29.5.17

La poesia del lunedì. Cesare Pavese (1908-1950)


La puttana contadina
 
La muraglia di fronte che accieca il cortile
ha sovente un riflesso di sole bambino
che ricorda la stalla. E la camera sfatta
e deserta al mattino quando il corpo si sveglia,
sa l'odore del primo profumo inesperto.
Fino il corpo, intrecciato al lenzuolo, è lo stesso
dei primi anni, che il cuore balzava scoprendo.

Ci si sveglia deserte al richiamo inoltrato
del mattino e riemerge nella greve penombra
l'abbandono di un altro risveglio: la stalla
dell'infanzia e la greve stanchezza del sole
caloroso sugli usci indolenti. Un profumo
impregnava leggero il sudore consueto
dei capelli, e le bestie annusavano. Il corpo
si godeva furtivo la carezza del sole
insinuante e pacata come fosse un contatto.

L'abbandono del letto attutisce le membra
stese giovani e tozze, come ancora bambine.
La bambina inesperta annusava il sentore
del tabacco e del fieno e tremava al contatto
fuggitivo dell'uomo: le piaceva giocare.
Qualche volta giocava distesa con l'uomo
dentro il fieno, ma l'uomo non fiutava i capelli:
le cercava nel fieno le membra contratte,
le fiaccava, schiacciandole come fosse suo padre.
Il profumo eran fiori pestati sui sassi.

Molte volte ritorna nel lento risveglio
quel disfatto sapore di fiori lontani
e di stalla e di sole. Non c'è uomo che sappia
la sottile carezza di quell'acre ricordo.
Non c'è uomo che veda oltre il corpo disteso
quell'infanzia trascorsa nell'ansia inesperta.

da Lavorare stanca (1936)

22.5.17

Libri. Bambine siate ribelli: farete le scienziate (Eliana Di Caro)

Il testo che segue è la recensione di un libro per bambini, anzi per bambine: Elena Favilli e Francesca Cavallo, Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 vite di donne straordinarie, traduzione di Loredana Baldinucci, Mondadori, Milano. Non nascondo tuttavia la mia curiosità, anche se sono vecchio e maschio: forse non lo comprerò, ma di sicuro lo cercherò per sfogliarlo. Conosco bene una bambina ribelle che oggi fa la scienziata, pur senza averlo letto. (S.L.L.)
Xian Zhang
Sapete cosa vuol dire crowdfunding (si pronuncia “craudfanding” più o meno)? Se lo chiedete al vostro maestro di inglese, vi spiegherà che è il modo di raccogliere tanti soldi attraverso internet per realizzare una buona - e costosa - idea. Elena Favilli e Francesca Cavallo, due italiane che vivono in California, hanno messo in pista questo meccanismo per fare un libro... e la cosa si è rivelata un gran successo. In poco tempo hanno accumulato oltre un milione di dollari perché il loro progetto era ingegnoso: «Ma come, dobbiamo raccontare alle bambine delle storie inventate, quando quelle vere superano di gran lunga la fantasia?», si sono dette.
E in effetti, se ci riflettete, è proprio così. Nella vita ci sono esempi di donne in gamba e riuscite, proprio come voi vorreste diventare. Hanno fatto le cose più incredibili, i mestieri più strani, anche quelli che si ritengono “tradizionalmente da uomo” e invece non lo sono, e ben cento biografie - di ogni Paese, di epoca vicinissima e più lontana, che risalgono sino a Cleopatra, per intenderci - sono lì a dimostrarlo. Per esempio, Rita Levi Montalcini è stata una grande scienziata, premiata con il Nobel, un riconoscimento molto prestigioso che viene deciso a Stoccolma e che, purtroppo, non viene dato a un italiano da un po’ di tempo. Lei, raccontano le autrici, non si arrese davanti alle difficoltà che la costrinsero a lasciare l’Italia perché era ebrea e continuò la sua ricerca con tenacia, ricordando la tata morta di cancro che l’aveva spinta a diventare medico.
E che dire di Xian Zhang, la direttrice d’orchestra cinese per cui il padre aveva costruito con le sue mani, pezzo per pezzo, un pianoforte? Una predestinata, verrebbe da dire. Divenne una maestra di piano e già si sentiva felice, in un Paese dove, un tempo, non era permesso nemmeno avere quello strumento. Ma una sera, raccontano le nostre, dopo le prove generali delle Nozze di Figaro, il direttore d’orchestra si rivolse a lei dicendole «Domani dirigerai tu». E così fu! Aveva solo vent’anni.
Ancora più giovane era Malala Yousafzai al tempo in cui conquistò fama e onore in tutto il mondo: forse ricordate anche voi nelle immagini dei Tg la coraggiosissima ragazzina pakistana che aveva sfidato l’imposizione dei talebani secondo cui le donne non devono studiare. «L’istruzione è potere e i talebani chiudono le scuole femminili perché non vogliono che le donne abbiano potere», aveva osservato Malala. Le spararono alla testa, ma si salvò e poi prese il premio Nobel per la pace.
Facendo un salto dal XXI al XVII secolo, si rimane conquistati dalla vita di Artemisia Gentileschi: che pittrice talentuosa, che carattere e impeto. Nata nel 1593, figlia del pittore Orazio, a 17 anni aveva già dipinto diversi capolavori in un’epoca in cui «la maggior parte delle donne non poteva neanche avvicinarsi alle botteghe degli artisti». Coraggiosa, emancipata, indipendente, si oppose alla corte insistente e violenta del pittore Agostino Tassi... La frase che campeggia sul suo disegno - «finché avrò vita, sarò io ad avere il controllo della mia esistenza» - è di quelle che rimangono più impresse.
Potrete chiedere ai vostri genitori di leggere ogni sera una storia diversa a seconda del vostro umore, della vostra propensione, della curiosità per una delle illustrazioni che affiancano ciascun ritratto. Se avete voglia di leggerezza, ci sono le campionesse sportive, come le sorelle americane del tennis Venus e Serena Williams, ma in questo libro si spazia dalla politica (Evita Perón, Margaret Thatcher, Hillary Clinton) alla letteratura (le sorelle Brontë, Jane Austen, Isabel Allende), dalla lirica (Maria Callas) alla moda (Coco Chanel), dall’architettura (Zaha Hadid) alla danza (Alicia Alonso).
Un ricco e colorato sfoglio che suona come un incoraggiamento: ecco dove si può arrivare avendo fiducia in sé e credendo nelle proprie capacità, alla faccia delle “belle addormentate” risvegliate dai soliti baci. Né correte il rischio di annoiarvi, perché anche sugli argomenti apparentemente più ostici e che potrebbero far rimpiangere la classica principessa scelta dall’agognato principe, il tono è sempre lieve e la misura indovinata. E quando, in qualche caso, si rimane con il desiderio di saperne di più, non è un male: le storie vere servono anche a questo, a sollecitare l’attenzione e l’interesse di voi piccole lettrici. E, perché no?, lettori. Qualora volessero unirsi anche i maschietti ad ascoltare con le sorelle le gesta di cotante donne, un grosso evviva!


Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2017

La poesia del lunedì. Domenico Brancale (Sant'Arcangelo, 1976)

Domenuco Brancale

guariremo dalla salute
ci ammaleremo per vivere ancora
sarà un giorno come un altro
un giorno di malattia vitale


Per diverse ragioni, Passigli, 2017.

Non sono solo. Una poesia di Paul Eluard

Carica
Alle labbra di frutti leggeri
Adorna
Di mille vari fiori
Gloriosa
Nelle braccia del sole
Felice
Di un uccello che ritorna
In estasi
Per una goccia di pioggia
Più bella
Del cielo del mattino
Fedele

Io parlo di un giardino
Io sogno


Ma giustamente amo
Traduzione S. Lo Leggio

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Je ne suis pas seul

Chargée
De fruits légers aux lèvres
Parée
De mille fleurs variées
Glorieuse
Dans les bras du soleil
Heureuse
D'un oiseau familier
Ravie
D'une goutte de pluie
Plus belle
Que le ciel du matin
Fidèle

Je parle d'un jardin
Je rêve


Mais j'aime justement

Da Medieuse (1936)

Da Robespierre a Charlton Heston. La cultura delle armi negli Stati Uniti (Benoît Bréville)

Il 14 dicembre 2012, in una scuola elementare di Newtown (Connecticut), un uomo armato di un fucile d’assalto massacra ventisette persone, tra cui venti bambini. È la settima strage dall’inizio dell’anno, negli Stati uniti. «Queste tragedie devono cessare» dichiara il presidente Barack Obama, prima di annunciare la creazione di una commissione sul controllo delle armi da fuoco. Poco dopo, le vendite di armamenti toccano un massimo storico nel Tennessee. In cinque stati, Walmart deve fare i conti con l’esaurimento delle sue scorte di armi semiautomatiche; e si aggiungono centomila nuovi soci alla National Rifle Association (Nra), la potente lobby delle armi da fuoco (quattro milioni trecentomila aderenti, tra cui uno dei più famosi resta Charlton Heston).
Il 16 gennaio 2013, Obama svela le misure elaborate dalla commissione (divieto per i fucili d’assalto, i caricatori di grande portata, ecc.). Alla Borsa di New York le azioni dei colossi degli armamenti s’impennano: +5,6% per Sturm, Ruger & Co, +6,5% per Smith & Wesson. Prima delle ultime elezioni presidenziali, il presidente-direttore generale di Sturm, Ruger & Co, Michael O.
Fifer, già confessava: «Se glielo domandate, penso che la metà della gente che appartiene all’industria delle armi da fuoco direbbe che non si augura la sua [di Obama] rielezione. Ma, a conti fatti, sicuramente andranno di nuovo a votare per lui.» Ritenuto favorevole al controllo delle armi da fuoco, il presidente democratico si dimostra l’«alleato oggettivo» degli adepti della polvere da sparo: negli Stati uniti, la paura del sequestro alimenta a dismisura le vendite, e la minaccia di un maggiore controllo sulle armi da fuoco favorisce... i fabbricanti di armi.
Questo paradosso dipende in parte dall’uso ingegnoso del secondo emendamento della Costituzione americana (1787). Ogni volta che, in conseguenza di un massacro, monta una grande ondata di emozione popolare, i difensori delle armi da fuoco lo ripetono in tutti i modi: i Padri fondatori hanno voluto che ciascun cittadino avesse il diritto di «detenere e portare un’arma»; nessun governo ha il diritto di limitare una libertà così fondamentale.
Ma perché i padri della nazione hanno introdotto una tale disposizione nella Costituzione? Si preoccupavano del diritto alla caccia delle future generazioni? Non credevano che lo stato potesse garantire la sicurezza dei cittadini?
Il secondo emendamento è spesso sbeffeggiato dai media stranieri, che lo considerano una bizzarria, un arcaismo della società americana. Vi si associa a volte tanto il redneck («zotico») avvinghiato al suo fucile e al suo pick-up, a volte il padre di famiglia vagamente paranoico che vuole difendere in prima persona i suoi cari. Il diritto alle armi simboleggia allora l’individualismo del popolo americano. «Lo sappiamo, le armi da fuoco, sono tipiche della cultura statunitense», esclama su Rtl il conduttore Marc-Olivier Fogiel. Il suo interlocutore, il giornalista Claude Askolovitch, ritiene addirittura che il fatto sia «consustanziale a quel Paese», perché «gli americani si considerano ancora degli agricoltori che si battono contro gli inglesi». Solo «gli intellettuali illuminati della Costa est» sarebbero immuni da questa mania.
Ahimè! Il diritto alle armi contenuto nel secondo emendamento fu pensato, nel XVIII secolo, da «intellettuali illuminati della Costa est». All’epoca la questione non era né culturale, né individualista, ma politica e progressista, e si iscriveva in una lunga tradizione, ampiamente dimenticata oggi. Per secoli, le armi furono in effetti percepite come simbolo di libertà: che fosse la spada consegnata dal padrone al servo affrancato, sotto Enrico I d’Inghilterra (1100-1135); o il fucile negato agli schiavi francesi, a cui era vietato - secondo l’articolo 15 del Codice nero (1685) - «portare alcun’arma d’offesa, né grossi bastoni, se non a costo di frustate e del sequestro». Se i Padri fondatori hanno permesso a tutti i cittadini di armarsi, non era per «battersi contro gli inglesi», ma per esercitare un diritto da loro stessi considerato fondamentale: resistere all’oppressione, alla tirannia, per farla breve a uno stato che tentasse di oltrepassare le prerogative limitate che gli conferisce la Costituzione.
Questo diritto alla rivolta, compresa quella violenta, fu teorizzato nell’Europa del XVII secolo dai precursori degli Illuministi: «Il popolo sopporterà, senza rivolte, né proteste, certi errori gravi dei suoi governi, numerose leggi ingiuste - scriveva per esempio il filosofo inglese John Locke nel suo Trattato sul governo civile —. (...) Invece, se una lunga serie di abusi, di prevaricazioni e di frodi rivela un’unità d’intenti, che non può sfuggire al popolo, quest’ultimo prende coscienza del peso che lo opprime e scorge ciò che lo aspetta; non bisogna stupirsi, a quel punto, se si ribella.»

