31.12.11

Gli aironi (e il lago Titicaca). Un racconto di Eduardo Galeano.

- Il lago Titicaca lo conosce?
- Sì, lo conosco.
- Prima, il lago Titicaca era qui.
- Dove?
- Proprio qui.
Eravamo nel deserto del Tarugal, un paesaggio di pietrisco calcinato che si estendeva da un orizzonte all’altro, attraversato molto di rado da una lucertolina; ma io non ero nessuno per contraddire uno del posto.
Mi punse la curiosità scientifica. L’uomo fu così gentile da spiegarmi come mai il lago si fosse spostato tanto lontano.
- Quando accadde non lo so, io non ero nato. Se lo portarono via gli aironi.
In un lungo e rigido inverno il lago si era congelato, era diventato di ghiaccio di colpo, senza preavviso, e gli aironi erano rimasti intrappolati con le zampe.
Dopo molti giorni e molte notti, a via di battere le ali con tutte le loro forze, gli aironi prigionieri erano riusciti, finalmente, ad alzarsi in volo, ma col lago e tutto il resto. Si portarono dietro il lago gelato e con lui vagarono per i cieli. Quando il lago si sciolse, cadde e rimase dov’è adesso.
Io guardavo le nuvole. Non dovevo avere la faccia convinta, perché l’uomo mi disse con un certi fastidio:
- Se ci sono i dischi volanti, mi dica lei, perché mai non avrebbero dovuto esserci laghi volanti, eh?
Mi diede le spalle e se ne andò.

29.12.11

La trippa d'uovo di Simonetta e Chiara Agnello (da "Un filo d'olio")

Simonetta Agnello Hornby, nobildonna siciliana, avvocata in Inghilterra ed apprezzata scrittrice in italiano, ha pubblicato qualche mese fa per Sellerio un volumetto di memorie culinarie, Un filo d’olio, quasi tutte collegate alla casa di campagna dei baroni Agnello, in contrada Mosè ad Agrigento, ove pare sia nata l’idea del libro.
A mo’ di appendice vi si trovano delle ricette, recuperate, trascritte e rammodernate dalla sorella di Simonetta, Chiara Agnello, che potremmo catalogare sotto la dicitura “nobile cucina di campagna”, divise per i quattro-cinque mesi della “villeggiatura”, giacché, al tempo, il consumo di ortaggi, frutta, pesce e carni seguiva il mutare delle stagioni.
Trascrivo qui una semplice e curiosa Trippa d’uovo, attribuita al mese di giugno. Mi ha rammentato un’affascinante pagina di memorie, collocate anch’esse non lontano da Agrigento (nella strada tra la città odierna e la valle dei templi), di Franco Fortini, che ho già “postato” in questo blog (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/08/sicilia-1938-i-turbamenti-del-giovane.html ). Giovanissimo letterato senza quattrini e inesperto ciclista Fortini precipitò in una scarpata, donde una popolana lo trasse rifocillandolo con un Pesce d’uovo, in realtà una frittata, esattamente come la trippa degli Agnello.
L’uovo che sostituisce la trippa o il pesce, al tempo alimenti alla portata di molti, è manifestazione di fantasia (“una pietanza che allude a un’altra pietanza”) che arricchisce di senso l’atto dell’alimentarsi, forse senza connotazioni economiche. Ma l’uovo, in taluni momenti dell’anno liturgico, diventava cibo raro e perciò caro. A Carnevale, per esempio. Il dolce più tipico di quella festa nell’agrigentino, li sfinci, conosceva due varianti: sfinci d’ova e sfinci di patati. Le prime soffici e morbide, le seconde, con quel succedaneo d’origine americana, più pesanti e povere, ma pur sempre festive e festose. (S.L.L.)
GIUGNO
Trippa d'uovo
In realtà, è solamente un modo diverso di presentare una semplice frittata condita con salsa di pomodoro e basilico.
Eppure, la diversa consistenza e la preparazione insolita, così simile alla trippa o a un piatto di tagliatelle al sugo, erano un divertimento per gli occhi e per il palato: in questo modo una pietanza normalissima diventava speciale.

Ingredienti (per 4 pp)
4 uova
2 cucchiai di formaggio grattugiato
1 cucchiaio di pangrattato
4 cucchiai di salsa di pomodoro
2 cucchiai di olio d’oliva
qualche foglia di basilico per decorazione
sale e pepe

Battere le uova, condirle, aggiungere il formaggio grattugiato e il pangrattato.
Passare un velo di olio in una padella antiaderente e cuocervi delle frittate sottili.
Quando sono pronte, tagliarle a listarelle larghe circa 2 centimetri, condirle con qualche cucchiaiata di salsa, mescolarle con molta delicatezza e metterne un mucchietto al centro dei singoli piatti. Versarvi sopra un po’ di salsa, un po’ di parmigiano grattugiato e decorare con una fogliolina di basilico.

Geografie del «land grab». Gli indiani in Etiopia (di Paola Desai)

Nella rubrica “Terra terra”, su “il manifesto” del 23 novembre 2011, Paola Desai dà risalto ai nuovi protagonisti della rapina di terreni agricoli in Africa. Da leggere (S.L.L.)  
Il fenomeno è globale, è noto come «land grab», accaparramento di terre: si dice così quando ricchi investitori si assicurano concessioni o contratti d'affitto pluridecennali su grandi estensioni di terra coltivabile in paesi «in via di sviluppo». Da un lato multinazionali dell'agrobusiness di paesi ricchi (Europa e Stati uniti o anche paesi del Golfo, o Corea del sud), dall'altro governi di paesi rurali e poveri come Etiopia, Madagascar - ovunque ci sia spazio, povertà, e governi disponibili.
Ora però la geografia del land grab riserva qualche sorpresa. Di recente infatti nel grande business internazionale della terra arabile si sono buttati anche paesi come la Cina e l'India - perfino il Bangladesh. Del caso indiano parla in modo approfondito uno studio ripreso da Grain, rete internazionale di ricerca sull'agricoltura (Rick Rowden, India's role in the new global farmland grab, 2011). Conta ben 80 aziende indiane che hanno già investito 2,4 miliardi di dollari nell'acquisto o leasing di piantagioni nella sola Africa orientale - Etiopia, Kenya, Madagascar, Mozambico - e Senegal (altre compagnie indiane guardano al sud America e in almeno un caso al sud-est asiatico). Uno dei contratti più importanti descritti nello studio di Grain riguarda l'Etiopia, paese diventato una sorta di esempio negativo di come un governo può svendere d'autorità grandi parti del suo territorio nazionale ignorando i suoi stessi cittadini. Si tratta dell'acquisizione di circa 300mila ettari di terra arabile nella regione di Gambela da parte dell'azienda indiana Karuturi Global Ltd. Il governo etiope sostiene che si trattava di terre marginali e/o non sfruttate, che ora saranno messe "a frutto" e rese produttive. Ma questa versione è contestata da diversi osservatori locali: non ci sono terre "inutilizzate", ci sono coltivatori con mezzi artigianali e pastori nomadi - e quando le terre date in concessione a grandi aziende viene recintata, loro perdono l'accesso ai pascoli e all'acqua. Altri fanno notare che le nuove pratiche agricole sono efficienti perché sono meccanizzate, fanno grande uso di fertilizzanti e agrochimici (che poi inquineranno le falde idriche) e soprattutto usano parecchia acqua - che tolgono ai piccoli coltivatori locali.
Secondo il contratto firmato con il governo etiopico, leggiamo, Karuturi prende in concessione i primi 100mila ettari per 50 anni all'equivalente di 60 dollari per ettaro, e pagherà un "affitto" annuale di 1,18 dollari per ettaro. Con questo acquisisce il «diritto» a disporre di quella terra, a scavare pozzi, costruire dighe se lo ritiene necessario - l'acqua è inclusa nel prezzo, e non è fissato alcun limite alla quantità che può attingere. Sarà esente da tasse e dogane ogni bene che l'azienda importerà (macchinari, ecc.) e che esporterà (derrate agricole) e anche il rimpatrio dei capitali. Il contratto non fa menzione alcuna a norme di protezione del lavoro, salari e trattamento dei lavoratori agricoli, né impone di destinare una qualche quota delle derrate prodotte al mercato interno. Una economista indiana osserva, con orrore, che secondo il contratto firmato con Karaturi il governo etiopico si impegna a consegnare la terra pattuita «libera da impedimenti»: ovvero sfratterà gli abitanti locali, se saranno di ostacolo al progetto, se necessario con la forza (Jayati Ghosh, su "Frontline", 10-23 settembre 2011). Così, fa notare l'economista, aziende indiane vanno a fare in un paese terzo proprio ciò che in India stessa ormai provoca tante polemiche, resistenze, proteste ogni volta che popolazioni rurali sono costrette a sfollare per fare spazio a progetti agro-industiali. Ironie della storia - o delle geografie globalizzate.

