Matteo 8:12).
Naturalmente «il mulino del tempo e la macina dei secoli — osserva Camporesi — hanno alterato non solo gli spazi e gli scenari del mondo sotterraneo ma, funzionali al ricambio sociale, alla modificazione del costume, alla formazione di nuovi ceti e gruppi sociali, alle mutazioni culturali, hanno delineato nuove invenzioni nella tipologia dei peccatori e dei dannati, una nuova utenza delle pene».
Dal modello dantesco, feudale e comunale, si passa a quello della Controriforma, entro il quale trovano posto — grazie a una casistica enumeratoria degna del grande secolo barocco — «legulei scorretti, notai mendaci, speziali contraffattori di medicamenti, mercanti disonesti, chirurghi che tormentavano il paziente tenendo aperte con vari artifici piaghe e ferite, macellai che rubavano sul peso, osti adulteratori di vino, [..,] religiosi incontinenti, offensori dei superiori e comunque di poco rispetto per i gradi più elevati, prelati, confessori, predicatori impari al loro grado o inetti al loro ufficio, profanatori di sacramenti, istigatori al meretricio di mogli e figlie, giuocatori di carte e di dadi, saltimbanchi, buffoni e frequentatori di bettole e bagni, spensierati ingrassatori della carne» e così via, per pagine e pagine, con evidente divertimento linguistico dell'autore e dei suoi lettori.
Miniera inesauribile di tali descrizioni sono I grandi quaresimalisti del secolo, soprattutto i gesuiti (Gluglaris, Zuccarone, Orchi — nomina sunt omina! — Corto Gregario Rosignoli) e il padre Paolo Segneri, che rappresenta l'inizio dell'attenuazione settecentesca, un prodromo del razionalismo e della successiva lenta decadenza di un «Dio neroniano» che era «moneta corrente nei pulpiti del Seicento».
La profanazione dei sacramenti, alla quale il Medio Evo fu a sua volta assai sensibile, offre a Camporesi un ponte per completare il suo saggio passando a trattare dell'ostia, ossia del pane azzimo consacrato attorno al quale si costruisce la Messa, il momento più alto del culto cristiano. «E' difficile oggi rendersi conto — nota Camporesi — della forza irradiante del "pane di vita", del fascino della particella nella quale era calato prodigiosamente un dio nascosto e invisibile; misurare la suggestione emanante da un concentrato di divinità miracolosamente imprigionato in un fragile dischetto di pane sacro. Era il soprannaturale alla portata di tutti...».
Ma era anche, e soprattutto — nell'ottica visionaria dei testi avventurosamente esplorati dal nostro autore — una continua fonte di prodigi (il più frequente, quello sperimentato da fedeli che riuscivano a nutrirsi soltanto di ostie, senza più avvertire fame per un'intera settimana).
E infine, una sequela di preoccupate meditazioni mistico-biologiche circa tutto il terrificante tragitto che l'ostia consacrata, una volta deglutita, si trovava a dover percorrere: «Il corpo dell'Agnello purissimo immesso nella sozzura dell'apparato digerente, la carne divina contaminata dal contatto con le mucose ed i succhi della carne corruttibile, tutta la sporcizia delle viscere». Un tema orfico che non poteva sfuggire alla magnificenza del poeta secentesco Giambattista Marino, «erudito lettore di carte sacre della biblioteca del cardinale Aldobrandini nel "deserto ravennate"», che infatti vi dedicò alcuni versi, ovviamente stupefacenti.
Ma il vero corpus del dibattito è quello prodotto dai teologi, e forma il nucleo degli ultimi due capitoli del libro di Camporesi, intitolati Nel fondo dello stomaco e L'orrore delle viscere: una lettura che, seppur ben nota agli addetti ai lavori, non mancherà di stupire e forse scandalizzare chi di quesr. argomenti non si sia mai nutrito.


“Tuttolibri – La Stampa”, 11 luglio 1987


Contro Flaubert. I grandi pessimi maestri (Franco Fortini)