L’idea ha attraversato i secoli e le frontiere. Durante la Rivoluzione francese, Maximilien de Robespierre chiese che «si costruiscano delle fucine negli spazi pubblici dove fabbricheremo delle armi per armare il popolo». Appena un secolo più tardi, quando il governo autoritario di Adolphe Thiers decide di sequestrare i duecento ventisette cannoni collocati a Belleville e a Montmartre, che appartengono al popolo parigino, quest’ultimo si rivolta e instaura la Comune di Parigi. «Armi! Tutti i cittadini hanno il diritto di averne come sola garanzia seria, efficace, dei loro diritti», proclama allora il rivoluzionario di Narbona. L’idea è ripresa in seguito dai repubblicani spagnoli nel 1936, che chiedono armi all’estero per lottare contro il franchismo; dai partigiani della seconda guerra mondiale, che cercano di armare il popolo parigino; poi dai rivoluzionari cubani.
Trascurata dai progressisti, che hanno realizzato una forma di simbiosi con lo Stato, questa doppia tradizione dell’arma emancipatrice e del diritto alla resistenza è stata ripresa, negli Stati uniti, dai conservatori. Solo loro invocano ormai lo spirito originario del secondo emendamento: quello che «non è stato scritto per proteggere il vostro diritto a sparare a un daino, ma per proteggere il vostro diritto a sparare contro un tiranno se egli si impossessasse del vostro governo», ribadiva per esempio su “Fox News” l’editorialista Andrew Napolitano. In questo tentativo di recupero, i difensori delle armi da fuoco non esitano ad arruolare Martin Luther King, apostolo della disobbedienza civile non violenta. Larry Ward, militante attivo del secondo emendamento e ispiratore della «giornata in onore delle armi» (Gun Appreciation Day), la cui prima edizione si è tenuta il 19 gennaio, affermava così su Cnn: «Io credo che questa giornata onori l’eredità del dott. King. Se egli fosse ancora vivo, sarebbe d’accordo con me nel dire che la schiavitù non sarebbe mai durata così a lungo nella nostra storia se gli afro-americani avessero avuto il diritto di portare un’arma sin dalla nascita di questo paese». Wayne LaPierre, l’inamovibile vice-presidente della NRA, evoca senza mezzi termini il ricordo del genocidio degli ebrei d’Europa: «In Germania, il controllo delle armi da fuoco ha consentito il successo della Shoah».
I partigiani di una regolamentazione del commercio delle armi da fuoco sarebbero dunque altrettanti schiavisti o nazisti inconsapevoli, E, poiché la Costituzione permette a ciascuno di possedere un’arma per combattere la tirannia, chiunque proponga di circoscrivere questo diritto è paragonabile a un potenziale tiranno. Insomma, il popolo deve armarsi per difendere il suo diritto alle armi.
I cittadini americani avrebbero tuttavia ben altre occasioni per proteggere l’eredità dei Padri fondatori. In seguito agli attentati dell’ 11 settembre 2001, il loro governo ha autorizzato lo spionaggio di cittadini innocenti senza mandato, l’incarcerazione dei presunti terroristi senza processo, le esecuzioni extra-giudiziarie; esso ha dichiarato guerra senza chiedere il permesso al Congresso. Così facendo, ha ridicolizzato il quarto, quinto, sesto e ottavo emendamento. Senza che neanche una delle trecento milioni di armi da fuoco in circolazione negli Stati uniti sia stata brandita per esigere il rispetto della Costituzione...


“Le monde diplomatique” febbraio 2013 Ed.Italiana (traduzione di V. C.)

21.5.17

Miti. Maria Callas inconsapevole e travolgente messaggera (Gabriele Bucchi)

Nessuno degli spettatori riuniti in quella sera d’estate del 2 agosto 1947 per assistere a una delle tante Gioconde del dopoguerra avrebbe certo immaginato che a quel donnone di origine greca sbarcato dall’America che rispondeva (allora) al nome di Maria Kallas, sarebbero state un giorno dedicate decine di biografie, discografie commentate, film, serie televisive, drammi, siti internet, poesie, cartoline, magneti per il frigorifero e persino un convegno universitario. Proprio questo incontro, svoltosi all’Università di Roma Tre nel 2007, è all’origine del bel volume pubblicato da Quolibet, curatissimo in ogni sua parte e corredato di una ricchissima bibliografia (Mille e una Callas. Voci e studi, a cura di Luca Aversano e Jacopo Pellegrini) che raccoglie, in cinque sezioni per oltre seicento pagine, una trentina di interventi dedicati alla personalità artistica che più d’ogni altra scosse il teatro d’opera del Novecento, suscitando entusiasmi, delirî, polemiche, ostilità, disprezzo, mai indifferenza. “A occuparsi della Callas c’è sempre da battagliare contro qualcuno o qualcosa” dice giustamente Jacopo Pellegrini nel suo contributo sulle interpretazioni del Rossini comico.
C’è poco da fare: nonostante in ognuno di noi possa insinuarsi una certa, legittima, sazietà nel sentire celebrare per l’ennesima volta il nome della cantante greca (magari dimenticandone tanti altri che servirono più a lungo di lei e con altrettanta dedizione l’arte del canto), questa voce, a quarant’anni dalla scomparsa (16 settembre 1977), impressiona e scuote l’animo di chi la ascolta, dal neofita al collezionista più smaliziato, come il richiamo, notturno e inquietante, di un altro mondo, cui pure noi sentiamo misteriosamente di appartenere. Dall’esordio italiano, dopo quasi un decennio di gavetta in Grecia, al ritiro dalle scene (1965) furono nemmeno vent’anni di carriera, di cui non più di una decina nel pieno dei mezzi vocali. «Divina !» gridò qualcuno dal loggione sulle ultime battute dell’aria finale dell’Anna Bolena (Milano, aprile 1957), quasi a spezzare anzitempo l’insopportabile incanto prodotto da quella voce che dipanava la semplice e triste melodia donizettiana in una tensione senza fine, tenendo tutto il teatro sospeso a una voce. La divinizzazione, l’assunzione allo statuto di mito della cantante giunse allora ad accertare definitivamente la portata storica di quella meteora, di cui nessuno fino a quel momento aveva visto fino ad allora l’eguale, e ad accompagnarne da lontano lo spegnersi (dopo il chiasso prodotto dalle vicende private di separazioni e amori impossibili) nella solitudine e nel silenzio di un lussuoso appartamento parigino.
Raccogliendo le testimonianze giornalistiche, anche le più recondite, di quanti ascoltarono la Callas agli inizi della sua carriera italiana (dal 1947 fino alla consacrazione del 1953), questo volume ben documenta come ascoltatori e critici si trovassero a tutta prima disorientati; soggiogati sì, ma non di rado anche infastiditi da una voce inclassificabile che passava, con la stessa facilità e la stessa immedesimazione, in uno slancio metamorfico e sacrificale apparentemente senza limiti, dal Parsifal al Turco in Italia, dalla Gioconda ai Puritani, dalla Sonnambula alla Tosca. Nel sostanziale classicismo vocale italiano, avvezzo a ricercare sempre e comunque la «bella» voce anche nei temperamenti più focosi, l’irrompere sulle scene della Callas fece un effetto simile alla riscoperta di Shakespeare nel Settecento: il caso singolo diventava occasione per un dibattito estetico più ampio, acceso e persino tumultuoso (vedi le polemiche sulla sua Medea, che coinvolsero personaggi del calibro di Praz e Paratore, qui illustrate da un bel saggio di Franco Serpa).