Una poesia simposiaca di Goethe (dal "Divano occidentale-orientale")

Tutti ebri esser dobbiam ché giovinezza
ebrezza senza vino, altro non è!
e se talor, bevendo, la vecchiezza
ringiovanisce, o vin, si deve a te!
A dar pensieri la Vita ci pensa:
la vite dai pensieri ci dispensa.

Da Goethe, Garzanti, Milano 1944
Traduzione di Tommaso Gnoli

28.12.11

Rivoluzione. Una poesia di Gianni Rodari.

Gianni Rodari
Ho visto una formica,
in un giorno freddo e triste,
donare alla cicala
metà delle sue provviste.
Tutto cambia: le nuvole,
le favole, le persone...
la formica si fa generosa...
è una rivoluzione!

Grazie a Valentina Galluzzi d'avermi riportato il ricordo di questa poesia che conoscevo, ma non rammentavo.

La morte di Lucio Magri. L’utopia di un realista (di Renato Covino)

Su “micropolis” di dicembre è apparso un articolo che qui ripropongo ad uso dei non umbri che frequentano questo blog, una commemorazione di Lucio Magri. Mi sembra tra le cose più profonde e ben scritte che mi è accaduto di leggere sull’argomento. L’autore è Renato Covino, il punto di vista è quello dei compagni perugini che negli anni settanta animarono il centro del “manifesto” di via Raffaello e alla fine degli anni Settanta fondarono “Segno critico”. (S.L.L.)
Lucio Magri ha scelto di morire. Vivere gli era diventato, per motivi personali e non solo, insopportabile. Lo avevano messo a dura prova la perdita di sua moglie, che lo aveva gettato in una profonda depressione, e il crollo delle speranze politiche e di cambiamento della società che lo avevano guidato per tutto il corso della sua vita. Riteneva che il suo tempo fosse finito, che quello che poteva fare in una situazione come quella che oggi viviamo fosse irrilevante, pensava di non avere più né le capacità, né l’autorità, né il prestigio per poter giocare un ruolo di qualche utilità. Si può discutere se ciò fosse vero o meno, ma resta pur sempre il fatto che una scelta così radicale merita il massimo rispetto.
Ha fatto impressione il modo in cui Magri ha deciso di porre fine alla sua vita, la programmazione accurata, il ricorso ad una clinica svizzera, la discussione con amici e compagni. La successione degli eventi ha ricordato a chi scrive un bel film franco-canadese, Le invasioni barbariche, dove la scelta del protagonista è analoga a quella che Lucio Magri ha fatto, ma al di là della forma resta la sostanza: non è stato un medico a somministrargli i farmaci, si è limitato solo a fornirglieli, per il resto l’esercizio della scelta è stato fatto il piena autonomia. Resta il moralismo imperante, le reprimende di preti e cattolici di turno: “non aveva diritto”, “la vita è sacra”, ecc… Ma se gli uomini non sono neppure padroni di scegliere come e quando morire a che si riducono il libero arbitrio e la libertà delle persone?
Ciò detto preferiamo ricordare Magri vivo, per quello che ha fatto e per il ruolo che ha giocato nella sinistra italiana. Lo facciamo senza indulgenze e senza nascondere che spesso molti di coloro che fanno parte della redazione di “micropolis”, almeno i più vecchi, hanno avuto con lui più momenti e
motivi di contrasto che di accordo.
Lucio Magri era un impasto di estremo realismo - l’attenzione per le forze in campo - e al tempo stesso di assoluto utopismo. Al primo si deve uno degli elementi salienti del suo agire politico, la volontà di incidere, con “il manifesto” prima e con il Pdup poi, sul corpo vivo della sinistra italiana, sul Pci in primo luogo che per lui non era solo il luogo dove si concentrava il grosso delle forze operaie e popolari italiane, ma anche un’esperienza diversa e originale nel contesto del comunismo internazionale. Al secondo, l’utopismo, va ascritta quella sua convinzione che individuava nel decennio settanta del Novecento i germi di quello che definirà “il bisogno di comunismo” ossia l’idea che lo sviluppo delle forze produttive avesse raggiunto un tale livello che era possibile, su base mondiale, organizzare un sistema in cui si potesse pretendere da ognuno secondo le sue capacità dando ad ognuno secondo i suoi bisogni. Ciò poneva in sottordine il tema del dominio e riprendeva un’idea - mai tramontata - che il capitalismo avesse raggiunto la sua fase finale, prossimo al crollo.
Da questa convinzione nasce nel 1974 l’idea che si fosse ormai giunti ad una crisi di sistema, che gli spazi del riformismo fossero ormai esauriti e che fosse possibile indurre significativi mutamenti nel sistema economico ed istituzionale italiano e non solo. E’ questa una tematica che lo avvicinava più a Rosa Luxemburg che a Lenin. Come si ricorderà la grande rivoluzionaria polacca, nel pieno della guerra, puntava alla rifondazione della vecchia internazionale più che alla costituzione di una nuova, mentre individuava nella fine dei processi di accumulazione capitalistica il motivo portante di una ipotesi rivoluzionaria. Su ciò, da parte nostra, si registrava un dissenso che non era poi così banale. La nostra idea era che, per un verso, il Pci avesse esaurito il suo ruolo, che la sua diversità non era sufficiente per provocarne una riforma e una svolta a sinistra, mentre eravamo convinti che il “bisogno di comunismo” non bastasse ad indurre un processo rivoluzionario, ma occorressero un nuovo partito ed una cultura nuova rispetto a quella comunista degli anni cinquanta e sessanta. Ancora, pensavamo che il tratto caratterizzante la situazione italiana fosse la crisi politico istituzionale, quella che chiamavamo e continuiamo a chiamare “crisi di regime”, piuttosto che la crisi di sistema e che da qui occorresse partire per individuare un percorso di cambiamento radicale.
Fatto sta che oggi tale dibattito appare datato.
Il “bisogno di comunismo” non è all’ordine del giorno, il Pci non c’è più, la crisi di regime non si è risolta né a destra né a sinistra, ma si è dapprima cronicizzata e poi ha provocato un generale processo di putrefazione-decomposizione della società e delle istituzioni italiane. Queste consapevolezze hanno portato negli anni novanta ad una convergenza tra alcuni di noi e Magri, specie dopo lo scioglimento del Pci dove lui era confluito con il suo Pdup durante gli anni ottanta. L’ordine del giorno era come evitare fughe avanguardistiche e lavorare per mantenere aperti spazi di agibilità politica per le masse lavoratrici. Insomma siamo anche noi confluiti nell’“ipotesi realista” dell’impianto di ragionamento magriano, nella convinzione che si dovesse agire sulla base di un “anticapitalismo ragionevole”. A ciò s’informò la nostra azione negli anni in cui militammo in Rifordazione. Fu un’impresa impossibile. Si opponeva ad essa la fedeltà ad una tradizione evidentemente stalinista e terzinternazionalista che si alleò con gli umori gruppettari degli anni sessanta e settanta e che fu ben rappresentata dalla segreteria Bertinotti che pure avevamo favorito. Né meglio andò l’esperienza dei Comunisti unitari (il gruppo nato dalla scissione del Prc) che alla fine decisero, senza Magri, Luciana Castellina ed Eliseo Milani (e senza noi), di confluire nei nascenti Ds.
Magri si ritrovò isolato dagli stessi compagni che con lui avevano compiuto un lungo tratto di strada, senza solidarietà politiche forti. Provò a rilanciare con la “Rivista del manifesto”, un’esperienza editoriale coronata da successo, che aveva l’ambizione di rimettere in rete la sinistra comunista e che fu minata dai tentativi di egemonismo bertinottiano e dell’acquiescenza di Ingrao, nel frattempo confluito nel Prc, nei confronti di tale ambizione. Alla fine la rivista chiuse. Resterà nella memoria di chi scrive l’intervento di Rossana Rossanda che sostenne che l’adesione d’Ingrao a Rifondazione le aveva provocato più dolore del suo voto favorevole alla radiazione del gruppo de “il manifesto” dal Pci.
Magri si trovò solo, senza più strumenti, costretto all’inattività. Cercò di reagire attraverso la scrittura del suo libro Il sarto di Ulm, il cui intento era quello non solo di fare la storia del comunismo internazionale ed italiano, ma di individuare le possibilità di cambiamento, i possibili punti di rinnovamento, di innovazione teorica e di azione politica, secondo un metodo, sempre più viene utilizzato nelle discipline storiche, che è quello della controfattualità. Ne è uscito un volume originale, non condivisibile in tutto, ma che centra il suo scopo: quello di riportare la discussione su un tema ormai eluso, dimenticato anche da coloro che continuano a considerarsi comunisti. In ciò aveva assolutamente ragione: senza riappropriarsi del passato, sottoponendolo ad un vaglio critico, è difficile capire quanto sta succedendo, ma soprattutto reagire, riprendere l’iniziativa. Insomma Magri appare dal libro sconfitto ma non rassegnato; ciò nonostante l’unico modo che ha trovato per reagire alla rassegnazione, al lasciarsi vivere, è stato morire. Il suo suicidio è stato anche l’estremo tentativo di non darsi per vinto. Sapeva che la sconfitta per un rivoluzionario non è mai un dato definitivo, che si è veramente sconfitti quando ci si adegua allo stato di cose presenti. Ha risposto come ha ritenuto giusto. Con un urlo silenzioso.

