31.7.11

Melodramma, una faccenda di donne (di Rina Gagliardi)

Su “La Talpa libri” di venerdì 8 marzo 1991, non casualmente, una pagina intera era dedicata a un breve saggio di Rina Gagliardi sulle protagoniste femminili dell’opera lirica in quattro secoli di melodramma e di libretti musicali. Si tratta di un testo profondo e brillante, che meritava e meriterebbe non solo di essere pubblicato in volume (non mi risulta che sia stato fatto), ma di essere usato nelle scuole, giacché la classificazione di Rina (giornalista e italianista di studi rigorosi)  è un formidabile strumento di comprensione di diversi fenomeni storico-culturali.
Qui “posto” la prima parte dello scritto, la premessa di metodo, promettendo agli eventuali (e, certo, pochi) interessati di socializzarne in futuro qualche altro brano. (S.L.L.)

Maria Callas nei panni di Carmen.
Una sacerdotessa dell’antica Gallia (Norma) arde nelle fiamme del rogo in un rito di purificazione/espiazione, ma anche di riconquista dell’amore perduto.
Una ricamatrice tisica (Mimì) si spegne , giovanissima, in una soffitta di artisti spiantati.
Una fanciulla misteriosa e incantata (Mélisande) muore nel dare alla luce una figlia.
Una principessa irlandese del XIII secolo si abbandona, estatica, sul corpo dell’amante e canta un inno di amore e di morte dolce e calmo/sorridente.
Una donna di strada del nostro tempo (Lulù) passa “di bassezza in bassezza” e finisce per mano di Jack lo Squartatore.
Un’ingenua fanciulla abbandonata (Gilda) si sacrifica al posto del malvagio seduttore.
Di quanti ritratti femminili si compone ormai l’opera lirica dopo quattro secoli di vita? Un’infinità certamente. Ma, di certo non è solo, e non è nemmeno principalmente una questione di quantità.
Nei suoi quattrocento anni, appunto, il melodramma muta anche radicalmente per stile, concezione e latitudine, ma conserva una fortissima identità femminile. Nasce con l’Orfeo, che è l’esaltazione delle virtù salvifiche della musica, ma, soprattutto, la mimesi dell’“eterna ricerca” della Donna, della Madre; diventa commedia borghese dominata da una lunga theoria di giovani scaltre e civettuole; si fa pura espressione delle passioni, “degli ingredienti primitivi ed essenziali dell’animo umano”, diceva Bernard Shaw, e poi delle mille irrequietezze dell’anima moderna...; ma resta sempre una “faccenda di donne”, secondo la felice spressione di Catherine Clement.
Attorno a Lei, - minacciata, inseguita, disprezzata, umiliata, idolatrata – ruotano le ragioni profonde del dramma e spesso la sua essenziale verità musicale. Di sicuro (ed è solo l’esempio più autorevole) Mozart scrisse le sue arie più ammalianti (dall’Idomeneo al Don Giovanni) per la voce femminile.
Perché? Forse perché “il canto operistico è il linguaggio delle passioni”, come ebbe a scrivere Adorno: l’espressione di “quel che la natura realizza nell’uomo contro ogni convenzione e mediazione”, l’evocazione di quella “assoluta immediatezza” cui l’uomo ha costantemente aspirato.
Quale associazione più “naturale”, allora, tra il Femminile e le Passioni, tra la Donna e l’Eccesso, tra le donne e il melodramma? Non ne hanno forse fatto parte anche, guadagnandosi l’accesso al mito, le grandi creatrici di passioni musicali, le “grandi dive” dell’opera morte giovani (la Malibran, che il padre minacciava di uccidere se non cantava bene) o morte, come Maria Callas, per l’incapacità di sopravvivere alle luci della ribalta?

Paesi completi, moderni, energetici (Umberto Boccioni - "Taccuini futuristi")

Umberto Boccioni, Autoritratto, 1907
Venerdì 5 luglio 1907
Continuo a non lavorare e a fare i bagni. Ho conosciuto un americano molti intelligente. Credevo avesse anche lui le solite ripugnanze verso l'amore come tutti i cristiani e invece l'ho trovato molto aperto alla vita d'impulso e completa . Mi sembrò entusiasta delle mie idee su tutto. E lo pregai di riaprire una parentesi per me quando in America vrebbe parlato dell'Italia e degli italiani.
Ho ricevuto una bella cartolina da Amelia, una da Piccoli, e una da Parigi da Goidano. E' là con Severini.
Partirei volentieri ma dove?
Sogno dei paesi completi, moderni energetici lontani da tutto questo antichissimo che mi schiaccia. Milano mi gioverà? E Parigi? E l'America? E la Scandinavia? 

Pellizza da Volpedo (dai "Taccuini futuristi" di Umberto Boccioni)

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Panni al sole
16 giugno 1907
Ieri s'è ucciso a 39 anni Giuseppe Pellizza da Volpedo. S'è impiccato un mese dopo la morte della moglie evidentemente vinto da tale scomparsa! Io ne sono stato sbalordito tutto il giorno. Era così dolce, così sereno e così pieno di fiducia nell'avvenire! L'avevo conosciuto a Roma e avevamo molto discusso. Come artista non era forte. Era troppo tenue, troppo mite; nella vita forse era lo stesso e si è ucciso. E' terribile.

L'onore della cugina americana (di Agostino Spataro)