Callas filologa e grande attrice, luoghi comuni da sfatare
Il primo dei meriti di questa raccolta di saggi sta nella revisione di alcuni luoghi comuni impostisi nella storiografia, o meglio nella mitografia e agiografia callasiane degli ultimi trent’anni: primo tra tutti quello della presunta fedeltà assoluta della cantante greca allo spartito e alle intenzioni del compositore. Di qui la leggenda di una Callas «filologa» o l’altra, anche più inverosimile (ma quanto tenace!), di una Callas restauratrice dell’autentico spirito della musica di Donizetti, di Verdi e di altri ancora (magari con l’immancabile richiamo alla lezione di Toscanini, col quale il soprano sembra avere avuto in comune soprattutto una mancanza pressoché totale di senso dell’umorismo e di autoironia). Con questi ditirambi spavaldi e strambi è chiaro che oggi, dopo decenni di agguerrita filologia esercititasi sul melodramma primo-ottocentesco, si è avuto buon gioco nel ridimensionare e persino demolire, non senza facili sarcasmi, le tradizionalissime (almeno sul piano testuale) scelte callassiane nonché le idee, o meglio gli umori, della Divina in fatto di tagli, puntature e licenze.
Persino il mito della grande attrice non va esente, in più d’uno dei saggi qui raccolti, da un giusto revisionismo: la Callas fu infatti anzitutto una grande attrice nella voce prima che nel gesto o nel movimento scenico (di cui rare sono peraltro le testimonianze video e quasi tutte ormai, per così dire post res perditas), in ciò erede e maestra di quel «cantar recitando» che fu, secondo la formulazione di Nino Pirrotta, alle origini del rinnovamento musicale da cui sarebbe scaturito il teatro per musica. È solo nel canto, infatti, nell’accento, nella dizione scolpita, nel fraseggio dalle sfumature infinite che va cercata la Callas. Poche frasi di un recitativo cantato da lei bastano a tratteggiare una figura a tutto tondo. Riascoltiamola nella Gioconda («Profonda è la laguna… », IV atto) e noi vediamo la Giudecca inghiottita nella notte inchiostrata a colpi di grandiosi effettacci da Boito & Ponchielli; «Dammi tu forza o cielo…» (La traviata, atto II) e sentiamo dentro di noi tutta l’eroica voluttà masochistica di Violetta, sacrificata all’onore del clan Germont; «Invan…» (una parola!) e in quel sospiro c’è tutta la composta rassegnazione di Aida chiusa nella tomba con Radamès; « Gli dicevo che oggi è Pasqua… » e da quei suoni (non belli, ma che importa?) prorompe tutta la gelosa protervia della Santuzza verghiana. Norma, Butterfly, Lucia, Abigaille, Anna Bolena, Medea, Armida, Lady Macbeth, Imogene…: una galleria di personaggi (spesso interpretati una sola volta e per poche recite) l’uno diverso dall’altro per ognuno dei quali, con una stupefacente «abilità trasformistica» (Pellegrini), trovò linee e colori sempre diversi, se pur con quella medesima tinta di fondo fosca, affranta, da tregenda (persino nelle rare incursioni comiche) che fu solo sua.