“micropolis” dicembre 2011

27.12.11

Animali (di Ramon Gomez de la Serna)

Se si guardano di giorno gli occhi dei gatti, sembra che si siano dimenticati di spegnere la luce in camera da letto.
-
I gabbiani sono nati dai fazzoletti che si dicono addio nei porti di mare.
-
La rondine arriva da tanto lontano perché è freccia ed arco.
Contemporaneamente.
-
I pinguini sono bambini scappati da tavola col bavaglino addosso e macchiato d'uovo.
-
Le farfalle le fanno gli angeli durante l'orario d'ufficio.
-
Le serpi sono le cravatte degli alberi.
-
Un gatto salito su un albero crede di essersi reso indipendente dal mondo.
-
All'imbrunire passa in volo rapido una colomba che porta la chiave con cui chiudere il giorno.
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Il pavone è come quei bambini che si vestono di carnevale quando non è carnevale.
-
Il leone ha sulla punta della coda il pennello da barba.
-
L'aragosta invece degli occhi ha dei binocoli da teatro.
-
L'orso bianco sta sempre avvolto nel suo accappatoio da bagno.
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Il polpo è la mano che cerca tesori nel fondo del mare.

Da Donne, libri, astri e animali, Il tesoro del vascello, Roma, 1993

Marx nel belpaese (di Roberto Monicchia - "micropolis dicembre 2011)