Il mio antico compagno ed amico Agostino Spataro, dirigente e deputato del Pci, poi giornalista (è oggi commentatore politico nelle pagine siciliane di “Repubblica”), mi manda notizia di un suo raccontino, assai sapido, pubblicato a inizio luglio sul magazine del quotidiano italo-americano “America oggi” di New York. Ha come tema l’onore e c’entra la mafia (la mafia c’entra sempre), ma qui non è nel pieno della sua attività. Si potrebbe chiamare “racconto di mezza mafia”. (S.L.L.)
In quella calda serata di giugno, don Isidoro Cipolla si era steso sulla jittena[i], sotto la vecchia pergola stracarenti del partito al governo. Voti e picciotti erano gli ingredienti più efficaci per accumulare prestigio e potere...
Un potere tirannico che genera morte e rovina. Il potere e la morte. Un binomio tremendo che lo assillava anche nel sonno. Poiché anche la morte data agli altri evocava la sua morte, sempre incombente...
Mentre tutto ciò rimuginava, irruppe la voce, agitata, della figlia Nardina: “Papà, papà, corri corri! Ti vogliono a telefono… dall’America”.
Don Isidoro non si scompose, quasi stesse aspettando quella telefonata.
All’altro capo il cugino Antonino, da Brooklyn, si lamentava per la rottura del fidanzamento della figlia più piccola, Lucietta, che era stata piantata da un giovane di buona famiglia siculo-americana. Una rottura improvvisa, immotivata che aveva gettato la fanciulla nella disperazione e nella vergogna l’intera famiglia.
“La ragazza ha bisogno di partire da Brucculinu, per svagarsi, per dimenticare questo bellimbusto”, concluse il cugino americano.
E in tutto il Pianeta non vi era luogo più adatto a tale scopo che il natio borgo, sperduto in quell’angolo di Sicilia terragna, dove la sfortunata ragazza sarebbe stata accolta da una caterva di parenti premurosi.
Sulle prime, don Isidoro se ne stette muto e lo lasciò sfogare. Anche se gli rodeva il fegato per quell’affronto grave, anche per lui. Gli dava ai nervi la rassegnazione di quel minchione americano e avrebbe voluto reagire alla sua maniera: “Cuscì, ma veramente non c’è più nulla da fare?”
“No, oramai le corde si sono rotte”- sempre più rassegnato l’americano.
“Si sono rotte, ma si possono riattaccare”.
“No cuscì, gli abbiamo fatto parlare, ma nulla. Santo che non suda è”.
“Ma chi ha parlato con quest’uomo inutile?”
“Amici suoi e della nostra famiglia, ma non ci fu verso”
“Amici, amici? O personcine di cuore?”
“No, conoscenti di famiglia. Non vogliamo disturbare persone importanti, altrimenti a fetu finisce”.
“E che disturbo c’è per queste cose. Quando c’è il bisogno. Allora gli amici a che servono?”
“No cuscì. Lasciamo perdere. Vuol dire che non c’è volontà di Dio”.
“Sapete come diciamo qua: dove Dio non può l’uomo provvede. Se volete faccio una telefonata a New York”.
“No, per l’amore di Dio! Lasciamo perdere. Oramai la pietra è caduta nel pozzo”.
“Mah! Che posso dirvi. Nella nostra famiglia mai sono successe queste cose; nessuno s’era mai permesso di farci un’offesa simile…”
“Ragione avete, ma il mondo è cambiato e qui siamo in America”.
“Più che il mondo, mi pare che voi siete cambiato...”
“Capisco cosa volete dirmi, ma non ci possiamo fare nulla. Vediamo di farla divagare, prima o poi un’altra provvidenza le dovrà capitare”.
“La provvidenza non capita, ma si deve cercare. Comunque, sempre dico, se volete, posso telefonare e vedremo se questo signorino non dovrà rinsavire”.
“Niente cuscì, lasciamolo perdere. Vi mando Lucietta per qualche mese e fatela divertire. E chissà se al paese non trova di meglio?”
“Va bene. Se volete, qua, lei, prima che arrivi, lo trova di meglio”.
“No cuscì! Quando sarà laggiù si vedrà. Sapete com’è, l’ebica[ii] d’ora ragiona diversamente”.
“L’ebica d’ora? Quando non s’insegna l’educazione. Noi questi problemi non li abbiamo avuti e fin tanto che camperò io, siatene certo, non li avremo…”.
“Capisco cuscì, ma qui è diverso, siamo in America, non siamo al paese”.
“Anche qua è diverso. Che vi credete? Ma per la nostra famiglia è sempre uguale”.
“Tuttavia, per quanto diverso sia non può essere come qui, caro Isidoro”.
“Ammimchiastivu! Vi dico che anche in Sicilia le vergogne abbondano, anzi centu vrigogni parino anuri[iii]. Ma nella nostra famiglia non si usa questo traccheggio: tutti filano dritti, uomini e femmine”.
“Mah! Facciamo la volontà di Dio. Se vi fa piacere ve la mando, con l’aereo fino a Palermo”.
“Cuscì in America siete divenuto tutto di Dio. Qua per arrivare a Dio l’amici ci vogliono. L’avete dimenticato? Comunque, per me è come se fosse un’altra figlia. Mandatemela e vedrete che starà tanto bene con le sue cugine”.
“Okèy! Però vorrei che la faceste girare un po’ per la Sicilia. Mi raccomando. Qui i giovani sentono parlare di Tavormina, di Mungibeddru, di quel paese vicino Palermo dove c’è quella potente cattedrale; come si chiama…camurria, non mi viene il nome…”
“Murriali vorreste dire ?”.
“No. Mi pare che si chiami Cefalù, dove c’è anche il mare per farsi i bagni”.
“Tavormina, Cefalù…e che sono dietro l’angolo? Comunque, se così volete sarete accontentato”.
“Cuscì, non vorrei arrecarvi disturbo: le spese sono tutte a mio carico. Intesi?”
“Ma che spese e spese! Mi volete offendere? Solo che mi sembra un sopruso che per divertirsi bisogna andare così lontano dal nostro paese”.
“Se voi avete da fare la mandate con vostra figlia”.
“Cuscì, allora non ci siamo capiti! Mia figlia da sola non ha dove andare. Lei davanti e io dietro”.
“Va beni, okey. Lo dicevo per non darvi disturbo”.
“Nessun disturbo. Quando c’è di camminare per bisogno niente si guarda…”
“Ma non è per bisogno! Per farla svagare, vi ripeto”.
“Lasciate fare a me: per loro è divertimento, per me è bisogno. Se avete fiducia, lasciate fare a me che sono più grande”.
“Fiducia? Voi lo sapete: siete più grande e come un altro padre vi considero”.
“E allora, io faccio il padre e voi il figlio. Comunicatemi il giorno del suo arrivo che ci faremo trovare a Punta Raisi”.
Don Isidoro, tutto incupito, lasciò la stanza e tornò a sdraiarsi sulla jittena. Era preoccupato che quell’affronto subito a Brooklyn si sarebbe potuto riverberare sul suo prestigio di boss locale. Le malelingue d’oltreoceano si sarebbero attivate e la notizia del ripudio sarebbe arrivata in paese prima della ripudiata. E quanti risolini beffardi e commenti salaci si sarebbero fatti alle sue spalle! Tutta colpa di quello scimunito cugino americano che si era rassegnato a subire l’offesa di un “signor nessuno”, senza pensare al danno che avrebbe arrecato all’onore e al prestigio della famiglia. E lui, don Isidoro Cipolla, doveva ingoiare il rospo e per giunta assecondare le bizze di quella ragazzina viziata. E dire che sarebbe bastata una telefonata per evitare quell’imbarazzante viaggio turistico!
“Eh! L’America sta andando alla deriva! Da quando si sono allentati i vincoli con la madreterra, questi siculo - americani vacillano; vorrebbero apparire persone per bene e non si accorgono che il loro perbenismo sarà la tomba dei valori antichi…”
A tavola, don Isidoro era d’umore nero, non riusciva a star fermo sulla sedia come se stesse sedendo sopra pale di fichidindia spinosi. Abbandonò il desco per andare a informare il “paparanni”.
Don Gaetano era in terrazza e si faceva vento con un fazzolettone a quadri rossi e bianchi. Alla vista del volto rabbuiato del nipote, il vecchio boss rientrò in casa e ordinò alla moglie di preparare il caffè. Era questo un espediente per tenere la donna lontana dalla conversazione. Intuì lo stato d’animo del nipote e l’invitò a parlare, saltando i convenevoli: “Beh! Andiamo al fatto”.
Isidoro gli raccontò, per filo e per segno, quella telefonata, stigmatizzando la minchioneria del cugino americano. Don Gaetano si rese conto che il nipote non era venuto per consiglio, ma per una convalida e volle assecondarlo: “Umh! Qui dobbiamo giocare con astuzia. Dobbiamo far vedere a tutti che siamo uniti e festanti. Quando arriverà a Palermo ci andremo all’incontro e se vorrà visitare Taormina o qualsiasi altra città siciliana partiremo tutti insieme. Il paese deve vedere che la nostra famiglia è sempre unita e festante. L’unità è la migliore risposta a quelli di là e a questi di qua. Non dobbiamo dar loro questa soddisfazione. Anzi dobbiamo trasformare la disgrazia in una frivolezza,
come se si trattasse di un festino in famiglia. Nessuno dovrà sapere che Lucietta sta venendo per “vrigogna”, tutti dovranno vedere che arriva per svagarsi. E noialtri con lei… Allegria, Isidò!”
“Così dice vossia e così faremo”, suggellò Isidoro.
Lesse il telegramma tutto d’un fiato: “Arriva at Palermo ore 11,30 dopodomani 22 - Vostro cugino Antonino- stop”.
Le donne della casa entrarono in agitazione. Quella notte nessuno riuscì a prendere sonno. Alla cantata del gallo, tre automobili nere, prese a nolo, si avviarono per la discesa che costeggia il monte Saraceno, fendendo un’ombra tetra che cominciava ad evaporare sotto i colpi del sole nascente.
Il piccolo corteo sorpassò una lunga fila di carretti cigolanti diretti verso le terre grasse della piana. A bordo, sagome avvizzite di contadini scrutarono quei volti che correvano: quello cupo di don Isidoro e quelli un po’ tirati delle donne al seguito. Fino a quando le auto uscirono dalla nuvola di polvere biancastra della provinciale e imboccarono la strada per Palermo.
Qualcuno azzardò un’ipotesi: “Malattie?”.
“No, peggio. Disonore!”, sentenziò un altro che gli sfilava accanto.
agspata@tin.it