I ricordi dei testimoni dell’arte callasiana
Uno degli aspetti più interessanti di questo volume risiede nelle testimonianze di critici, studiosi, intellettuali che furono anche giovani spettatori delle recite callasiane, molti dei quali oggi non sono più tra noi. Il tono accademico cede allora alla rievocazione divertita, entusiastica, commossa di interpretazioni che il disco non ci ha conservate: dal Don Carlo e Ratto dal Serraglio scaligeri (Marcello Conati) alle recite romane di Medea del 1955 che innescarono una polemica tra critici e filologi (qui ripercorsa da un filologo e callasiano come Franco Serpa) fino alle mirabolanti pagine del fedelissimo Alberto Arbasino da cui è tratto il titolo, immaginifico e eloquente, di tutto il volume. Accanto a queste, particolarmente preziose sono le memorie di altri testimoni dell’arte callasiana che nessuno fin qui aveva mai interpellato, come il compianto Bruno Bartoletti (collaboratore degli anni fiorentini che consacrarono il soprano greco), Filippo Crivelli (assistente di Zeffirelli nel Turco in Italia e di Visconti nella Sonnambula), il compositore Hans Werner Henze (suo precoce ammiratore, con l’amica Bachmann), gli amici Paolo Poli e Franca Valeri, il traduttore inglese William Weawer, interprete di rango dei nostri classici, che firma in questo volume un piccolo capolavoro di ammirazione, di umorismo e di pietas, da mettere tra le pagine più vere e toccanti mai scritte sulla Callas.
Accanto ai ricordi non mancano ovviamente gli studi, i ritratti più propriamente storico-interpretativi, spesso su zone meno indagate o discusse della carriera callasiana, tra cui ricordo almeno (ma andrebbero citati tutti) i saggi di Aldo Nicastro sul repertorio francese e di Cesare Orselli sul verismo, mentre Gina Guandalini (autrice di uno dei più bei libri nella nostra lingua, Callas l’ultima diva, edito nel 1987 e purtroppo mai ristampato) illustra entusiasmi e resistenze della critica italiana e straniera.
Originale e sorprendente, infine, la sezione di contributi dedicata al «mito», dove persino il fan più agguerrito scoprirà il proliferare di film, racconti, romanzi, documentari, quadri e ritratti a lui ignoti, prodotti negli angoli più diversi del mondo e ispirati alla vita e all’arte (spesso più alla prima che alla seconda) della cantante greca. Segno di una passione collettiva che, nonostante la sazietà di cui si diceva, non sembra destinata a spegnersi. Montale, se pur a denti stretti (lui che avrebbe immortalato in una poesia del 1978 un’altra, diversissima, «Divina» della sua gioventù, la schiva ed elegiaca Claudia Muzio), l’aveva a suo tempo riconosciuto: «fenomenale soprano leggero tragico di sapore espressionistico. Un miscuglio di cui non avevamo precedenti. Sacerdotessa e Pizia invasata, quando non canterà più lascerà dietro di sé una leggenda; e anche allora avrà i suoi fanatici e i suoi avversari… » (recensione alla Sonnambula scaligera del 1955).
Forse il segreto di questa passione collettiva sta nel fatto che ciò che quella voce ci porta va ben al di là del sopracuto abbagliante, della volatina, del trillo, del prodigio vocale o della correttezza testuale (tutti aspetti in cui la Callas è già stata e sarà superata da cantanti tecnicamente e culturalmente ben più agguerrite di lei). È, rubando le parole al citato Weaver, un «fremito di immedicabile tristezza » proveniente da zone più lontane e profonde dell’esistenza umana, di cui la Callas si fece allora sulla scena, e grazie al disco si fa ancora oggi, il vas electionis, l’inconsapevole e travolgente messaggera.

L'Indice, aprile 2017

Valentino. Una poesia di Giovanni Pascoli (1855 - 1912)

Giovanni Pascoli a Castelvecchio, in Lucchesia, con due contadine
Oh! Valentino vestito di nuovo,
come le brocche dei biancospini!
Solo, ai piedini provati dal rovo
porti la pelle de’ tuoi piedini;

porti le scarpe che mamma ti fece,
che non mutasti mai da quel dì,
che non costarono un picciolo: in vece
costa il vestito che ti cucì.

Costa; ché mamma già tutto ci spese
quel tintinnante salvadanaio:
ora esso è vuoto; e cantò più d’un mese
per riempirlo, tutto il pollaio.

Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano, Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!

Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:

come l’uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare,
ci sia qualch’altra felicità.


Da Canti di Castelvecchio (1903) in Giovanni Pascoli, Tutte le poesie, Newton Compton, 2012

20.5.17

Storia del Novecento. Il Papato e Vaticano tra difesa e attacco (Giorgio Fabre)