Il marxismo italiano costituisce una tradizione culturale cospicua, che pur con molti limiti, è decisiva per l’esistenza di una sinistra forte e autonoma: è l’asse interpretativo che sorregge la ricerca di Cristina Corradi in Storia dei marxismi in Italia (manifestolibri, Roma 2011). L’opera pionieristica di Labriola è volta a dimostrare l’autosufficienza scientifica del marxismo, che proietta la dialettica hegeliana sul piano storico e fa della lotta di classe la base dell’autonomia politica del proletariato. Questa visione organica viene disgregata dal neoidealismo: Croce riduce l’originalità marxiana alla separazione della politica dalla morale; Gentile riporta la dialettica della prassi al proprio “attivismo”, mentre Sorel include il solo Marx “politico” tra le fonti della sua mistica dell’organizzazione proletaria.
Contro tale operazione, Gramsci cerca di ricostruire l’autonomia filosofico-politica del marxismo, a partire dalla riflessione sulla sconfitta della rivoluzione in occidente, la vittoria del fascismo, la costruzione dell’Urss. La “filosofia della prassi” mostra un’intima omogeneità tra filosofia, economia e politica, che permette di superare economicismo e liberalismo. Fondendo apparati di dominio e organizzazione della società civile, lo stato moderno pone il problema della rivoluzione non come “tecnica”, ma come attività critico-pratica che realizza la compenetrazione tra intellettuali e popolo.
La sintesi gramsciana è alla base dello sviluppo della cultura marxista nel secondo dopoguerra: l’edizione togliattiana dei Quaderni mira a farne il punto terminale della linea De Sanctis-Croce, uno “storicismo nazionale” funzionale alla strategia della democrazia progressiva. I temi privilegiati
sono il risorgimento, la questione meridionale, la cultura nazional-popolare, mentre si trascurano le note sul fordismo, la critica a Croce e al moderatismo. E’ una linea “ufficiale” che tiene il campo per un ventennio, marginalizzando altre letture, a cominciare da quella di Bordiga, il quale ipotizza inascoltato un trentennale ciclo di sviluppo del capitalismo postbellico, con l’accentuazione del carattere “impersonale” del dominio sul lavoro sociale.
Un’interpretazione antistoricista si fa strada con Galvano della Volpe, che in Marx individua un “rovesciamento pratico” basato sulla “persona storica”, che non è pura autocoscienza e tiene conto di natura e società. In questo modo il marxismo costruisce un’“etica sperimentale”, sostituendo alla
dialettica idealista quella galileiana del circolo concreto-astratto-concreto. Questa impostazione è uno degli spunti della critica marxista al Pci dopo il ’56.
Lucio Colletti rilegge Marx in senso antievoluzionistico, polemizzando con il marxismo della II come della III internazionale. Altre letture, che incideranno sulla incipiente stagione dei movimenti, affrontano i temi delle nuove forme di organizzazione del capitalismo.
Per Panzieri il “ritorno” a Marx è la guida di uno sbocco non riformista alla crisi del ’56. Lo sviluppo di una “sociologia critica” dell’organizzazione del lavoro nella fabbrica fordista rivela la natura autoritaria del comando capitalistico, occultata dalla presunta razionalità dello sviluppo tecnico, che nella fase monopolistica si estende all’intera società, ma che si combatte a partire dalle lotte di fabbrica per il “controllo operaio”.
Dalle medesime premesse si sviluppa l’attività di Tronti e Negri, padri dell’operaismo. In Operai e Capitale Tronti rovescia la relazione tra sviluppo capitalistico e movimento operaio: è l’opposizione del lavoro all’assoggettamento a generare ristrutturazioni e sviluppo. In seguito Tronti evolve verso la considerazione dello stato come terreno decisivo di lotta, teorizzando l’“autonomia del politico”. Negri sviluppa diversamente la tesi del ruolo operaio nel ciclo capitalistico: le lotte degli anni ’60 hanno permesso di rompere il legame tra salari e produzione, proiettando sul territorio la figura dell’operaio-sociale, protagonista di uno scontro che verte sulla capacità di “autovalorizzazione”, di bisogni soddisfatti autonomamente dall’accumulazione.
Tra i protagonisti del neomarxismo degli anni ’60, meritano una menzione anche Timpanaro, il cui “socialismo leopardiano” si pone all’incrocio di critica della modernità e liberazione umana, e Fortini, con la sua incessante critica della separazione tra lavoro culturale e militanza politica.
Sul piano dell’ analisi economica, l’opera di Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci riapre il dibattito sulla trasformazione dei valori in prezzi e dunque sulla validità della teoria del valore. Da un lato Garegnani sostiene che Sraffa, fornendo un sistema di prezzi corrispondente ad un uniforme saggio di profitto, conferma le nozioni marxiane di sovrappiù e circolarità del processo di produzione. Si inaugura così la lettura “neoricardiana”, che postula la centralità del conflitto redistributivo. Al contrario, Napoleoni vede nella proposta di Sraffa una confutazione della teoria del valore, base necessaria di spiegazione dello sfruttamento, e giudica altresì improponibile un confronto matematico tra valori e prezzi. In ogni caso, sia dal lato dell’autonomia del politico che da quello neoricardiano-keynesiano, l’accento è posto sui “rapporti politici di distribuzione” piuttosto che sui rapporti sociali di produzione.
I segni premonitori della crisi del marxismo si avvertono nel dibattito sulla teoria dello stato, avviato da Bobbio come critica al deficit democratico marxista, proseguito con gli sforzi di Vacca, Bongiovanni e Tronti di porre Gramsci alla base del “compromesso storico” e della democrazia compiuta, e idealmente concluso con il congedo di Colletti dal marxismo, additato come sinonimo di totalitarismo.
Dopo lo spartiacque dell’89 diversi sono i tentativi per reagire alla crisi del marxismo. Il più noto è quello di Negri, che, accentuando una lettura adialettica della società, aggiorna all’epoca dell’impero la centralità dell’operaio sociale, che diviene la “moltitudine”, capace di rovesciare la “messa al lavoro” dell’intera società attraverso le pratiche dell’esodo. L’originale ricognizione di Preve cerca di tenere insieme l’analisi dei limiti dei marxismi novecenteschi con la critica al capitalismo contemporaneo. Il ribaltamento delle logiche ideologiche post ’89, che squalificano l’“hegelo-marxismo” a perversione religiosa all’origine di ogni male, è il compito che si assume Losurdo: la condanna di Hegel, Marx e Lenin non è altro che il rigetto delle tendenze di liberazione umana dispiegate dalla rivoluzione francese in avanti.
La nuova edizione dell’opera di Marx feconda le più recenti interpretazioni, tra le quali è da segnalare quella di Finelli, che valorizza il Marx che recupera dalla dialettica hegeliana la figura dell’astrazione, che si trasforma da figura logica in principio di organizzazione della realtà sociale. Per Corradi il limite maggiore del marxismo italiano è una propensione storico-filosofica che trascura la critica economica. Dalla sua precisa e appassionata rassegna emerge il peso del legame tra marxismo e sinistra in Italia, ancor più evidente se misurato sui meschini esiti della sinistra “postideologica”, risucchiata dalle sirene del neoliberismo e del populismo, e incapace di mantenere identità e peso politico.

Come eravamo (di S.L.L. - "micropolis" dicembre 2011)

Ho visitato la mostra fotografica La memoria nei cassetti. Perugia 1944 – 1970, che rimarrà al Palazzo della Penna fino ai primi di marzo. Ne valeva la pena: l’ho trovata ricca e interessante, benché sollecitatrice di amari pensamenti.
L’esposizione (e il libro che ne è scaturito) si propone come completamento di un trittico sulla città capoluogo dell’Umbria, di cui sono parte due precedenti mostre: quella relativa all’inizio del secolo costruita sui materiali dell’archivio Tilli-Giugliarelli e l’altra sull’ultimo trentennio basata sugli scatti dei foto reporter.
Stavolta le immagini provengono da archivi privati, da cassetti e album di cittadine e cittadini che, secondo quanto riferisce il curatore, Alberto Mori, hanno prestato materiali ritenuti interessanti, seguendo ciascuna e ciascuno una propria, personale gerarchia d’importanza. Non sono del tutto convinto che la mostra che ne risulta sia davvero la semplice proiezione di questo “multiverso” di interessi: la selezione e la collocazione comporta inevitabilmente un’interpretazione dei documenti.
I documenti attengono prevalentemente alla vita privata: matrimonio e famiglia, lavoro e riposo, scuola e ufficio; e l’attenzione è più alle persone che ai luoghi, anche se guardandole è possibile leggere i mutamenti della città e della vita collettiva seguendo molti possibili percorsi (i trasporti, l’abbigliamento, il cibo).
Quello che un po’ sorprende è la marginalità della “politica” in un paese (l’Italia) e in un tempo (il secondo dopoguerra) che gli storici raccontano come di forte politicizzazione: il paese e il tempo dei partiti di massa, dei grandi comizi, degli scontri duri e perfino sanguinosi. Il racconto fotografico inizia e si chiude con due eventi emblematici, l’arrivo in città degli Alleati (e dei partigiani) e la seduta inaugurale del Consiglio regionale nella Regione appena istituita, ma dentro questa cornice ci sono scarse tracce dei conflitti politici e sociali (nessuna immagine che rievochi anche vagamente il Sessantotto, tra l’altro). Ricordo alcune scritture propagandistiche di tempi diversi, un prete che officia non so quale funzione sotto un grande striscione inneggiante al voto comunista e soprattutto due testimonianze coeve sullo scontro politico, sociale e culturale nel 1950: da una parte Di Vittorio che parla da Palazzo dei Priori a una folla che non appare molto numerosa (c’è, più avanti, a correzione, un affollato Primo Maggio del ‘61), dall’altra una numerosa e foltissima delegazione perugina a Roma per l’Anno Santo con in testa preti, monache e frati d’ogni ordine e grado.
E tuttavia che quella degli anni Cinquanta fosse un’Italia polarizzata e divisa si percepisce con evidenza nella mostra. Le immagini delle feste e dei balli dei ceti popolari e quelle delle feste ai Filedoni e le foto di gruppo nei luoghi di lavoro danno l’idea di un mondo dove i ricchi e i poveri non si confondono e dove non c’è l’imprenditore, ma il “padrone”, paternalista quanto si vuole, ma padrone. E le immagini delle tabacchine o delle operaie Perugina, a guardarle bene, segnalano anche una società in cui il maschio esprime ancora una capacità di sottomissione, un abuso di potere.
Eppure, nonostante questi elementi di oppressione e di conflitto, la mostra trasmette l’idea di una società dove nessuno è solo neppure quando è solo, una realtà in cui la famiglia, la chiesa, il vicinato, il gruppo di lavoro e - con molta più forza di adesso - la “classe” aggregano e danno valore politico anche al privato. A guardare le immagini dell’oggi, soprattutto quelle relative al mondo popolare (il mondo dei “più”, secondo l’etimologia) non avverti più nei gesti e negli occhi la socialità, e spesso non avverti la speranza. Hai l’impressione che una macina abbia frammentato tutto e tutti, distruggendo ogni residuo di socialità. Anche quando non c’è l'atomizzante abuso del telefonino a segnalarcelo, le foto di massa impressionano tante piccole solitudini.