Dopo una certa età si diventa, è ben noto, intolleranti al ricorrere delle mode, ai cicli dei gusti. Agli anziani quasi sempre ne viene scetticismo o cinismo. Ma di sommo fastidio sono soprattutto le ripetizioni, per così chiamarle, permanenti. Mi spiego con un esempio letterario.
Anni fa mi irritavo quando mi avvedevo che nelle librerie e nelle conversazioni stavano tornando di moda autori che erano stati in voga fra i letterati alla vigilia della guerra: che so, i metafisici inglesi, i mistici spagnoli, i grandi testi orientali, i mitteleuropei inizio secolo. Ma proprio avevo torto. Quel che qualche decennio prima era stato inserito nella ricerca esitante o attonita di sparuti gruppi (che si illudevano così di sfuggire alla cultura ufficiale dell'età fascista o al duro dominio dei seguaci di Croce) quando, e sono ormai quasi vent'anni, è tornato in circolo, era già "voce" di catalogo dell'industria culturale, rispondeva a una domanda costante. Stava ai lettori di élite degli anni Venti o Trenta come certi fregi dorati di edizioni semieconomiche per edicole stanno ai tagli d'oro delle edizioni per bibliofili. Libri da avere sempre in magazzino: la macchina scolastica e quella dei media garantiva una fascia sempre più estesa di aspiranti alla elevazione spirituale. Chi scriverà, nella storia della nostra editoria, che cosa è stata la destra intellettuale negli scorsi vent'anni e come la più stolta sinistra abbia finito col servirla?
Dicono gli storici che se si compie una indagine bastantemente documentata di qualsiasi società, sotto i più visibili strati ideologici (quelli della classe dominante) è possibile individuare la compresenza d'una varietà di atteggiamenti, modi di pensare, interpretazioni del mondo che non muoiono mai ma sono solo temporaneamente sopraffatti, e rimangono dormenti, inattivi ma pronti a riaffacciarsi quando si diano condizioni favorevoli. Le eresie minoritarie non sono mai distrutte. Incenerito l'ultimo dei càtari, qualcosa ne sarà trasmigrato inavvertito nella mente dell'inquisitore o del boia. Col passare degli anni diventa abbagliante l'identità fra lo stesso e il diverso. Tutto è sempre più eguale ma tutto va sempre più cambiando (dunque può essere cambiato).
Posso scherzare? Qualcosa nel costume letterario italiano invece non cambia mai. E' la venerazione per le opinioni morali ed estetiche di Flaubert. Le stesse precise identiche frasi ammirative che mi sentivo dire ai tavoli delle "Giubbe Rosse" nel 1938, le ho riascoltate sulle labbra della generazione successiva, nel 1956. E oggi i nipoti le ripetono su per riviste e articoli d'ogni regione. Da mezzo secolo i collitorti letterari esalano sospiri di rapimento per la corrispondenza di Gustave con Louise Colet. Non c'è apprendista che si sia esentato, soprattutto negli scorsi vent'anni, dall'imparare da quelle pagine il disprezzo della storia, della lotta per il progresso civile, e il culto pseudo-religioso per l'arte. Per comprenderne la povertà, le si compari a quelle di Baudelaire che pure paiono dire le stesse cose. (Non sto parlando, va da sé, dei capolavori narrativi né di altre parti della corrispondenza, come quella con Turgheniev, da poco in italiano in una plaquette edita dalla Archinto).
Ci voleva il lavoro di Sartre, durato una vita, per fare i conti (ma chi, oltre a lui, o con lui, vuoi farli?) con quella articolazione mentale e morale. Per, alla fine, esaltarlo; ma come un prodigioso modello di "impegno", destinato, anche oggi, a servire proprio le cause che Flaubert detestava. Alla fine, appunto, dopo un lunghissimo percorso accidentato; non dopo quelli, facilitati e raccomandati agli apprendisti reazionari, che i custodi della ironia consolidata e dello spiritualismo ben amministrato continuano, immortali, ad organizzare ai nostri nipoti fin dalle antologie per la media unica. A pensarli, quasi ringrazio la sorte di essere vissuto nell'età della Lunga Marcia, della guerra di Spagna, di Stalingrado e del Vietnam. Caro Magris, per tua fortuna non sei di quei custodi, eppure devo dirti che non posso essere d'accordo con te: l'alternativa a Cuore non è, come mi pare tu abbia scritto, La signora Bovary. E' Resurrezione. Oppure (ed è anche meglio) nessun romanzo.


L'ESPRESSO - 24 APRILE 1988

Un pentito a tre stadi (Franco Fortini)