[i] jittena: rialzo in gesso sul davanzale di casa su cui ci si stendeva per conversare o per riposare.
[ii] ebica: generazione
[iii] cento vergogne sembrano onore


Riflessioni etico-politiche sulla guerra di Libia (di Eros Barone)

Il compagno Eros Barone mi ha mandato una sua nota sulla partecipazione italiana all'orribile guerra di Libia e sul sonno della ragione che sembra attraversare la pacifica opinione pubblica italiana, anche a sinistra. Il testo, a mio avviso profondo e ottimamente scritto, mi pare integralmente da sottoscrivere e mi pare confermare quanto da qualche mese vado qui ripetendo: l'imperialismo è vivo e vegeto e le ideologie che vi si connettono hanno tuttora una larga presa. Autorizzato, riprendo il testo di Barone, che fraternamente ringrazio. (S.L.L.)
 Un popolo che ne opprime un altro
non è un popolo libero
Ancora una volta è Lenin che ci offre la formula giusta per sintetizzare il significato profondo della partecipazione dell’Italia alla guerra contro la Libia: una guerra che è tanto sporca da essere diventata invisibile. In effetti, se si confrontano le situazioni belliche di 20 o di 8 anni fa con quella attuale, tutto risulta peggiore. Non solo per la quasi unanimità dei giudizi, ma anche per la irrilevanza delle voci che si distaccano dal coro. Ci si può, quindi, domandare se l’opinione pubblica sia così facilmente manipolabile, e la risposta è duplice. Sì, se si tratta di creare in pochi giorni un qualche consenso; no, se si guarda alle dinamiche profonde. Dopo  due decenni di declino morale, economico e politico degli Stati Uniti e di crescita di altri modelli di sviluppo (Cina, India e Brasile), dopo i mutamenti politici ed elettorali, la scomparsa dei partiti storici e la nascita di nuovi partiti, la crescita di una generazione che non ha conosciuto il mondo bipolare e le varie forme di “guerra fredda”; si poteva, sì, pensare che la destra come mentalità autoritaria avesse guadagnato terreno nella società e nella cultura diffusa, in corrispondenza alla decomposizione delle sinistre, ma non che il bene-rifugio sarebbero tornati ad essere, insieme con i ‘contractors’ occidentali che operano al fianco degli ascari monarchici e filo-imperialisti di Bengasi, gli aerei e gli elicotteri che, nel silenzio pressoché totale dei ‘mass media’, bombardano ininterrottamente da cinque mesi, giorno e notte, la popolazione di Tripoli e delle altre città che sono rimaste fedeli a Gheddafi.
È evidente che avevamo sottovalutato le dinamiche profonde costituite dagli interessi e dai sentimenti. Non solo i ceti dominanti, ma anche e forse soprattutto gli strati depressi o impoveriti, compresa una quota consistente dei cosiddetti ‘ceti medi riflessivi’, hanno qualcosa da difendere da quel Terzo Mondo che nelle nostre contrade ha il volto dell’arabo, un volto che è visibile ad ogni angolo di strada. La differenza che sconcerta chi faceva assegnamento sulla forza della ragione, la differenza che rende paurosi questi mesi, è che la media borghesia, l’Italia più o meno colta, una parte del ceto politico, che in qualche misura erano state una barriera alle peggiori tendenze dell’età di Bush (e che hanno plaudito all’avvento di Obama), si sono dislocate dalla parte di queste ultime, esprimendo un riflesso di difesa istintiva e di odio malcelato, una “unione sacra” che è tanto più inquietante quanto più è tacita, avendo assunto come marmoreo presupposto (non un minimo di confronto e di discussione, in termini sia etico-politici che geopolitici, circa la liceità, la legittimità e gli scopi di questa guerra neocoloniale, ma) la scotomizzazione della sua stessa esistenza, quasi che fosse unicamente un’operazione di polizia internazionale e, dunque, un ‘affare privato’ delle forze militari che la conducono e non un conflitto imperialistico destinato ad incidere profondamente sulle relazioni fra gli Stati e i popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Sennonché constatare ciò significa enunciare una verità inconfutabile in una società irrespirabile. Il ‘colpo’ politico-istituzionale che, con il più autorevole avallo presidenziale, è giunto a cancellare l’articolo 11 della Costituzione, ha il consenso degli italiani, e non saranno la crisi economica e i tagli selvaggi al tenore e alla ‘qualità della vita’ imposti dalla finanziaria ‘lacrime e sangue’ a farli recedere dal consenso alla guerra ‘invisibile’, poiché basterà loro scendere in strada e guardare facce maghrebine e senegalesi, aprire il giornale, ascoltare i comunicati della radio.
   Mentre scrivo questa riflessione etico-politica sulla guerra contro la Libia, i raid della Nato continuano a distruggere le città della Libia, ma l’effetto peggiore che hanno già ottenuto è la distruzione di ogni linguaggio razionale, la soppressione di qualsiasi voce contraria, l’instaurazione del terrorismo ideologico allo stato puro. Nel frattempo, qualche giornalista di lungo corso ci ricorda nei suoi editoriali, a livello interlineare, che per fare le frittate bisogna rompere le uova e che le vacanze con l’automobile, tanto più in tempi di crisi economica, non sono possibili senza la trasformazione, in pezzi di cadaveri impastati di sangue e di sabbia, di un elevato numero di corpi umani di etnia e di lingua araba. Quei corpi che, da vivi, non sia mai detto!, avrebbero voluto magari farci pagare il doppio ogni litro della loro benzina, mettendo a repentaglio, più di quanto già non siano, le borse mondiali (ecco il vincolo sanguinoso che, come insegna Lenin, unisce indissolubilmente, sotto il tallone di ferro dell’imperialismo, la crisi economica, la guerra e la reazione). Nessuno deve stupirsi, allora, per esprimerci con un’ipotiposi adoperata da uno scrittore che conosceva e praticava il “sarcasmo appassionato”, se «l’azionista vuole portarsi a casa, incartato nel quotidiano finanziario, un suo pezzetto di arabo morto perché i figli imparino a beccare e a nutrirsi».
Fra tanti nefasti effetti, la guerra in corso ha, tuttavia, quello utile di demistificare il moralismo che da ogni parte ci soffoca, e di spingerci a opporre a tale moralismo spicciolo la dura eticità del realismo politico (si potrebbe evocare, a questo proposito, il primato dell’eticità sulla moralità, cioè di Hegel su Kant). Ma ancora non basta: al realismo politico (che si basa sulla invarianza della “natura umana”) si deve opporre la positività dell’ideologia, vale a dire una finalità che non è solo un “dover essere” né solo un “poter essere”, ma la tensione dinamica e dialettica fra quello e questo. Contro il moralista il realista ha ragione; ma contro il realista hanno ragione la fede nella liberazione, la speranza nella pace e nella giustizia e l’amore per l’uomo.