“micropolis”, dicembre 2011

Il paradosso dell'ananas ogm (di Fulvio Gioanetto)

Su “il manifesto” del 22 novembre) 2011 la rubrica “Terra terra” contiene un pezzo di Fulvio Gioanetto che ha alla base una notizia dal Centroamerica, assai significativa di un certo andazzo. (S.L.L.)
Paradossale, per un paese che vive di eco-turismo. La Commissione Nazionale di Biosicurezza statale del Costarica ha appena autorizzato l'impresa LM Veintiuno a seminare in via sperimentale tra 80 e 200 ettari di ananas geneticamente modificato. Per la verità è già dal 2005 che questa impresa stava «sperimentando» a Puntarenas, nel sud del paese centroamericano, l'adattabilità agronomica della varietà ogm Piña Rose, che si è dimostrata la più plastica delle altre otto varietà transgeniche programmate. Ora il via libera a coltivare su più larga scala, ratificato anche dal ministero dell'agricoltura nazionale, sta sollevando polemiche, sia perché va contro i precedenti studi di impatto ambientale, sia anche perché viola il principio di precauzionalità previsto dalle stessi leggi di Costarica. Non si tratta solo di cavilli legali. Alcuni deputati dei partiti d'opposizione Partido Accion Ciudadana e Frente Amplio si erano opposti pubblicamente a queste semine. I parlamentari si erano appoggiati a un'ampia ed eterogenea coalizione di produttori, consumatori organizzati e ambientalisti, che attraverso il conosciuto «Bloque Verde» stanno facendo campagne informative pubbliche sui rischi sociali e ambientali della semina di queste nuove specie. Argomentano che la coltivazione delle specie ogm manda in rovina la fragile economia rurale dei piccoli agricoltori, a tutto vantaggio di un paio di imprese multinazionali proprietarie del brevetto ogm, che così potranno monopolizzare il mercato dell'esportazione dell'ananas. Fanno notare anche che le bioregioni tropicali del Costarica sono centri di diversificazione genetica e culle di biodiversità per decine di specie di ananas silvestri e specie di piante epifite affini.
Almeno otto municipi rurali costaricensi (Paraiso, Santa Cruz, Nicoya, Abangares, San Isidro, Barva, Talamanca e Moravia) hanno già vietato colture ogm nei loro territorio, promovendo finanziamenti per la semina di varietà autoctone e pubblicizzando la commercializzazione degli ananas silvestri - magari più piccoli, ma più zuccherini e con polpa colorata. In queste zone molti produttori vivono dell'ecoturismo e dell'agricultura biologica e agroecologica. Secondo i rappresentanti della coalizione verde, che hanno illustrato la propria posizione durante una conferenza stampa nel parlamento, «è inaccettabile permettere la liberazione di questo ananas transgenico, perché esistono ancora molti dubbi sul rischio e manca molta informazione tecnica. Gli studi sugli impatti ambientali di queste coltivazioni sulll'ambiente e le economie local sono chiari: autorizzare la diffusione di queste specie significa avviare il Costarica al suicidio ecologico».
In effetti, gli esempi in Costarica non mancano. Nel 2009 è stata autorizzata la semina di 800 ettari di soia e cotone ogm, con solamente tre ispettori incaricati di vigilare che queste colture transgeniche non debordassero in zone diverse da quelle permesse. Due anni dopo già si superarono i 1700 ettari di semina, senza contare la contaminazione di deriva in altri terreni dovuta al vento o alla pollinizzazione incrociata. Recenti studi fatti in Messico sul cotone Ogm, confermano che oltre a provocare una contaminazione genetica al suo parente selvatico locale Gossypium hirsutum (con effetti imprevedibili), i geni e i transgeni del cotone possono muoversi da un popolazione all'altra anche a mille di chilometri di distanza.
Resta dunque il paradosso: Costarica, un paese che si pubblicizza come paradiso ecologico e ha il 25% della superficie territoriale, è il paese centroamericano con più decessi e avvelenamenti per dovuti all'abuso di agrochimici.

26.12.11

Gramsci e Lukàcs: rivoluzione e letteratura. Un libro di Emiliano Alessandroni

Gyorgy Lukàcs
Su “La poesia e lo spirito” del 21 dicembre 2011 ho trovato una recensione, di Giuseppe Panella, del libro di Emiliano Alessandroni, La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács, edito da Il Prato di Padova in questo 2011con prefazione di Pietro Cataldi. Mi sembra che il libro e il recensore pongano questioni di grande rilievo culturale e politico. (S.L.L.)