Pio XI
Ma papa Francesco decide tutto da solo? È davvero difficile, con quel poco che si sa di certo sul Vaticano, dare oggi una risposta a questa domanda. La recente presa di posizione della Chiesa sul funerale di Priebke, a cui Adriano Prosperi ha dedicato un notevole articolo sulla Repubblica, lascerebbe pensare di sì: che sia stata una decisione solo sua, del vescovo di Roma. Ma non è detto. La storia dei Papi e della Chiesa, a conoscerla meglio, può riservare molte sorprese. Si veda ad esempio il profondo cambiamento che ne ha modificato da non molto la storiografia relativa al Novecento. Alcuni forti segnali di novità erano arrivati nel passato: si ricordino in particolare i bei lavori di Giovanni Miccoli, di Daniele Menozzi e di Susan Zuccotti. Ma da quando sono stati aperti gli archivi vaticani, e si possono vedere i documenti fino al 1939, data di morte di Pio XI, è incominciata una nuova fase.
Davanti ai documenti veri, e non alle chiacchiere interessate, un grande numero di cose è cambiato. Sono passati dieci anni da quella apertura, il tempo giusto per far emergere studi seri. E ora disponiamo davvero di un quadro più circostanziato e di un nuovo gruppo di studiosi attrezzati e non prevenuti. È il caso di Lucia Ceci e del suo recente volume L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini (Laterza 2013), su cui mi soffermo in particolare qui. Ma si possono aggiungere anche altri nomi di studiosi. Il riferimento ovvio è a Hubert Wolf, che ha indicato la strada con i suoi studi sul Sant’Uffizio; ma si vedano, tra gli altri, Giovanni Coco, Gabriele Rigano, Laura Pettinaroli, Paolo Valvo. Superando le forti resistenze del passato, ora i documenti vengono studiati senza dover a tutti i costi(salvo qualche eccezione) difendere l’onorabilità della cattedra di Pietro.
Una cosa che il notevole libro di Lucia Ceci ci dice è che un organismo così complesso e articolato com’è la Chiesa recente, che è pur sempre una teocrazia, non si capisce solo guardando e studiando il Papa e la Curia. Pio XI fu un Papa verticista come non si vedeva da secoli, un Papa quasi medievale nella sua aspirazione a convertire interi continenti e popoli come gli slavi. A quest’ultimo scopo si affidava a personaggi incredibili, come il gesuita Michel d’Herbigny, che con alcuni viaggi scriteriati in Unione Sovietica, alla metà degli anni venti riuscì a rovinare i rapporti tra Urss e Santa Sede e a condurre alla rottura totale e alle persecuzioni dei cattolici in quel paese.
Dall'altra, però, papa Ratti a un certo punto chiamò come suo principale braccio destro Pacelli, mediatore all'ennesima potenza, capace di gestire un collegio di cardinali più che riottosi, classi dirigenti cattoliche in tutto il mondo che chiedevano autonomia, fedeli e sacerdoti delle più disparate tendenze, spesso in forte contrasto con Roma.
I vari totalitarismi mettevano a dura prova la resistenza della Chiesa, perché facevano nascere qua e là nuove forme di religioni laiche e di misticismi di vario tipo, in concorrenza con la religione della Chiesa di Roma. Per non parlare dei rapporti con gli stati. Come sottolinea bene Ceci, da secoli la Chiesa non stipulava tanti Concordati come quelli siglati al tempo di Pio XI (ben 16, in pochi anni). Eppure, anch'essi furono a loro volta fonte di ulteriori conflitti, in Italia, in Germania, in Francia. A tutto questo poi si aggiungevano altre situazioni di scontro frontale in paesi cattolicissimi come Spagna e Messico. E quindi altri uomini e altre risorse divennero necessari per gestire questa grande situazione centrifuga: diplomatici, ordini religiosi, uomini e politici di provata fede. E ci sarebbero da aggiungere gli uomini dei mezzi di comunicazione, che proprio Pio XI, papa medievale e moderno, utilizzò in abbondanza e in concorrenza con i regimi totalitari: cinema, radio, giornali.