Un amico mi ha recapitato fotocopia di un documento della polizia fascista, datato 1939. E' la lettera con la quale M.M., un coetaneo della mia città, iniziava la sua collaborazione, credo retribuita, con la polizia locale, prima di passare alle dirette dipendenze dei servizi di Bocchini. La lettera denuncia in termini verbosi, volgari e violenti le mene antifasciste di Giacomo Ca' Zorzi, ossia Giacomo Noventa, il poeta e scrittore veneziano, che allora viveva a Firenze e vi pubblicava una rivista dal titolo "La Riforma Letteraria". Descrive alcune delle vittime della sua personalità e della sua insinuante propaganda (io fra queste) tuttavia distribuendo ingiurie e commiserazione; o elogi che dovrebbero far arrossire i destinatari.
Il documento di questo pentito di cinquant'anni fa, (o piuttosto, delatore) avrebbe scarsissimo interesse, rientrando in una tipologia assai nota e che la grande letteratura russa ha più volte raffigurato. Semmai sarebbe interessante capire come mai gente di esperienza del mondo, come Noventa era, avessero accolto in casa propria e fatto partecipe del proprio lavoro e degli altri suoi giovani amici quel ragazzotto con una tanto decisa vocazione al mestiere di spia.
Ma l'amico di cui parlavo mi ha fatto avere anche il verbale di un lungo interrogatorio cui fui sottoposto (come, allora, a mia insaputa, tanti altri miei conoscenti o amici) dalla cosiddetta Ovra ossia della "Repressione Antifascismo" (l'ho letto con comprensibile sollievo. Non si può mai ricordare esattamente, cinquant'anni dopo, che cosa si è dichiarato in cinque ore di interrogatorio). E così mi sono ricordato che, negli anni della guerra, qualcuno doveva avermi raccontato che M.M., in preda ai rimorsi per quella e altre, probabilmente assai più gravi, delazioni, e forse per togliersi dalla tutela dei servizi del regime, se n'era andato da volontario in guerra, nei Balcani, dov'era scomparso.
Nel 1946, quand'ero redattore del "Politecnico" mi era arduo rimediare, come si dice, il pranzo con la cena. E così scrissi un racconto, dove immaginavo che un tenente, con precedenti simili a quelli di M.M., sorpreso in Montenegro dall'armistizio e volendosi opporre alla fusione del suo reparto con uno di partigiani di Tito, venisse ucciso dai suoi stessi soldati. Lo detti, nella speranza di ricavarne qualche lira, a Franco Calamandrei, anch'egli redattore del settimanale di Vittorini, e che insieme ad Alfonso Gatto si occupava di una rivista di fuggevole vita e di scarsi lettori. Calamandrei corse a dirmi: «Sei matto? Chiunque capisce che hai parlato di M.M.. Costui, dopo l'armistizio, ha preso parte alla resistenza, ora è un compagno ecc.».
E pensi ora il lettore quale fu il mio stupore quando, pochi giorni dopo, Vittorini mi comunicò che M.M. sarebbe entrato a far parte della redazione del settimanale. Cercai, naturalmente, di evitarlo. Finché un giorno la moglie di colui, che avevo conosciuta ragazza a Firenze, venne a scongiurarmi di avere un colloquio con M. Stavano in una specie di sottoscala proletario, in periferia; con un bambino piccolo, in miseria.
Conversazione dostojevskiana. Pace fatta in nome dell'avvenire. Ma — mi dico — alla larga. Poi Vittorini lo manda in missione non so dove. Lo intravvedo qualche volta. Scompare.
Passa un anno. Mi dicono che è coinvolto in qualcosa di poco bello connesso col periodo resistenziale; e che il Pci lo ha "mollato". Tempo dopo so che è entrato in ambienti industriali. Un giorno incontro, ma senza farmi riconoscere, la moglie, lussuosamente vestita e con un bizzarro aspri sul cappello. Una autorevole testimonianza a stampa lo definì, allora, "uomo di fiducia" di uno dei massimi dirigenti industriali italiani. Da più di trent'anni non ne so più nulla.
Non c'è proprio nessuna morale per queste favole normali, nessun giudizio da pronunciare. Valga semmai per analoghe favole dei tempi vigenti che «la cosa più inaspettata che accade a chi entra nella vita sociale, e spessissimo a chi v'è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già lo crede in teoria» (Leopardi, Firenze, 1832).


L'ESPRESSO - 28 MAGGIO 1988

Si può dire anche di no. Il giuramento di Volterra (1931)