30.7.11

1938. I miei venti anni ai Littoriali di Palermo (Franco Fortini)

Il “Corriere della Sera” di domenica  15 maggio 1988 pubblicava in terza pagina (c’era ancora la “terza pagina”) una "memoria" di Franco Fortini. Essa rievoca i Littoriali fascisti svoltisi a Palermo 50 anni prima, nel mese di aprile. Il poeta, che ventenne vi aveva partecipato, racconta il viaggio che per l’occasione fece in alcune località della Sicilia.
Della memoria riprendo qui la prima parte, che definirei politico-esistenziale visto che colloca i torbidi vent’anni di Fortini (torbida è sovente la giovinezza) in un quadro storico determinato. 
Vi si avvertono, insieme, la difficile presa di coscienza di gruppi di giovani rispetto al fascismo e i segni di una tragedia che su tutti incombe. “Posterò” separatamente la seconda parte dell’articolo, altrettanto bella, che racconta le impressioni più propriamente “siciliane” del poeta. (S.L.L.)
Vedi http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/08/sicilia-1938-i-turbamenti-del-giovane.html


1.
Cinquant’anni fa ne avevo venti. Andai a uno dei convegni nazionali di universitari fascisti che ai chiamavano Littoriali. Come sede per quell’anno avevano scelto Palermo. Per un ragazzo di pochi soldi com’ero, Palermo era lontana da Firenze molto più delle ventiquattro ore di treno. Sotto gli occhi dei coetanei che si sporgevano ironici dai finestrini, partii travestito con l’uniforme del Guf  e gli stivali neri, abbracciato e baciato dai genitori come se andassi al fronte. In una vecchia agenda trovo di aver conversato fino a Roma con uno studente che veniva da Padova, Bruno Biral; uno che pochi anni dopo si sarebbe battuto contro i tedeschi a Ravenna. La conversazione era continuata con uno studente di Milano, Duilio Morosini. Ritrovo altri nomi. Bruno Becchi ucciso dai fascisti; Giuliano Treves colpito da una granata fascista davanti a Santo Spirito, Ruggero Jacobbi, che avrei riveduto a Milano negli anni del Politecnico.
Di quei Littoriali, molte cose che allora non sapevo le ho imparate durante la guerra in un libro allora abbastanza famoso di Ruggero Zangrandi. Fra noi Bruno Zevi, Francesco Arcangeli, Adriano Seroni, Mario Alicata, Mario Spinella, Aldo Borlenghi, Vito Pandolfi, Antonello Trombadori, Antonio Rinaldi, Enzo Paci, Rosario Assunto…

2.
Che cos’era per lui la Sicilia? Un libro nazional-patriottico, letto appassionatamente da ragazzo, con storie raccapriccianti sulla vigilia dello sbarco dei Mille (e andò a cercare il Convento della Gancia, dove i patrioti s’erano aperti nel muro un foro per la fuga; o le immagini lugubri del colera del 1867, nella Vita militare del De Amicis; e Verga naturalmente; e Pirandello che con grande emozione aveva scorto una sera).
Ma non si creda sapesse. Non sapeva nulla. Era un tumulto furioso di speranza e vergogna, audacia e timidezza, il capo pieno di letteratura e paura, con le esaltazioni e la volontà di sublime di certa piccola gente fiorentina. Scriveva e leggeva pazzamente, diviso tra amori meravigliosi o sordidi. Si trascinava con l’affanno e l’angoscia di sapere chi fosse mai, che cosa avrebbe dovuto fare, senza una vocazione e con la rabbia di averne una, chiedendone in ansia agli amici, incapace di guardare in faccia i propri familiari. Con quelle giornate palermitane, fra coetanei che non capiva e gli parevano troppo più maturi di lui, si era pagato altri giorni, una vacanza solitaria, dove potersi abbandonare al turbine e all’urlio delle grida interne. Da allora gli pare di non aver conosciuta una primavera come quella, di non aver visto più un mare come tra Cefalù e Palermo.
Avrebbe voluto non dormire mai. Le forme delle donne, le contadine nere, lo trapassavano come coltellate, in quel dormiveglia continuo che erano le sue giornate. Ma era troppo sfinito per i desideri, solo a notte gridava di incoscienza e miseria nei letti dai materassi di crino e invocava una sconosciuta immaginaria che scalza entrasse nel buio, dalle terrazze delle locande. Viaggiava su treni lentissimi, di notte, lungo immensi paesaggi. Arrivava all’alba tra montagne starne e solenni. Riusciva a sfamarsi con qualche frutto, una scatoletta di carne, un po’ di pane asciutto. Piangeva e rideva improvvisamente. Giurava a se stesso, non sapeva bene che cosa, ma qualcosa sì, come una promessa spaventevole. Nei crepuscoli erano azzurre e viola la casipole bianche di calce che si allontanavano sui campi ancora tutti neri. Il sole nascente lo scottava in fronte abbandonato su una panca di terza classe. Quello sono stato io. Nessuno potrebbe più riconoscerlo.