A proposito di collaboratori di Pio Xi, segnalo alcune altre pagine molto interessanti del libro di Ceci: quelle sull'influenza della rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», sul Papa e sulla Chiesa tutta. Anche qui, diverse cose erano state già dette. E il campo parrebbe stranoto. Eppure, nel quadro unitario di questo libro, colpisce il rapporto, così stretto e diretto e multifunzionale, che viene indicato tra rivista (e gesuiti in genere) e azione papale e della Chiesa.
Si veda ad esempio l'analisi sull'elaborazione del concetto di «nazionalismo esagerato», poi usato da Pio XI per indicare sia i movimenti nazionalisti da condannare come l'Action Française degli anni venti, sia però, in seguito, i regimi razzisti veri e propri, come nazismo e fascismo. Il termine fu prodotto dalla rivista dei gesuiti prima dell'arrivo al soglio del Papa, ma questi lo assimilò addirittura nella sua prima enciclica, del dicembre 1922. Esso all'inizio stava a indicare il nazionalismo bellicistico, che aveva portato alla prima guerra mondiale. Applicando un termine così generico, in seguito, ai regimi razzisti, il Papa si lasciò molta mano libera (e poté dire che lui parlava appunto di «nazionalismo esagerato», non di «razzismo»). Ma in fin dei conti evitò di definire i termini possibili di una condanna della lotta tra le razze, di cui pure la Chiesa all’epoca aveva preparato gli ambiti dottrinali.
Ma «La Civiltà Cattolica» elaborò molto per tempo (1922) anche un altro concetto, quello del «complotto ebraico» tratto dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion. E pure questo fu messo a disposizione (e usato) sia del Papa sia da molti intellettuali della Chiesa. Anch’esso fece una lunga strada. Anzi, si può affermare che, per via cattolica, i Protocolli la fecero molto più lunga di quella che avrebbero potuto fare nel solo ambito laico-antisemita in cui erano nati. Anche su questo, Ceci fornisce alcune riflessioni interessanti.
In proposito aggiungo, anzi, che ora sembrano per fortuna messe da parte le affermazioni, fatte da varie parti nel passato, su una Chiesa, anche nei suoi vertici, estranea al razzismo. Tuttavia ancora oggi esse affiorano qua e là, anche a costo di deformare i documenti. Segnalo ad esempio un recente saggio di Raffaella Perin (sull’ultimo numero della «Rivista di Storia del Cristianesimo», 2013/1), la quale arriva a dire che una lettera piuttosto imbarazzante, a proposito di ebrei e razzismo, scritta da Pacelli su indicazione di Pio XI, non fu consegnata a Mussolini. Quando ormai invece è dimostrato che essa, rifatta l’8 agosto 1938 dal padre gesuita Tacchi Venturi (il trait d'union del papa con Palazzo Venezia), fu letta e consegnata da costui al duce: lo stesso Tacchi Venturi ha scritto che Mussolini la «ritenne presso di sé». Forse Tacchi Venturi nella sua rielaborazione calcò un po’ la mano sui dettagli di quella lettera, esaltando il fatto che i Papi in passato avevano segregato gli ebrei nei ghetti (per premunirsi «contro le loro malefatte»). Ma il senso non era diverso da quanto la Chiesa aveva scritto e ammesso negli anni passati. E Mussolini ebbe tra le mani quella lettera e anche quella gli servì come arma di ricatto per ottenere un accordo con la Chiesa sul razzismo.
Storia complessa ed ecumenica, quella dell’istituzione Chiesa. Piena di meandri, intessuta di rapporti, interni ed esterni, difficili da seguire. Talvolta difensiva in modo arcigno e ossessivo, come fu al tempo di Pio XI e di Pio XII. O conciliante, come quella di Giovanni XXIII e Paolo VI. Talvolta aggressiva, perfino nel chiedere scusa, come fu quella di Giovanni Paolo II: che dichiarò per ben 94 volte le colpe avute dalla Chiesa nella sua storia, quasi a dire che essa era così benedetta da Dio da potersi permettere di avere tanto sbagliato. Ma, di sicuro, si tratta di un’istituzione mondiale e millenaria. Ben venga papa Francesco, ma questo passato non lo potrà negare o distruggere. Lui che tra l’altro proviene dal più strutturato e istituzionale (e intelligente) dei segmenti della Chiesa, la Compagnia di Gesù.