Nel secondo volume della “garzantina” di Matematica, all'interno della voce relativa al matematico e fisico Vito Volterra (Ancona 1860 – Roma 1940), che nel 1905 per meriti scientifici fu nominato Senatore del Regno e in quel ruolo fu oppositore dichiarato del fascismo, un riquadro, intitolato Il giuramento del 1931, è dedicato alla solenne dichiarazione di fedeltà che il fascismo pretese dai professori universitari. La ricostruzione storica, necessariamente breve e svolta in un contesto inconsueto, è attribuibile ai curatori Walter Maraschini e Mauro Palma, due compagni scienziati a lungo impegnati in battaglie civili (il primo nella scuola, il secondo nella giustizia con “Antigone”). La trattazione mi è sembrata chiara e rigorosa (sono tentato di definirla matematica) e perciò utile, specie in un momento di conformismo dilagante, talora spontaneo, più spesso forzato con i mezzi di comunicazione o estorto attraverso un implicito ricatto. (S.L.L.)
Vito Volterra (1860 - 1940)
La legge Casati del 1859 non prescriveva alcun giuramento speciale per i professori universitari, equiparati a tutti gli altri impiegati dello stato. Nel processo che portò alla costituzione dell'Italia unita, man mano che i vari stati preunitari venivano annessi, nelle università veniva richiesto soltanto un giuramento politico di fedeltà al re, allo statuto e alle leggi dello stato. La stessa riforma Gentile del 1923 prevedeva che i professori di ruolo, prima di assumere l'ufficio, dovessero, pena decadenza, prestare giuramento secondo la formula: «Giuro di essere fedele al Re ed ai suoi Reali successori, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggi dello stato, di esercitare l'ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria». Vuoi perché questa riguardava solo i professori di prima nomina, vuoi perché nel clima del primo dopoguerra la fedeltà alla monarchia era fuori discussione, non risulta che qualcuno abbia rifiutato il giuramento.
Il quadro cambia con il processo di fascistizzazione dello stato, successivo alle leggi eccezionali del 1925. Scuola, università e accademie diventano per il regime un terreno di missione in cui dispiegare tutte le capacità propagandistiche, mescolando forza e consenso, intimidazioni e lusinghe, bastone e carota. Il dissenso va represso, ma anche controllato e svuotato attraverso un'articolata rete di collaborazioni chiamata a invischiare la vasta fetta di società che si situa tra la piccola intellettualità e gli esponenti dell'alta cultura.
L'episodio del giuramento del 1931 si ispira a questa logica. Nelle file del regime, c'è chi preme per una soluzione drastica del problema degli intellettuali e per l'allontanamento dall'insegnamento di tutti i docenti politicamente non affidabili. Chi è tra i primi a professarsi in totale disaccordo con questa linea oltranzista è un matematico come Francesco Severi. In un promemoria del 1929, diretto personalmente a Benito Mussolini, scrive che l'allontanamento di professori «che compirono in passato qualche manifestazione politica, non ortodossa, ma ai quali non si può oggi nulla rimproverare, sarebbe esiziale alla cultura e alla scienza italiana, e si rifletterebbe in un danno morale e materiale per la nazione, con gravi ripercussioni vicine e remote». Fra gli intellettuali è cambiato il comune sentire politico: «Vi sono state grandi incertezze dal principio, dipendenti da quello spirito critico, che non può scompaginarsi dall'abitudine alla ricerca scientifica, e che impedisce di regola di aderire subitamente a un nuovo ordine di idee. Ma le incertezze sono ormai superate dalla enorme maggioranza». Il promemoria a Mussolini del 1929 è seguito da una lettera che pochi giorni dopo Severi indirizza da Barcellona a Giovanni Gentile e in cui esplicita le sue idee per risolvere una volta per tutte la questione degli intellettuali sulla base di quanto scritto al duce. Pensa in particolare a un giuramento di fedeltà al fascismo cui dovrebbero sottoporsi tutti i professori universitari. La sua impostazione non sarebbe solo un atto repressivo e intimidatorio, ma sancirebbe la pacificazione nazionale con il riconoscimento che ormai fascismo e nazione coincidono. Siamo tutti italiani, quindi tutti fascisti, e non c'è più ragione di dividerci. Il giuramento servirebbe comunque a individuare e a isolare quei pochi irriducibili che verrebbero immediatamente eliminati. A queste finalità provvede il giuramento del 1931. Il suggerimento di Severi, fatto proprio da Gentile, è accolto: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggi dello stato, di esercitare l'ufficio di insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio».