3.
Si erano formati, rammento, gruppi spontanei di contestatori. Alcuni si raccoglievano intorno a quelli che a Napoli, l’anno prima, avevano dato qualche scandalo prendendosela con le formule delle tesi ufficiali. Ero tra quelli. Nelle aule dei convegni, nei corridoi e alle mense (ma anche da Caflish) uno strano movimento, strane conversazioni fatte di mezze parole o di tortuosi ragionamenti. Erano quelli che fra noi agivano – lo capii molto più tardi – secondo un disegno politico di cernita o di reclutamento (antifascista) oppure di accertamento o provocazione (fascista).
I più, come me, non si orientavano in quel gioco di tendenze mascherate e di gruppi. Ci guidava un istinto imperfetto a distinguere fra quelli e questi, era l’avversione  per l’intervento in Spagna, per i tedeschi, per la salubrità e il virilismo goliardico che ci circondavano, per l’enfasi nazionalistica. Avevo incontrato un mio compagno di corso, Sigieri Minocchi, fascista di “sinistra” (la formula non esisteva ma la realtà sì) generoso e amareggiato per quel che avvertiva ruotare tutt’intorno ai convegni. Quattr’anni dopo, volontario, gl’inglesi lo avrebbero ucciso in Cirenaica.
Ma noi, gli oppositori, eravamo quasi tutti degli inconsapevoli snob, aspiranti privilegiati. Il fascismo dei gerarchi ci appariva, soprattutto, stupido e rozzo. Per le nostre menti appassionate e inconsapevoli e, per questo, anche segnate da tradizioni retrive, esaltare la modernità d’allora, dell’arte e della letteratura delle avanguardie europee (che sì e no conoscevamo dalle riproduzioni o per sentito dire) voleva dire avversare i funzionari e i gerarchi. Essi non capivano quasi nulla. Noi, poco più di loro. Mi buttavo con imprudenza nelle dispute, pur sapendo di essere già segnato dalle spie. Dire “Gide” o “Picasso” era un modo di insultare quelle grinte militaresche.
Lessi anni fa che a Francesco Arcangeli o a me si attribuiva perfino di aver insolentito certi commissari di un convegno al grido di “Fascisti! Fascisti!”. Quanto a me lo nego, non ne avrei avuto il coraggio; o non me ne ricordo.
Fra i nostri gruppi in grigioverde si aggiravano tre o quattro giovanotti  con certe camicie color terra di Siena bruciata, calzoni corti e calzettoni, alla tirolese. Al braccio portavano una fascia color rosso acceso con un disco bianco che conteneva una sorta di croce nera. Erano quelli i primi nazisti che vedevo. Mi facevano ribrezzo e paura. A quei tempi studiavo un po’ di tedesco con una ragazza ebrea che aveva lasciato Monaco e, a Firenze, mangiava un giorno sì e un giorno no in attesa di raggiungere la Galilea.
Con sconsolata pazienza cercava di farmi capire qualche cosa. Cinque mesi più tardi, il Gran Consiglio del Fascismo avrebbe emanati i primi decreti in difesa della razza. A settembre avremmo avuto la crisi di Monaco, per entrare nel sorsi, la sospensione condizionale della guerra. Come avrei voluto vivere quel mio ventunesimo anno senza dover decifrare i segni del cielo. Ma nel cielo limpidissimo di Palermo quelli erano ogni notte sopra di me.
Quando i dibattiti furono conclusi, quelli che si erano sentiti vicini per le cose dette, e più per le taciute, prima di separarsi si ritrovarono, come per caso, al banco e ai tavolini di un piccolo bar. Interrompendo un silenzio sopravvenuto fra quei sette o dieci giovani, non so come mi venne di dire: “Adesso ciascuno di noi torna alla sua città e non ci vedremo più. Ma se le cose dovessero mutare e precipitare, basterà picchiare col piede per terra” (e qui credo di aver davvero battuto col tacco dello stivale di quella nostra uniforme) “e ci ritroveremo tutti”. Poi ci siamo salutati.
Andai al porto, in visita di una nave della Kriegsmarine che entusiasmava i fascisti. Era una delle due, credo, che allora si chiamavano “corazzate tascabili”, col tonnellaggio di un incrociatore e la potenza di fuoco di una corazzata, varate per rispettare formalmente il trattato di Versailles. Si chiamava Admiral Scheer. Sui gradini del sarcofago di Federico II di Hohenstaufen, nel Duomo di Palermo, avevo visto la corona d’alloro deposta dalla Scheer.
A bordo, tra meraviglie tecniche che non sapevo valutare, due segni inattesi. Nella stireria della nave da battaglia lavoravano alcuni cinesi. Non sapevo che nella marina da guerra tedesca (anzi: germanica come il regime preferiva che si dicesse) i servizi fossero sbrigati dalle razze inferiori. Poi, ben disposte lungo una murata, una serie di foto incorniciate con cura. C’era una città vista dal mare, qua e là impennacchiata da esplosioni. Una scritta spiegava che la città era Malaga e riportava la data del cannoneggiamento eseguito da quei gentili marinai. Credo di aver incominciato a capire cosa intendesse il Fuhrer quando parlava di “non intervento” nella guerra civile spagnola.    

28.7.11

"Nutiziariu". Una poesia di Flora Restivo.

Mischina
un ciuri di picciotta
quantu capiddi
chi cosci longhi
bedda pittata
ma
comu
fu?

Nenti
a unu ci mpincìu
chi ci dissi “nun ti vogghiu”
e l’affucau.

Mascaratu e fitenti!

Na musca, zurrichia.


*****
TELEGIORNALE.
Poverina 
un fiore di ragazza
quanti capelli 
che gambe lunghe 
ben truccata
ma 
com’è
successo?

Niente 
a un tizio gli è andato di traverso 
sentirsi dire “non ci sto” /
e l’ha strozzata.

Farabutto e schifoso! 

Una mosca ronza.

Bizantinerie (di Luigi Malerba - 1985)


Monastero di Hosios Loukas, Grecia, Affresco bizantino
Bisanzio nella sua letteratura, a cura di Albini e Maltese, è un’antologia, pubblicata da Garzanti nel 1985, che colmò un vuoto non solo editoriale. 
Nel darne notizia, Luigi Malerba, che di bizantinerie era assai curioso (gli ispirarono poi un bel romanzo, Il fuoco greco), invece della solita recensione compilò per Repubblica del 4 gennaio 1985 una sorta di miniantologia informativa sapida e ironica, dando conto di alcuni autori presenti e di uno non presente (Fozio). 
Ecco qui di seguito tre delle sue “voci”. (S.L.L.)
Luigi Malerba nel 1985
Giovanni Malala (495-578) è autore di una delle tante cronografie, letteratura di informazione e di consumo destinata ai conventi, affollatissimi a quei tempi, e ai funzionari della capitale, un esercito. L’imperatore Costantino viene definito dall’autore “divinissimo” e descritto come “alto, fulvo, magnanimo, tranquillo e caro a Dio”. Pare che sia stato il primo a mettersi in testa un diadema di perle e pietre preziose e non si accontentò di dare il proprio nome alla città di Bisanzio eletta a capitale dell’Impero e ribattezzata Costantinopoli ma, dopo aver ricostruito Massimianopoli distrutta da un terremoto la chiamò Costantina. Per accontentare la madre Elena , non meno vanitosa di lui, chiamò Elenopoli una città della Bitinia. La madre ebbe altre soddisfazioni postume alla sua vanità perché venne fatta santa, mentre Costantinopoli cambiò il suo nome in Istanbul.