«Questo studio affronta in prevalenza questioni che sono state attuali negli anni Venti e Trenta in Europa, e poi di nuovo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta; e che oggi sono tramontate dal dibattito. Resuscitarle implica il rischio di apparire anacronistici e sorpassati. In questa percezione si agita appunto il concetto di “egemonia”. Il velo di polvere caduto sulle grandi questioni teoriche qui considerate è infatti parte di una generale sconfitta delle prospettive di cambiamento presenti negli attori che le hanno animate. Questo studio ha il merito di rifiutare la sconfitta come dato irreversibile e di non scendere, d’altra parte, sul terreno dell’archeologia filologica. Tratta cose morte come se fossero vive. Se un solo giovane, leggendo, sarà interessato e coinvolto, avrà avuto ragione» (pp. 10-11) - scrive Cataldi in conclusione alla sua Prefazione al libro di Alessandroni.
Ha ragione, ovviamente. Né Gramsci né tanto più Lukács sono autori considerati à la page, semmai scomodi relitti di un tempo che fu la cui opera riposa bene tra gli scaffali delle biblioteche dove nessuno va a turbarne il sonno polveroso.
Alessandroni, invece, crede nel loro valore euristico e nella loro ri-utilizzazione nel presente come strumenti di interpretazione militante, come armi di lotta contro l’assalto di un tempo vile e decadente. Perché questo avvenga, tuttavia, bisogna leggerli e interpretarli ancora una volta per verificare se sono ancora utilizzabili per questa stagione. L’autore del libro ne è convinto soprattutto perché esordisce ponendosi una domanda che dall’epoca della maggior fortuna dell’engagement filosofico-estetica, quella legata al nome di Sartre, non viene ripetuta tanto frequentemente: che cos’è la letteratura? (era, infatti, questo il titolo di un celebre saggio sartriano del 1947). A che cosa serve? È solo un’operazione di carattere formale e individuale o vale qualcosa in più per il suo carattere sociale e, perché no?, per il suo contenuto? Ha ancora carattere conoscitivo (come si sosteneva una volta)? “Tante domande, tante risposte” – avrebbe detto Brecht.
Alessandroni, dunque, si cimenta fin da subito con il nocciolo della questione.
La letteratura è attività umana non disincarnata e non soltanto spirituale – la sua natura è legata alla sua capacità di mutare in maniera conflittuale interagendo con le contraddizioni della società in cui viene prodotta (Gramsci) e “rispecchiandone” la realtà in maniera tale da costituirne una delle forme di coscienza interpretativa (Lukács).
Ma il reale che la letteratura “rispecchia” non è mai visto da quest’ultima nella sua integrità o purezza né risulta libero da condizionamenti di tipo ideologico profondi: nella riflessione dei due pensatori marxisti risulta, di conseguenza, centrale la nozione di falsa coscienza. Egemonia e critica della falsa coscienza vengono considerati percorsi paralleli da Alessandroni (a questa dimensione di lotta per la trasformazione sociale del mondo gli sembra importante aggiungere anche l’esperienza di Carlo Michelstaedter nel suo La persuasione e la rettorica, anche se in misura meno “carismatica” di quanto possa avvenire nei due pensatori marxisti cui è dedicato il suo saggio): «Lotta per l’egemonia significa qui lotta per l’acquisizione alla propria parte della barricata di quanti più intellettuali tradizionali sia possibile o per l’esercitazione su di essi di un maggior influsso rispetto a quello esercitato dagli intellettuali organici del gruppo sociale avverso, pur mantenendone intatta la natura di intellettuali tradizionali. La battaglia contro la falsa coscienza promossa da Lukács s’inserisce anch’essa in tale prospettiva. Lotta contro la falsa coscienza significa lotta per l’assimilazione degli intellettuali tradizionali, per la loro “organicizzazione”, lotta in favore della comprensione del proprio engagement oggettivo» (p. 47).
Dunque, la lotta politica nel campo delle ideologie ha il compito di sgombrare il campo dalla falsa comprensione delle contraddizioni sociali esistenti nel corso della lotta di classe. Ma cosa rappresenta, tuttavia, questo progetto di intervento sulla realtà in maniera concreta dal punto di vista dell’analisi della letteratura come componente fondamentale dell’immaginario sociale collettivo?
Per Alessandroni si tratta di superare l’elemento mistificante presente nella letteratura considerata come pura forma e individuarne il valore di conoscenza che contiene. Da qui discendono tutta una serie di esempi (le”rose” di Saba, il “pessimismo” di Verga, il “naturalismo deterministico” di Zola ecc.) che hanno il compito di verificare la “mistificazione estetica” presente in opere di grande importanza letteraria che pure si pongono l’obiettivo di “coprire” le contraddizioni sociali non enucleandole né evidenziandole ma soltanto trasformandole in materiale artistico coerente al progetto di chi le descrive. Utilizzando una serie di saggi critici sulla letteratura di Lukács e incrociandoli con le letture che Romano Luperini ha fatto di Verga prima e di Montale poi, Alessandroni si colloca con una certa sicurezza e molta passione argomentativa al centro della problematica che intende affrontare. Il critico letterario che intenda essere autenticamente tale non può considerarsi separato e distaccato dalla natura apparentemente separata della materia che tratta e considerarla dall’alto della propria purezza di giudice non schierato ma assumere una posizione dialettica che gli permetta di valutarne la verità dal punto di vista sociale e l’impatto storico. Da qui scaturisce la dura presa di posizione dell’autore contro la critica stilistica (di cui Leo Spitzer viene individuato come il capofila più significativo e originale) utilizzando una serie di notazioni polemiche effettuate da Cesare Cases contra Spitzer stesso e pro Lukács. Al posto della lettura in profondità del testo letterario tipica delle analisi di tipo stilistico si insiste sulla necessità della estensione di essa alla dimensione storico-generale in cui l’opera d’arte è stata, in effetti, realizzata:
«Il critico dialettico deve pertanto saper riconoscere la propria attività quale elemento necessario collocato entro una già esistente lotta per l’egemonia, superare ogni forma di apoliticismo primitivo ed elementare da – con linguaggio hegeliano – anima bella; comprendere come la propria critica costituisca automaticamente una lotta per l’affermazione del proprio tipo di esegesi, percepire questa come parte di una più ampia battaglia culturale, per il modo di pensare e di fare, per una nuova forma di vivere, nuove strutture mentali, nuovi rapporti sociali ed intersoggettivi; non smarrire mai il rapporto tra il proprio ambito specialistico e la totalità e, come che sia, possedere la più piena consapevolezza del fatto che tutto ciò che non può non significare anche un nuovo tipo di letteratura» (pp. 162-163).
Che cosa comporta, allora, la realizzazione di questo progetto? Che cosa significa la messa in atto di questa richiesta insieme politica e culturale? L’approdo auspicato dovrebbe essere che si attui una vera e propria “rivoluzione estetica” come quella proposta e in parte realizzata da Gramsci e Lukács. Alessandroni, di conseguenza, vorrebbe che la critica letteraria e la valutazione estetica delle opere d’arte cambiasse radicalmente volto attenendosi a cinque condizioni di funzionamento deducibili dall’insegnamento dei due maestri dai quali ha tratto ispirazione e conforto teorico. La prima è “la novità della prospettiva” utilizzata che vorrebbe provarsi a colmare il divario tra vita quotidiana e arte superando con nettezza la concezione dell’attività artistica come turris eburnea.
La seconda è una nuova considerazione del ruolo degli intellettuali evitando la loro iscrizione nel listino dei “servi” (la definizione di “intellettuale-servo” è di Michelstaedter) e propiziando la loro oggettiva collocazione di classe in senso progressivo nel tentativo di una trasformazione radicale della società. Su questo punto, Alessandroni ha pagine assai efficaci nella descrizione della polemica che contrappose Elio Vittorini e Togliatti all’epoca della stagione del “Politecnico” servendosi in modo significativo anche delle pagine che Franco Fortini dedicò a questo momento cruciale della storia culturale italiana.
La terza condizione è la fine della mistificazione che risulta connessa all’attività artistica e della congiunzione Verità-Bellezza come sua classica parola d’ordine d’avanguardia. La sconfitta dell’individualismo borghese passa anche attraverso il superamento dell’isolamento dell’artista. Le parole d’ordine estetico-filosofiche di “totalità” e di “tipico” largamente utilizzate nelle opere del Lukács della fase hegelomarxista.
La quarta scelta è quella a favore del critico militante che non si accontenta della filologia accademica ma cerca di portare nel fuoco della lotta e della controversia un sapere non astratto ma legato alle contingenze concrete della storicità in atto.
La quinta necessità prospettata da Alessandroni, infine, riguarda l’allargamento della prospettiva di analisi critica e la fine della dimensione finora esclusivamente occidentale e europeocentrica di essa. L’interesse dimostrato per i Postcolonial Studies ne è un aspetto significativo e non è un caso che uno degli autori di riferimento utilizzati da Edward Said per i suoi studi sull’Orientalismo sia stato proprio Gramsci. In conclusione: questo è un libro di frontiera.
Saldamente radicata in una tradizione di pensiero come quello marxista che ha certamente conosciuto giorni più felici ma che non ha mai cessato di operare il suo ruolo nella cultura progressista, la ricerca di Alessandroni si sporge, tuttavia, come un ponte teso verso una sponda nuova e finora relegata quasi esclusivamente nell’ambito degli studi specialistici di settore come i Cultural Studies e la ricostruzione del rapporto tra le culture autoctone e le forme di colonialismo ancora imperanti che le si contrappongono.
«A fronte di ciò, il ritorno a Lukács e a Gramsci può risultare fertile e non dogmatico e costituire la sesta direzione della loro rivoluzione estetica» (p. 201).