L'imposizione del giuramento semina dubbi e divisioni tra i professori universitari. Nei docenti antifascisti prevalgono le preoccupazioni per le conseguenze personali e professionali cui andrebbero incontro: il licenziamento, l'impossibilità di continuare a sviluppare la propria scuola e assicurare un futuro agli allievi, l'amara previsione che lascerebbero libero il campo a colleghi peggiori (almeno dal punto di vista etico e dell'assunzione delle responsabilità civili). Si diffonde poi il calcolo che, se il giuramento diventasse un fatto plebiscitario, la sua importanza politica a fini discriminatori verrebbe fortemente ridimensionata. A questo realismo si adeguano i professori legati in qualche modo ai partiti di sinistra che suggeriscono un low profile per rimanere all'interno dell'istituzione universitaria e presidiare i pochi spazi ancora liberi a disposizione delle voci democratiche. Anche i docenti cattolici sono molto combattuti sull'atteggiamento da assumere. Il consiglio che viene dalle gerarchle ecclesiastiche è di aderire al giuramento, pur conservando in coscienza tutte le riserve mentali del caso e sapendo che tale atto è troppo condizionato dall'esterno per essere sincero. «L'Osservatore Romano» troverà nella precisa formulazione del giuramento un'ulteriore giustificazione: «II contesto medesimo della formula del giuramento, mettendo sullo stesso piano il Re, i suoi Reali successori e Regime Fascista, mostra con sufficiente chiarezza che l'espressione "Regime Fascista" può e deve nel caso presente aversi per equivalente all'espressione "Governo dello Stato". Ora al Governo dello Stato si deve secondo i principi cattolici fedeltà e obbedienza, salvi, s'intende, come in qualunque giuramento richiesto ai cattolici, i diritti di Dio e della Chiesa».
Non mancano tentennamenti ed esitazioni. Giuseppe Levi (1872-1965) è un istologo di fama internazionale, alla cui scuola di Torino si formeranno i futuri Premi Nobel Salvatore Luria (1912-1991), Renato Dulbecco (1914-2012) e Rita Levi Montalcini (1909-2012). Socialista e antifascista, nasconderà nella propria casa Filippo Turati e altri oppositori del regime. Inizialmente non ha alcuna intenzione di giurare, malgrado qualche tentativo dei suoi allievi che cercano di indurlo a un atteggiamento più possibilista. Dopo un denso scambio epistolare con il giurista Alessandro Levi (1881-1953) di Parma e con il matematico T. Levi-Civita, i tre docenti concordano una lettera da presentare ai rispettivi rettori nella quale si impegnano a firmare a patto che le autorità accade-miche attestino che la sottoscrizione non implica alcuna limitazione alla loro libertà di pensiero. In realtà, Levi si accontenta di un'assicurazione verbale del ministro dell'Educazione nazionale e cede alle diverse pressioni.
Chi non ha esitazioni è Vito Volterra. Come gli altri professori dell'università di Roma, riceve l'invito a presentarsi dal rettore il 18 novembre 1931. Lo stesso giorno gli esprime, con poche e ferme parole, la sua opposizione al giuramento: «Sono note le mie idee politiche per quanto esse risultino esclusivamente dalla mia condotta nell'ambito parlamentare, la quale è tuttavia insindacabile in forza dell'Art.51 dello Statuto fondamentale del Regno. La S. V. Ill.ma comprenderà quindi come io non possa in coscienza aderire all'invito da Lei rivoltomi con lettera 18 corrente relativa al giuramento dei professori». La risposta del regime non si fa attendere e il 12 dicembre «all'onorevole prof. Vito Volterra, senatore del regno, ordinario di fisica matematica nella R. Università di Roma» viene comunicato che il rifiuto a prestare giuramento l'ha posto «in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo», rendendo inevitabile la sanzione della dispensa dal servizio. Il 29 dicembre il provvedimento è reso operativo «su conforme deliberazione del Consiglio dei Ministri».
Gli altri professori universitari giurano tutti, o quasi. La strategia di Severi e Gentile nell'immediato si rivela vincente. Quelli che non si piegano all'imposizione e non accettano di essere considerati italiani solo in quanto fascisti sono solo dodici. Ecco i loro nomi: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errerà, Giorgio Levi Della Vita, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi (e appunto Vito Volterra). Le loro sono storie diverse, solo parzialmente intrecciate. Il rifiuto che li accomuna non è una cospirazione. Non sperano affatto che il loro gesto possa essere la scintilla in grado di far scoppiare la rivoluzione o, comunque, di portare alla caduta del fascismo. A tutto pensano fuorché a far precipitare la situazione politica. Verranno licenziati dall'università ed emarginati, additati come antitaliani. In prospettiva, invece, saranno loro a dare un insegnamento alla società italiana: si può anche dire di no. I dodici non ce la fanno a ingoiare l'amaro boccone del giuramento. C'è un livello al di sotto del quale tutti gli inviti alla prudenza e a un sano realismo politico divengono perdita della propria dignità.