Agazia Scolastico (532-582) descrisse nelle sue Storie il terremoto che colpì Bisanzio e dintorni nel 557 e raccontò come, di tutti i senatori, rimase ucciso il solo Anatolio, uomo malvagio e corrotto. In seguito a questo fatto pare che il popolo fosse indotto a vedere nel terremoto un dispensatore di giuste punizioni. “Ammettiamo pure”, scrisse Agazia, che Anatolio fosse veramente ingiusto: nondimeno dobbiamo riconoscere che in città c’erano moltissimi altri come lui, anzi ancora più iniqui. Senonché quello fu tolto di mezzo all’improvviso, gli altri sono rimasti senza danni.

Teofane Confessore (752-818), ricco possidente e intellettuale alla moda viene travolto da una repentina vocazione religiosa: si fa monaco e convince la moglie a farsi suora. Nella sua Cronografia racconta che i monaci iconoclasti venivano per punizione obbligati a sposarsi, a mangiare carne e a sopportare la presenza di musici durante i banchetti. A lui si deve il racconto, anche questo riportato nell’antologia, di uno dei fatti più crudeli di tutta la storia bizantina: l’accecamento del giovane Costantino per ordine della madre imperatrice Irene.

Uno scherzo (da "I seni più belli del mondo" di Roland Topor)

Vincent scagliò una scarpa contro la porta della cucina mandando il vetro in mille pezzi.
“Bisogna che mi sposi se no divento matto”.
Quando arrivò Singleton glielo disse.
“Conto su di te per presentarmi una fidanzata. Mi van bene tutte: giovani, belle e intelligenti. Una ragazza che abbia il senso dell’umorismo, capisci?”.
“Chiaro”, fece Singleton.
Poi parlarono di cocktail.
La domenica seguente Singleton telefonò a Vincent.
“Vieni al Jardin des Plantes, davanti al Museo di storia naturale, ti presenterò tua moglie”.
“Arrivo subito”.
Era deliziosa. Esattamente come Vincent l’immaginava: simpatica, carina, con una punta di tristezza nello sguardo. Niente affatto stupida. Singleton fu impeccabile.
“Maud, tuo marito. Vincent, tua moglie”.
Si strinsero la mano ridendo. Per farla breve , cominciarono a uscire insieme, a scambiare battute, poi idee, a tenersi la mano passeggiando, a baciarsi, a fare l’amore, poi finirono per sposarsi e guardare la televisione sgranocchiando noccioline.
Una sera, mentre stavano giocando a carte, Maud disse semplicemente: “Adesso basta”.
“Basta cosa?”, chiese Vincent giocando un asso.
“Tu, io, questa storia. Ti voglio bene, Vincent, ma non ti amo. E’ uno scherzo, capisci?”.
“Continua”.
“Sai com’è Singleton, un bambinone. Ci ha presentati come marito e moglie. Era divertente. Non ho voluto rovinargli la favola. Ma adesso basta. Non era che uno scherzo”.
“Ne dubitavo”, sospirò Vincent.
Aprì un cassetto, tirò fuori una pistola puntandosela alla tempia.
“No!”, gridò Maud.
L’esplosione suonò come una pernacchia.
“Non prendertela”, spiegò Vincent, “è una rivoltella-giocattolo. Anch’io adoro gli scherzi”.
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P.S.
Da “I seni più belli del mondo” (Feltrinelli, 1989) ho già postato un fulminante raccontino, cui rimando:

La portinaia è morta (da "Morte a Credito" di Louis-Ferdinande Céline)

E' l'incipit del secondo tra i grandi romanzi di Céline, Morte a credito del 1936, edito da Garzanti nella classica traduzione di Giorgio Caproni (1964).
Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. Se ne sono andati. Si son fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo.
Ieri la signora Bérenge, la portinaia, è morta. Si sta schiodando dalla notte un gran temporale. Quassù in cima dove siamo noi il casamento trema. Era una cara e gentile e fedele amica. Domani la sotterreranno in Rue des Saules. Era proprio vecchia, allo stremo della vecchiaia. Io gliel’avevo detto fin dal primo giorno che s’era messa a tossire: “Non si sdrai, soprattutto!... Se ne resti a ceccia nel suo letto!” Non ero affatto tranquillo. E infatti ecco qua… E infatti al diavolo…
Mica l’ho praticata sempre, ‘sta merda di medicina. Ora glielo voglio proprio scrivere ch’è morta, la signore Bérenge, a tutti quelli che m’han conosciuto, che han conosciuto lei. Ma dove saranno?

Céline, la musica infernale del secolo breve (di Massimo Raffaeli)