"Appena scavi un po', la realtà è un'altra cosa". Vita e morte di Enzo Baldoni


1. Zonker
"Quanto tempo è passato dai tempi di Baldoni? Sembrano pochi anni, ma sono molti di più. Un secolo, è passato, fra l'Italia civile e pacifica che trottava sugli scarponi di Enzo e l'agglomerato impaurito e feroce che vediamo ora. Di Enzo, rimane la buona e incuriosita scrittura da 'dilettante', da 'viaggiatore' (parole profondissime, antiche nella cultura italiana: ora spazzate via, coi corrispondenti concetti, dall'assoluta non-traducibilità in italish); il sorriso mite e serio, da italiano che ha viaggiato; e quel coraggio autoironico, da Don Camillo o Peppone, alla 'io-ci-provo' (non fu mica facile ammazzarlo: ci si dovettero mettere in più d'uno, contro l'omone bonario che si difendeva la vita)".
Così più di tre anni fa Riccardo Orioles iniziava su Bloghdad il suo ricordo di Enzo Baldoni, il pubblicitario dell'Alto Tevere, giornalista free-lance, scrittore, navigatore e chissà quante altre cose, ucciso a Baghdad dalla banda che l'aveva sequestrato il 26 agosto 2004. Orioles è un rigoroso giornalista antimafia: cominciò con I Siciliani di Pippo Fava e, coerente con quel modello di giornalismo, ne paga ogni giorno il prezzo. 
Con Baldoni Orioles aveva un duplice rapporto di complicità. Aveva aderito tra i primi alla Zonker's Zone, la mailing list che il fantastico umbro aveva messo insieme fin da quando, con lo pseudonimo di Zonker, aveva curato tra il 1997 e il 1999 una rubrica su “Linus”. Zonker (nome di un personaggio della striscia fumettistica Doonesbury di Trudeau di cui Baldoni curava la traduzione italiana) divenne il suo nickname nel mondo digitale e nei suoi blog da tutto il mondo. Baldoni dal canto suo alimentava la Catena di San Libero, una e-zine civico- pacifista promossa da Orioles. 
Il pezzo di Orioles su Bloghdad (è il blog aperto da Baldoni alla sua partenza per l'Iraq nel 2003 e, dopo la sua scomparsa, tenuto vivo, aggiornato e curato dalla Zonker's Zone) contiene altre gemme sulle qualità professionali e umane di Zonker: "Era anche - o soprattutto - un artigiano, un grafico pubblicitario del duemila, esattamente come avrebbe potuto essere un buon pittore di bandiere e madonne nel Quattrocento. Con la stessa intimità col mestiere, l'umiltà, l'ironia. E la passione profonda, 'da bottega'. Era spinto a insegnare, a tramandare il mestiere. Per questo, non solo per bontà innata, aveva le sue lezioni gratuite, settimanali. Il mondo allora andava avanti così, coi mestieri ben fatti e trasmessi a chi vien dopo. È una parola antichissima quel fondata sul lavoro. Una parola italiana - di quando l'Italia c'era".

2. Il corpo
"Si è parlato molto di morte in questi giorni: della morte serena di Zio Carlo, filosofo e yogi, che forse sapeva la data del suo trapasso. Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch'io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L'indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato".
Con questo fatalismo un po' orientale, un po' stoico ("fa quel che devi, succeda quel che può") Enzo Baldoni affrontò quello che sarebbe stato l'ultimo viaggio. Ma dalla fascinosa Mesopotamia per sei anni e più non tornò neanche il corpo. Venne rapito presso Najaf il 21 agosto 2004 dall'Esercito islamico dell'Iraq, una banda che si disse genericamente legata ad Al-Qaeda, mentre era in missione umanitaria con la Croce Rossa Italiana. Dopo un ultimatum all'Italia per il suo ritiro di tutte le truppe entro 48 ore, venne ucciso: appunto il 26 agosto, presumibilmente. Nel luglio 2005 la Croce Rossa entrò in possesso di un frammento di osso che si pensò potesse appartenere al corpo di Baldoni, ipotesi confermata il mese successivo con i risultati delle analisi del DNA eseguite dal Reparto Investigazioni Scientifiche (RIS) dei Carabinieri. Gli appelli della moglie, la licatese Giusi Bonsignore, non ebbero nell’immediato efficacia, ma forse non sono andati a vuoto. Baldoni è tornato in Italia nel novembre 2010 ed è stato seppellito a Preci, in provincia di Perugia

3. Protomartire
Questo post non contiene niente di originale. E’ l'omaggio ad una persona che vorrei aver conosciuto e a cui mi sento legato da quelle piccole stravaganti coincidenze di cui ogni tanto ci accorgiamo. 
Lui umbro di nascita, io umbro d'adozione, curioso delle cose e delle persone speciali della terra dove ho casa; la moglie siciliana di un paese vicino al mio (lei di Licata, io di Campobello di Licata). Dicono che Baldoni venisse di quando in quando nella 'Sicilia Saudita'; è possibile le spiagge ove io andavo a fare il bagno.
I testi che seguono possono servire ai frequentatori di questo blog per un primo approccio alla memorabile figura di Baldoni. Si tratta di due pezzi tratti da "micropolis", il primo scritto, il secondo scelto e curato da Paolo Lupattelli, un giornalista curioso e valente che con Enzo aveva dei progetti in comune, e di un paio di frammenti dal blog di Baldoni in Iraq, contenuti in “Bloghdad”.  
Li rimetto in circolo in un momento in cui nell’Iraq, che dicevano pacificato, si moltiplicano gli attentati mortali. E’ Santo Stefano protomartire oggi, la cui santità deriva dal fatto di aver testimoniato, primo tra i cristiani, la propria fede con il sacrificio della vita. (S.L.L.)