In Le garzantine. Matematica M-Z (a cura di Walter Maraschini e Mauro Palma), Garzanti- Corriere della Sera, 2014


27.10.14

La poesia del lunedì. Hugh Macdiarmid (1892-1978)

Il matto
Diceva d'essere Dio.
"Un bell'incontro", gridai,
"Avevo sempre sperato d'incontrare Dio
Avanti di morire."

Così l'uccisi, e ne gettai il cadavere
dentro uno stagno,
- Ma come avrei voluto che fosse
Stato davvero Dio, quel matto!

da Poeti inglesi del 900 (a cura di Roberto Sanesi), Bompiani, 1978

26.10.14

Partecipazioni statali e privatizzazioni. Dall'IRI a Berlusconi (Galapagos)

Chiaro e puntuale è l'articolo rievocativo di Galapagos (Roberto Tesi) per uno speciale del “manifesto”, che nella sua brevità mi pare cogliere i passaggi decisivi di un processo. (S.L.L.)
DONATO MENICHELLA (1896 - 1984)

Si racconta che nel 1937 Donato Menichella, direttore generale dell’Iri, convocasse i principali industriali italiani per cercare di trattare lo smobilizzo (cioè la privatizzazione) di alcune imprese italiane finite in mano pubblica a seguito della crisi del ‘29. Una delle aziende offerte era la Timo, una delle compagnie telefoniche, ma la risposta degli interlocutori fu «No grazie: è un settore senza futuro». Una dimostrazione di cecità dei «padroni del vapore» per dirla con Ernesto Rossi. Padroni abituati a fare affari unicamente con le forniture allo stato e con i monopoli. E 50 anni più tardi, al momento della privatizzazione della Telecom, i padroni si dimostrarono altrettanto miopi. Salvo
poi scatenarsi per impadronirsi (a debito) del colosso italiano delle telecomunicazioni.

Nasce l’Iri
Il fascismo si ritrovò per le mani – a metà degli anni ‘30 - buona parte dell’industria (e non solo) italiana. Tutto iniziò con la nascita dell’Iri - Istituto per la ricostruzione industriale - nel gennaio del 1934. Alla vigilia della seconda guerra mondiale controllava – oltre a imprese storicamente pubbliche, come ferrovie e poste - ampie porzioni dell’industria nazionale e del sistema creditizio, in particolare nei settori ad alta intensità di capitale con imprese di grandi dimensioni:
Vale la pena ricordare alcune percentuali di questo controllo.
  • 100% della siderurgia bellica (Terni, Ansaldo, Cogne)
  • 40% della siderurgia comune
  • 80-90% delle costruzioni navali
  • 30% dell’industria elettrica
  • 25% dell’industria meccanica
  • 20% dell’industria del rayon
  • 15% dell’industria chimica
  • 15% dell’industria cotoniera
  • 80% del settore bancario (con le tre principali banche italiane: Banca commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma alle quali si aggiungevano le grandi banche di interesse nazionale).
Evidente come il capitale privato, uscito massacrato dalla grande crisi, si era ridotto a poca cosa.

Il miracolo dell’economia pubblica
Il dopoguerra non porta cambiamenti. Anzi. L’Iri si «allarga» ed espande la sua sfera di intervento diversificando la propria presenza in molteplici settori dell’economia italiana, ma soprattutto assumendo un ruolo fondamentale nella politica economica: le partecipazioni statali diventano infatti protagoniste dei nuovi complessi obiettivi delle politiche keynesiane e di indirizzo del mercato (riequilibri settoriali, riequilibrio nord-sud, gestione anticiclica della spesa pubblica), fino all’assunzione di obiettivi generali come la politica dell’occupazione e di investimenti in localizzazioni industriali svantaggiose.
Sulla strada della modernizzazione e della competitività del sistema industriale sono molto importanti i risultati conseguiti nel settore siderurgico a ciclo integrale e le prime realizzazioni nel settore energetico. Nel 1950 viene avviato il programma per la costruzione della rete autostradale con la costituzione della Società Autostrade, viene potenziato il settore navale e quello telefonico. Inoltre si creano nuovi campi di attività diretta: la radiotelevisione con l’Eiar (che diventò poi la Rai), i trasporti aerei con l’Alitalia e la produzione del cemento con la Cementir. Di più: nel 1953 viene creato l’Eni (Ente nazionale idrocarburi) con il quale Enrico Mattei puntava all’indipendenza energetica del paese. Nella seconda metà di quel decennio l’intero sistema delle partecipazioni dello Stato venne coinvolto nel programma di sviluppo del Mezzogiorno: furono avviati nuovi impianti siderurgici a Taranto, una nuova linea dell’Alfa Romeo a Pomigliano, nuovi investimenti nelle industrie meccaniche, cantieristiche e dell’ingegneria impiantistica. Purtroppo i risultati non furono quelli sperati: la dicotomia con il Nord cresceva.
Il «miracolo» italiano fu, copmunque, soprattutto opera dell’economia pubblica e dell’economia mista. Le Ppss rompono progressivamente il cordone ombelicale che le legava alla Confindustria. Inizialmente (il 22 luglio del 1954) con una direttiva del governo che vieta ai vertici dell’Iri di assumere incarichi nell’organizzazione confindusriale; la tappa successiva (il 22 dicembre del ‘56) fu la nascita del Ministero delle Partecipazioni statali. Infine nel 1958 si diede vita all’alternativa della Confindustria: l’Intersind, la Confederazione sindacale delle imprese pubbliche. Intanto, sempre nel 1954, l’Eni di Mattei rileva la Pignone che poi sarà ceduta alla General Electrics. Nel 1958 vengono creati tre nuovi enti di gestione statale: l’Eagat (per le aziende termali), l’Egam (per il settore minerario) e l’Eagc (per il cinema). Nel 1960 Enrico Mattei pressato da Giorgio La Pira (come nel 1954 per la Pignone) rileva le Officine Galileo di Firenze (settore ottico) dalla Sade (responsabile della strage del Vajont) che voleva licenziare oltre 900 dipendenti. Nel 1962 il sistema pubblico si allarga ulteriormente con la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Le attività dell’holding Sme (Società meridionale di elettricità) vengono trasferite dall’Iri all’Enel e la Sme inizia a assumere partecipazioni nel settore alimentare.
A metà degli anni ‘60 l’Iri è uno dei principali gruppi europei ed è al terzo posto in Italia (dopo Fiat e Montedison) per utili netti. Si autofinanzia grazie agli utili elevati e ai prestiti obbligazionari.
Nel 1965 l’Iri cede alla Montecatini (in mano ai privati) la Edison: nascerà la Montedison, seconda società italiana per dimensione dopo la Fiat.