“Tuttolibri” del 25 giugno 2011 rievocava con due articoli di Massimo Raffaeli e di Giuseppe Culichia la morte quasi contemporanea, l’1 e il 2 luglio 1961, di Céline, il maledetto francese ancora lordo della duplice infamia di antisemitismo e collusione coi nazisti e di Hemingway, lo scrittore americano circonfuso di gloria e gonfio di rum. Riprendo qui, in ampio stralcio, il “pezzo” di Raffaeli, che si presenta anche come recensione di un libro di Robert Poulet, un amico di Céline, una sorta di “alter ego”. (S.L.L.)
Due scrittori che non potrebbero essere più opposti e complementari, Ernest Hemingway e Louis-Ferdinand Céline, muoiono a distanza di poche ore, il 1˚ e il 2 luglio del 1961: l’uno, circonfuso di gloria e gonfio di rhum, si suicida nel suo buen retiro di Ketchum, Idaho, mentre l’altro, ancora lordo della duplice infamia di antisemitismo e collusione coi nazisti, si spegne per un aneurisma nel villino-catapecchia di Meudon, a Ovest di Parigi, dove è ritornato nel ’52 in semiclandestinità, dopo anni di prigione e di esilio in Danimarca. I giornali sparano su nove colonne il suicidio di colui che traduceva l’esistenza in velocità dattilografica incarnando la via americana alla letteratura, come ne fosse il mito temerariamente hard boiled ; al recluso di Meudon, viceversa, riservano scarne notizie di agenzia e qualche imbarazzato necrologio in cui si riferisce la scomparsa di una belva collaborazionista.
A cinquant’anni esatti di distanza, il rapporto può dirsi invertito: il nome di Hemingway è chiuso in una cifra stilistica che retrospettivamente sembra simulare la velocità della radio e del cinema nello stesso momento in cui la subisce e vi soggiace, mentre la petite musique del narratore francese, la musica infera che risuona nel Viaggio al termine della notte o in Morte a credito , con lo spartito che registra il delirio emotivo dell’individuo solo nella massa (e nell’epoca delle guerre mondiali, del colonialismo e del fordismo), sembra oggi l’unica tonalità all’altezza degli orrori del Secolo Breve.
Il libro-intervista di Robert Poulet Il mio amico Céline (ora riproposto da Elliot) esce in Francia nel 1958, tre anni prima della morte dello scrittore, però annuncia un’inversione di tendenza. Poulet (Liegi 1893 - Marly-le-Roi 1989) è uno sparring ideale, anzi è un sosia céliniano in quanto pure lui risulta essere un ex collaborazionista, un ex condannato a morte e un ex amnistiato; scrittore poligrafo, di ascendenza reazionaria, rivivrà trasfigurato, tra Occupazione e Resistenza, nel romanzo-epopea di Hugo Claus che si intitola La sofferenza del Belgio.
Per parte sua, Céline lo accoglie volentieri nell’arca di Meudon (tra i cani molossi e l’ineffabile Coco, il pappagallo), gli dà corda, parla e come di consueto straparla, inscena il teatro della propria decadenza e tuttavia non smette mai di raccontarsi e di tornare sui frangenti di un’autobiografia ossessiva, mentre la sua voce è già scrittura in atto, prosodia in forma di jazz, quella stessa che abita la cosiddetta Trilogia del Nord , il ciclo di romanzi che equivale al suo testamento d’autore…
Senza affatto prevederlo, il libro di Poulet anticipa un processo di canonizzazione letteraria che in Francia si avvia poco dopo con l’uscita di un primo volume céliniano nella collana della Pléiade, l’equivalente di uno scranno fra gli immortali…
Qualcosa di simile gli accade in Italia se è vero che, quando nel novembre del ’93 esce per la prima volta da un piccolo editore marchigiano Il mio amico Céline , il terreno della sua ricezione è da tempo predisposto dove nessuno se lo aspetterebbe, vale a dire con il marchio della sinistra intellettuale. In maniera rigorosamente ufficiosa è Italo Calvino a propiziare l’ingresso di Céline nel catalogo di Einaudi con la traduzione vivacissima de Il Ponte di Londra – Guignol’s Band I (1971) a cura di due giovani promesse, il francesista Lino Gabellone e lo scrittore Gianni Celati, ed è ancora Italo Calvino a volere il doppiaggio di Nord (1975), l’epicentro della Trilogia, a firma del poeta Giuseppe Guglielmi…
Così come accade in Francia, dopo una messe di pubblicazioni e riconoscimenti, anche in Italia la comunità dei lettori sa distinguere oramai Céline da Céline, cioè l’ambiguo amico della Kommandantur parigina, il pornografo razzista di Bagatelle per un massacro dal grande narratore (martire, per etimologia) che guarda alle vicende del secolo dai bassi di un’umanità assoggettata, derelitta, priva di qualunque speranza.
In quest’ottica, anche Il mio amico Céline , un libro concepito da Poulet come una vera e propria apologia, riguadagna la funzione originaria che lo fa essere tanto un referto in presa diretta quanto un’autobiografia scritta per procura. All’uscita del volume un altro céliniano accanito, il poeta Giovanni Raboni, ne coglie il senso e la necessità alludendo a «un Céline al quadrato, parlato e al tempo stesso scritto, un Céline dal vivo che tuttavia è anche un Céline ricostruito, un personaggio da Museo Grévin». Insomma un autore finalmente approdato alla perfetta solitudine e insieme alla paradossale condizione di ogni classico, la cui attualità è garantita dal fatto che la pagina, già declinata al passato remoto, brucia nel tempo presente solo per ritrovarsi intatta al futuro anteriore.
Pure all’eremita di Meudon è dunque capitato, per esclusivo amore della verità, di «venire trascinato più avanti di dove si può andare, fin dove nessuno poteva aiutarlo»: anche se gli si attaglia maledettamente, non è una frase che si debba attribuire a lui, perché a pronunciarla fu invece Ernest Hemingway, un fratello che la morte gli impedì di riconoscere.