Un umbro senza retorica
La vita bella di Enzo Baldoni
E’ passato un mese da quando Enzo Baldoni è stato assassinato nel mattatoio di Baghdad. Per tutto quello che ha fatto e per come lo ha fatto, per quello che è stato detto di lui e di quelli come lui, è diventato un simbolo, una ventata di aria pulita in mezzo alle troppe pestilenze di questi assurdi tempi di guerra. Enzo Baldoni nasce 56 anni fa a Città di Castello. Curioso della vita e del mondo fa il muratore in Belgio, lo scaricatore ai mercati di Parigi, il fotografo a Sesto San Giovanni, l’insegnante di ginnastica, l’interprete e il tecnico di laboratorio, il traduttore dei fumetti di Doonesbury. Infine il pubblicitario: “Faccio il copywriter. Come diceva Walter Mathau in Prima pagina, scrivo poesie su reggipetti e formaggini. Mi piace, è un bel lavoro” . Ci sarebbe tanto da dire su questo personaggio pieno di vitalità, di coraggio, di curiosità, di generosità e di allegria. Eppure scrivere di Enzo Baldoni è difficile. Prima di tutto per rispettare le sue esilaranti ma serissime Disposizioni per un saluto che fanno capire meglio di tante parole il suo carattere, la sua visione della vita. Poi perché grande è il rischio di cadere nella retorica, di ritrarre un santino come spesso avviene nei ricordi. E questo ad Enzo non sarebbe certo piaciuto. Infine, perché a volte le parole non si trovano, ci si sente inadeguati ad esprimere tutto quello che si vorrebbe.
C’è da una parte l’orgoglio di aver avuto la fortuna di conoscere, purtroppo per poco, una persona speciale, un affabulatore ricco di esperienze, d’intelligenza, di disponibilità, di ironia, di entusiasmo contagioso. Dall’altra l’amarezza di non aver potuto approfondire una conoscenza che sarebbe potuta divenire amicizia, di non aver potuto dar seguito ai tanti progetti ventilati, alle tante bevute progettate. Ma se si vuol tentare di capire, di dare un senso alla sua morte le parole bisogna trovarle. Le prime sono di rabbia per le stupide e gratuite provocazioni dei servi sciocchi e guerrafondai che nell’agiatezza delle loro scrivanie caricano le penne di merda e, per soldi e per invidia, sparano su quanto di pulito trovano intorno. A corto di argomenti per sostenere la tesi della missione di pace, della guerra giusta, direttori e redattori con la bandana, soloni e tromboni stonati, non hanno trovato di meglio che ricorrere agli insulti per dare un’immagine distorta di Baldoni e di chi come lui era in Iraq per testimoniare sul campo e non dalle sicure terrazze degli alberghi della zona verde, tutti i casini della guerra. Baldoni è stato descritto come persona avventata, amante dell’avventura, cercatore di scoop. Subdolamente e stupidamente, quasi fosse un’offesa, in molti si sono affannati a dire che era un free-lance, non un professionista. Ma quante lezioni di contenuto e di stile ha dato ai troppi impiegatucci di qualche giornale e di qualche televisione: l’incontro con Marcos in Chapas, l’intervista con il capo dei ribelli di Timor est, il reportage sui guerriglieri birmani, quello sui guerriglieri colombiani che lo sequestrano ma poi finisce che intervista il capo. I più fetenti sono arrivati alla derisione: “uno spocchioso turista per caso che senza conoscere le regole si è spinto in un gioco più grande di lui, uno che in fondo se l’è cercata, un pirlacchione amico dei suoi assassini”. Complimenti per la meschinità. Al contrario, Enzo era un quintale di simpatia, certo trasgressivo, fuori dal comune, scanzonato, ma consapevole dei pericoli e grande scrittore con il senso della notizia. Uno che amava ripetere “come è bella la vita”, non quella comoda e agiata ma quella che si consuma ogni giorno in quei posti dove la vita non vale niente e sembra essere solo un insulto. Per questo si recava nei posti caldi. Per capire e per spiegare, ma anche per agire. La mattina del 19 agosto insieme al suo amico palestinese Ghareeb, Enzo guida un convoglio di medici e volontari della Cri che portano acqua e medicinali a Najaf assediata dagli americani. Prima di partire manda l’ultimo messaggio al suo blog : “Mettiamola così, nelle prossime 24 ore ho la possibilità abbastanza concreta di crepare. Ovviamente non succederà, ma se succederà sappiate che sono morto felice”. Felice perché la missione era riuscita, aveva portato cure e conforto, salvato tanti civili capitati sotto i bombardamenti americani. Questa stupida guerra ci mostra due Italie. Quella spocchiosa, confusa, retorica, egoista, filoamericana del partito della guerra e del petrolio. Quella pulita, coraggiosa, riservata e solidale del partito della pace. Che bella Italia quella di Enzo Baldoni, di Simona Pari e Simona Torretta e di tutti i volontari che in silenzio, senza mai apparire, senza cercare affari e soldi, mettono il proprio lavoro e la propria vita a disposizione degli altri. Che bella Italia quella di Giusy, Gabriella e Guido, la moglie e i figli di Enzo Baldoni, che non piangono in televisione, che non invocano padre Pio, che si dimostrano forti, sereni, orgogliosi, che parlano di Enzo non come di un eroe da avvolgere nel tricolore, ma semplicemente come del babbo. Hanno detto “Enzo non c’è più e nessuno potrà mai ridarcelo, però è anche qui in mezzo a noi. Enzo andava incontro alla vita con un sorriso, continueremo a farlo per lui. Enzo era innamorato della vita, era un inguaribile ottimista. L’insieme di queste cose germoglierà per il mondo e quelle che ci sono dentro di noi stanno già germogliando”. Sta anche a noi, a tutti quelli che credono nella pace, trovare le strade giuste per far germogliare un rinnovato impegno quotidiano. Impegno contro tutti i fondamentalismi sanguinosi, singolarmente e tragicamente complementari tra loro: quello guerrafondaio assassino del terrorismo e quello guerrafondaio degli apprendisti stregoni della guerra preventiva. Impegno prima di tutto per far ritirare subito le truppe italiane, poi per mandare a casa tutti gli avventurieri in bandana che hanno spinto il paese in questo sanguinoso mattatoio. Impegno per far vincere la pace.
Paolo Lupattelli
(“micropolis” settembre 2004)

Disposizioni per un saluto
Ordunque, trascurando il fatto che io sono certamente immortale, se per qualche errore del creatore prima o poi dovesse succedere anche a me di morire - evento verso cui serbo la più tranquilla e sorridente delle disposizioni - ecco le mie istruzioni per l’uso. La mia bara posata in terra, in un ambiente possibilmente laico, ma va bene anche una chiesa, chi se ne frega. Potrebbe essere la Casa delle Balene, se ci sarà già o ci sarà ancora.
L’ora ? Tardo pomeriggio, verso l’ora dell’aperitivo. Se non sarà stato possibile recuperare il cadavere perché magari sono sparito in mare (non è una cattiva morte, ci sono stato vicino: ti prende una grande serenità) in uno dei miei viaggi, andrà bene la sedia dove lavoro col mio ritratto sopra. (...) Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati. Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e i miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che assolutamente non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po’ più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati. Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato. Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffet con vino, panini e pannetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salcicce e tutto quel che volete.
Vorrei l’orchestra degli Unza, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini, sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, checazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po’ anche a me. Voglio che si rida - avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte. E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considerei un’offesa alla morte, bensì un’offerta alla vita. Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata. Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega.
Enzo Baldoni
("micropolis", settembre 2004)

Dal blog irakeno di Enzo Baldoni (Bloghdad)
Due frammenti

lunedì, 26 luglio 2004
Elogio dell'ignoranza
Sembra paradossale, ma il problema, sull'Irak, è che c'è troppa informazione. Siti, blog, articoli di giornale, instant book. In Irak son già passati tutti, decani del reportage di guerra, mezzibusti da sbarco, giornalisti embedded. E i loro pezzi sono tutta una raffica fragorosa di scoppi e spari. Passiamo sotto il fuoco! La macchina sforacchiata dai proiettili! Rimbomba una forte esplosione! Il mio fedele autista! Gli uomini di Al Sadr ci circondano! Si sentono raffiche in lontananza! Salta una mina di fronte a noi! Volute di fumo nero! Un uomo in fiamme!
Eh, la madonna. Quanto casino.
Il materiale è sterminato, vorresti sapere tutto, leggere tutto, informarti di tutto, in una specie di bulimia che alla fine ti strozza e ti ingolfa.
Per fortuna la dritta giusta me l'ha data l'altro giorno Giacomo, giornalista di quelli veri (mica come me, che in fondo sono solo un turista di guerra): "Dai retta a me, a volte l'ignoranza è un vantaggio. O hai approfondito per anni un Paese o ci vai tabula rasa. Arrivi senza preconcetti e, per sbaglio, ti capita di vedere quello che gli altri non vedono. Lo sguardo di Candide..."
Mi piace questo approccio. Meno faticoso. Mi piace l'idea di viaggiare per sbaglio. Mi rilasserò e andrò dove mi guida la panza.
E, speriamo, il culo.
zonker [Enzo G. Baldoni] 02:32, ora di Baghdad


mercoledì, 04 agosto 2004
Sotto quel velo nero
Sul Mar Morto ti capita di vedere biondine in bikini succinti accanto a musulmane osservanti che, completamente avvolte nei veli neri, fanno il bagno fino al ginocchio .
Vedi un gruppo di uomini, tutti vestiti di bianco, sotto una capannina.
Nella capannina accanto le loro donne, tutte vestite di nero.
Ti vengono pensieri cupi e politicamente corretti di segregazione, di schiavitù, di sottomissione della donna. Poi un colpo di vento sbarazzino solleva un velo nero, rivela uno chignon biondo, scopre una camicetta civettuola, ti porta il trillo di una risata e pensi che, come al solito, appena scavi un po' la realtà è un'altra cosa.

zonker [Enzo G. Baldoni] 17:14, ora di Baghdad

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