Primi segnali di crisi
L’elevato tasso di crescita dell’Italia (5,8% l’anno tra il 1950 e il 1970) mette a tacere tutte le polemiche sul controllo pubblico sull’economia italiana. Ma ai primi segnali di forte rallentamento della crescita si riaccende il dibattito (a livello internazionale) sulla necessità di privatizzazioni che rilancino il capitalismo privato che grazie alla maggiore efficienza avrebbe ridato slancio all’economia. C’è da dire che comincia ad aumentare il costo del lavoro e al tempo stesso l’Italia comincia a subire la concorrenza estera.
Sulla fine degli anni ‘60 molte imprese vanno in crisi: l’Iri comincia a assumere le sembianze di un carrozzone che rileva dal fallimento molte società e settori eterogenei: gelati, panettoni (nel ‘68 la Sme acquisisce il 35% della Motta), pelati, aerei e settore nucleare.
Nel 1971 per la prima volta l’Iri va in perdita. È il primo shock petrolifero (alla fine del 1973) a dare fiato ai fautori del capitale privato. Gli anni ‘70 sono anni di forti conflitti sociali che coinvolgono soprattutto le imprese pubbliche sulle quali, oltretutto, cominciano a scatenarsi gli appetiti politici. Alle imprese pubbliche vengono affidati compiti di politica anti-ciclica, che sarebbe dovuta essere gestita direttamente dallo stato. Il risultato è una crescita dell’inefficienza e una caduta della produttività.
Di più: l’inflazione rende estremamente alti gli oneri finanziari (nel 1975 toccano il 16% del fatturato) e aumentano i costi delle materie prime e dell’energia.
Si fanno strada parole d’ordine assurde come «piccolo è bello». Falso: fin da allora era evidente la mancanza di una politica di innovazione che rendesse più competitive le imprese italiane che vivacchiavano puntando tutto sulla flessibilità del cambio. Cioè sulle continue svalutazioni. Ma nessun governo concretamente si muove per avviare processi di privatizzazione. L’unica eccezione (il 6 novembre del 1986) è la vendita agli Agnelli dell’Alfa Romeo reduce tra l’altro dalla sciagurata
alleanza produttiva nel 1980 con la giapponese Nissan. La Fiat, con l’acquisto anche della Lancia, diventa l’unico produttore in Italia di auto.
Con Prodi presidente dell’Iri va invece a vuoto - nel 1985 - il tentativo di cessione della Sme (settore alimentare) a Carlo De Benedetti.
A partire dal 1983, tuttavia, vengono realizzate alcune dismissioni.