L’amianto libero di uccidere in mezzo Sudamerica

Risale al 1986 la delibera dell’Organizzazione mondiale della sanità che, per i comprovati effetti cancerogeni, vieta ogni esposizione alle fibre d’amianto e in particolare all’Eternit.
Il cemento-amianto brevettato dall'austriaco Ludwig Harschek nel 1901, con quel nome che prometteva lunga durata, era entrato nella vita quotidiana di tante nazioni e di tanti popoli fin dal 1915, ma conseguì il successo maggiore nel secondo dopoguerra quando se ne moltiplicarono le utilizzazioni: fioriere, coperture per tetti, tubature, grondaie.
In Italia una della più grandi fabbriche si trovava a Casale Monferrato, città che ha pagato un prezzo altissimo di vite umane per gli effetti perniciosi e mortiferi della respirazione di fibre d’amianto. Un processo lungo e complicato è stato intentato ai massimi dirigenti dell’azienda, per i quali sono stati chiesti di recente 20 anni di carcere perché consapevoli dei gravi rischi cui sottoponevano i lavoratori e l’intera comunità cittadina.
“La Stampa “ del 17 luglio ha dedicato al teme dell’Eternit e delle fibre di amianto una doppia pagina. Essa comprende una bella inchiesta da Cartagena, in Colombia, firmata da Lorenzo Cairoli sulla presenza del venefico materiale in mezza America latina e sulle reticenze in materia dei governi e dei mezzi d’informazione, e un accorato commento di Michele Brambilla.
Ripropongo l’una e l’altro. (S.L.L.)
Bandito dall'Europa,
l'Eternit infesta l'Amazzonia
e i bimbi ci giocano nelle favelas.
E' ovunque:
dalle cisterne d'acqua
ai tetti delle case.
di Lorenzo Cairoli 
Di fronte a Cartagena c'è un'isola chiamata Tierra Bomba, la Ellis Island colombiana. E' qui che i negrieri spagnoli mettevano in quarantena gli schiavi che arrivavano dall'Africa. Sull'isola ci sono quattro villaggi. Boca Chica, Punta Arena, Tierra Bomba e Cano dell'Oro, un pueblo dove brujeria e superstizione impregnano ogni momento della giornata. A Cano dell'Oro c'era un Lazzareto per malati di lebbra. Nel 1950 lo chiusero. Trasferirono i pazienti a Cartagena e decisero di bonificare la struttura. Quando chiesero all'allora presidente Mariano Ospina Perez che fare del Lazzareto, lui rispose lapidario: «Radetelo al suolo» e un istante dopo ordinò alla sua aviazione di bombardarlo. Da ex ingegnere pratico di beghe minerarie, l'idea che le bombe avrebbero spazzato via dall'isola ogni traccia del Mycobacterium leprae, gli parve geniale. I colombiani quando devono a risolvere un problema spinoso sono spesso così. Estremi, senza mezze misure. Ma anche capaci di un lassismo sconcertante, specie quando di mezzo c'è la loro salute.
In Colombia l'Eternit é ovunque. Infesta l'Amazzonia come le periferie di Bogotà. I barrios-favelas di Medellin e quelli alla moda di Cartagena. Le città straripano di rivendite di Eternit usato, di depositi di Eternit di seconda mano, di discariche di Eternit, di Eternit che cade a pezzi e che si sbriciola nell'aria inquinata diffondendo le micidiali fibre d'amianto, simili a sottilissimi spilli che se respirate si saldano agli alveoli polmonari provocando malattie incurabili. L'asbestosi, nella migliore delle ipotesi, altrimenti il mesotelioma pleurico, contro il quale non esiste cura. Di Eternit sono le tettoie ondulate di quasi tutte le baracche e le case, le moltissime cisterne per l'acqua potabile, i tetti degli asili, delle scuole, le pensiline delle strutture sportive. Quando l'Eternit si usura viene gettato nelle strade, scaricato nei canali, disperso in riva al mare, ammassato e dimenticato nei cortili delle scuole, persino nei parchi dei bambini, dove lo usano per costruirci altalene di fortuna e scivoli. I gamin, i dalit di Colombia, che passano le giornate a cercare cibo nei sacchi dell'immondizia e a inalare la colla industriale dei calzolai, riciclano le lastre ondulate come miseri giacigli.
Eppure i colombiani ignorano tutto questo. Non solo i più poveri e i più emarginati. Persino gli studenti delle migliori università del Paese. Non appena cerchi di spiegargli la micidialità dell'Eternit cadono dalle nuvole, ti guardano con un sorriso indulgente, le ciglia inarcate, le labbra torte, quasi gli stessi rifilando un pesce d'aprile. «Se fosse vero - risponde la maggior parte di loro - ne parlerebbe la tivù, lo leggeremmo sui giornali. Sono solo leggende metropolitane. Come i cellulari cancerogeni». Poi gli mostri articoli, ricerche, statistiche, spezzoni di documentari e il loro scetticismo iniziale si tramuta rapidamente in orrore puro. Freddy ha guidato un bus per quasi sette anni - dal centro di Cartagena fino al barrio di Campestre. E non c'era una corsa in cui non incrociasse scarti di Eternit disseminati per la città. Un giorno ha deciso di raccoglierli. Ha venduto il bus, ha comprato un deposito vicino al centro commerciale de la Castellana e ha iniziato a commerciare Eternit. «Gli ambientalisti, gli ecologisti, insomma tutta quella gente lì, sono più invasati degli evangelisti. Se l'Eternit fosse veramente pericoloso sarei il primo a sbarazzarmi di questa roba. Ma non è pericoloso, è la più grande invenzione del Ventesimo secolo, è la manna migliore che Dio potesse inviarci su questa terra».
La fabbrica di Eternit più vicina a Cartagena è a Barranquilla. Ma ce ne sono altre. A Cali, ad esempio e nella periferia di Bogotà. Il regista Andres Lozano sta girando un documentario sull'amianto in Colombia. In una delle sequenze piu' toccanti incontra un gruppo di operai della Eternit di Barranquilla e svela loro i rischi a cui vanno incontro. Spiega che la commercializzazione dell'Eternit in Italia e' cessata tra il 1992 e il 1994, dopo che nella città di Casale Monferrato e nell'intera provincia di Alessandria sono morte più di 1.600 persone per esposizione ad amianto e ancora continuano a morire, nonostante la chiusura della fabbrica e le bonifiche. Fa notare che in 52 paesi del mondo l'Eternit e l'amianto sono fuori legge e che dal 1986 l'organizzazione Mondiale della Sanità ha sancito che l'esposizione a qualunque tipo di fibra e a qualunque grado di concentrazione in aria va evitata in quanto causa di cancro. Ma la sua lobby non ha mai smesso di uccidere, conclude il regista. Messa al bando in Europa, la lobby dell'Eternit è sbarcata in Centro e in Sud America e con la complicità delle dittature vive una nuova età dell'oro. Il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, uno dei due imputati nel maxi-processo di Torino, prima di infestare d'amianto il Sudamerica si è creato fama di paladino dell'ambiente, di campione del capitalismo ecologicamente responsabile. Il paradosso è che mentre le sue fabbriche producevano Eternit e morte, massacrando i suoi operai e loro famiglie, lui giocava a fare il filantropo, a difendere le foreste dell'Amazzonia, a recitare un ruolo da protagonista nel summit della terra a Rio de Janeiro del 1992.
Solo tre paesi in Sud America hanno leggi che tutelano la popolazione contro i rischi dell'Eternit e dell'amianto - Cile, Argentina, Brasile. La Colombia, purtroppo, no. O meglio, delle leggi le avrebbe, leggi che però nessuno applica. A fine agosto 2010 la Corte Costituzionale colombiana fu chiamata a decidere la sorte degli spettacoli con animali. Impose delle restrizioni affinché in questi spettacoli gli animali fossero più tutelati. Un anno dopo, in barba ai legislatori, tutto è rimasto come prima. Stessa cosa con l'Eternit e l'amianto. Le leggi ci sono: ma sono bypassate, ignorate, irrise.
 L'inganno dei mercanti di morte
di Michele Brambilla 
E' probabile che i grandi affaristi che nei Paesi più poveri del mondo stanno spacciando l'Eternit come una meraviglia del progresso siano persone che vivono senza timor d'inferno né speranza di paradiso; e che non sappiano, quindi, che stanno riuscendo nella non facile impresa di violare ben tre dei quattro «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio»: omicidio volontario; oppressione dei poveri; frode nella mercede agli operai.
Fu papa Sarto - san Pio X - a volere che nel suo Catechismo Maggiore si sottolineasse con forza una delle tendenze più gravi del suo tempo: il considerare la povera gente come carne da macello da sacrificare sull'altare dello sviluppo industriale. Era il 1905, quando quel pontefice pubblicò il suo Catechismo. Solo due anni dopo, a Casale Monferrato, veniva inaugurato il grande stabilimento della Eternit. Era una fabbrica che pareva un portento della modernità: produceva un materiale che costava poco e che si diceva fosse, appunto, «eterno», tanto era resistente la miscela di cemento e amianto che lo costituiva; e garantiva posti di lavoro praticamente a tutte le famiglie del paese. Posti di lavoro, per giunta, che sembravano garantire condizioni di vita e di salute molto meno pesanti di quelli tradizionali del Monferrato: i campi, le risaie, le cave. Si sapeva già, in quel 1907, dell'inganno? Si sapeva che l'amianto uccideva? Forse sì e forse no. Sicuramente già c'era il dubbio: i primi studi sulla pericolosità dell'asbesto sono della fine dell'Ottocento. Ma quel che è sicuro, sicurissimo, è che dagli anni Cinquanta i dubbi erano diventati certezze. All'inizio degli anni Sessanta la comunità scientifica internazionale lanciò pubblicamente l'allarme: l'amianto provoca il mesotelioma pleurico, terribile cancro ancora oggi inguaribile; o altrimenti l'asbestosi, che non è un tumore ma riduce progressivamente la capacità respiratoria, fino a rendere la vita quasi impossibile. Ma che cos'erano i mezzi di informazione negli anni Sessanta? Con quanta velocità circolavano le notizie, e soprattutto con quale capacità di penetrazione? Così i grandi produttori di Eternit poterono contare ancora sull'ignoranza della povera gente. Si è dovuti arrivare al 1992 perché l'amianto venisse proibito dallo Stato italiano.
Messi al bando nel mondo più ricco, i mercanti di amianto (possiamo chiamarli “mercanti di morte”?) hanno ora trovato nuove terre popolate da gente che non sa. Il Sudamerica, ma anche l'India. E' in quelle terre, oggi, che la terribile polvere di amianto vola dalle fabbriche ai tetti ai campi e infine ai polmoni di uomini e donne che ignorano, e che proprio perché ignorano sono perfetti per assicurare profitti e sonni tranquilli a chi in sonno ha già messo, da un pezzo, la coscienza. 

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