Un debito enorme
La situazione dell’Iri intanto è diventata drammatica: nel 1977 ha 530 mila dipendenti: è vero che due anni dopo realizza un fatturato di 16 mila miliardi di lire, ma con quasi 1.500 miliardi di perdite (800 solo dalla Finsider e 200 dalla Fimneccanica che controlla l’Alfa Romeo). Il tutto con 20 mila miliardi di debiti consolidati.
Nel 1981 i debiti dell’Iri salgono a 30 mila miliardi (11.300 della Finsider). In perdita (621 miliardi) anche la Stet rimasta indietro con i piani di sviluppo.
Nell’82 il fatturato Iri sale a 35 mila miliardi, ma gli oneri finanziari toccano i 5 mila miliardi, le perdite sfiorano i 2500 miliardi, il debito consolidato sfiora i 35 mila miliardi, mentre i dipendenti sono saliti a 550 mila. A fine anno Romano Prodi viene nominato presidente dell’Iri.
Nel 1983 inizia la fase di ristrutturazione: vengono prepensionati 20 mila dipendenti del settore dell’acciaio, ma intanto le perdite superano i 3 mila miliardi, gli oneri finanziari a 5.800 miliardi contro un fatturato salito a 42.300 miliardi. Solo nel 1984 le perdite «scendono» a 2.737 miliardi.
Nel 1985 il fondo di dotazione dell’Iri viene aumentato di 3.500 miliardi (5 mila miliardi erano stati immessi nell’84 e altri 3.500 miliardi lo saranno nel 1986). In totale durante la presidenza Prodi vengono versati 17.700 miliardi.
Intanto procedono le dismissioni tra le quali l’Ansaldo Motori e la Ducati Meccanica: le perdite si riducono a 980 miliardi. Procede il processo di riduzione dei dipendenti: a fine ‘87 erano 420 mila e nel 1988 l’Iri torna in utile, grazie a sistemi un po’ particolari di imputazione delle svalutazioni per perdite delle società controllate. Sempre nell’87 viene collocata in borsa la società Autostrade, mentre la Cementir viene ceduta al gruppo Caltagirone per 480 miliardi.
Nel 1992 viene abrogato - con un referendum - il Ministero delle partecipazioni statali. La legge Amato trasforma in Spa gli Istituti di diritto pubblico e le casse di risparmio, anche se le Fondazioni seguitano a controllare quasi tutte le nuove Spa. C’è molto movimento nel settore bancario: si realizza una prima grande fusione: tra Banco di Roma, Banco di Santo Spirito e Cassa di Risparmio di Roma. Nasce la Banca di Roma controllata al 65% dalla Fondazione Cassa di Roma e per il 35% dall’Iri. Che nel frattempo (11 luglio) cessa di essere un ente pubblico economico e si trasforma in Società per azioni. Intanto tornano a esplodere le perdite dell’Iri, ora Spa: 10.200 miliardi (oltre 70 mila miliardi il debito consolidato), dei quali 2.250 provenienti dalla sola gestione dell’Ilva, nata nel 1989 per le attività del settore siderurgico. L’economia italiana è a pezzi: la lira viene attaccata (con la sterlina) e viene varata una manovra correttiva gigantesca: circa 90 mila miliardi.

Arriva «mani pulite»
Di fatto l’unico settore pubblico che fa utili è quello bancario: e sulla dismissione della banche si punta decisamente per fare cassa e ottenere capitali da impiegare nei settori delle Partecipazioni statali in perdita. Ormai sono in molti a richiedere un ampio processo di privatizzazione. Le cause sono molteplici. La prima è in «mani pulite»: l’inchiesta milanese del pool dimostra l’ intreccio tra la politica e il mondo dell’economia. Nelle partecipazioni statali sono stati infiltrati manager legati strettamente ai partiti e quote delle tangenti finiscono nelle casse dei partiti. In realtà anche il settore privato è coinvolto in «mani pulite», ma questo non scoraggia i fautori della maggiore efficienza del settore privato. Un colpo di grazia lo dà l’arresto di Franco Nobili (il 12 maggio del ‘93) coinvolto nell’inchiesta «mani pulite», successore di Prodi alla guida dell’Iri. Il quale Prodi viene richiamato con grandi consensi a succedere a Nobili. Altro fatto che fa scalpore è l’arresto e il successivo suicidio in carcere di Gabriele Cagliari, area Psi, presidente dell’Eni. Il suo suicidio è del 20 agosto
del 1993. Un anno prima, il 2 settembre 1992, si era suicidato il politico socialista Sergio Moroni. In una lettera si dichiarava colpevole, sottolineando però che i crimini commessi non erano per il proprio tornaconto ma a beneficio del partito, e accusava il sistema di finanziare tutti i partiti.
Tra le molte voci circolate sulle privatizzazioni, viene spesso ricordata una riunione avvenuta il 2 giugno del 1992 sul panfilo della Regina Elisabetta al largo delle coste toscane. Su quella nave, si dice, c’erano: un gruppo di banchieri della city londinese, Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, oggi governatore della Banca d’Italia e Romano Prodi. Negli anni successivi Draghi fu protagonista di tutte le privatizzazioni che hanno trasformato il panorama economico riportandolo alla situazione pre-1930. Un processo caratterizzato da un fitto intreccio tra banche alle quali il governo Ciampi - secondo una direttiva Cee - consente di acquistare partecipazioni fino al 15% del capitale delle aziende industriali.
Sempre nel 1993 viene, infine, approvata la legge istitutiva dei Fondi pensione: avrebbero dovuto favorire i processi di privatizzazione e i lavoratori sarebbero, indirettamente, divenuti azionisti delle aziende. Mancano, però i regolamenti di attuazione e il primo fondo vede la luce solo nel 1998 quando larga parte del cammino delle privatizzazioni è già stato compiuto.


Privati – supplemento a “il manifesto”, novembre 2010


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