Alias domenica – il manifesto 20 ottobre 2013

L'uccello nero. Una poesia di Toti Scialoja

L'uccello nero
salta leggero,
si chiama merlo
senza saperlo.

Versi del senso perso  Einaudi, 2009

Il borghese tra storia e letteratura. Un libro di Franco Moretti (Luigi Marfe)

“L’odio del Borghese è l’inizio della virtù”, scriveva Flaubert a George Sand nel 1867. E dopo di lui, per più di un secolo, la borghesia è stato l’idolo polemico di un lungo dibattito storico e politico. Da qualche tempo, tuttavia, non suscita più molto interesse: in una società in cui le tradizionali opposizioni di classe appaiono come svuotate, anche la cultura borghese sembra aver lasciato pochi ricordi di sé. Per questo Franco Moretti presenta questo suo ultimo libro – Il borghese, uscito in inglese nel 2013 e ora proposto da Einaudi nella traduzione di Giovanna Scocchera – come un’opera di “ingegneria inversa” che nella letteratura cerca tracce di ciò che non esiste più: il saggio, come sostiene l’autore, è una sorta di catabasi, un itinerario in “un regno di ombre, dove il passato riacquista la sua voce e continua a parlarci”.
“Ogni forma d’arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita”: come nel Romanzo di formazione (1986) e in Opere mondo (1994), punto di partenza di Moretti è ancora il giovane Lukács di Teoria del romanzo (1920). L’assunto è che la cultura borghese sia segnata da una profonda “dissonanza” tra gli imperativi di giustizia, temperanza e laboriosità e la “struttura di potere” celata dietro tali slanci. Il linguaggio letterario cercherebbe disperatamente di ritrovare un equilibrio – la sua “vocazione più profonda”, scrive Moretti, “sta nel forgiare compromessi tra sistemi ideologici diversi” –, ma inavvertitamente porta allo scoperto questa ambiguità. Il sottotitolo del volume, Tra storia e letteratura, vuole indicare in questo senso sia il metodo di lavoro sia l’obiettivo del saggio. Se le forme letterarie sono come i “fossili” di un passato che un tempo è stato vivo, il loro esame può far luce su dimensioni altrimenti inattingibili. Moretti fa giocare dialetticamente close e distant reading: le spie stilistiche sono nel suo saggio paradigmi indiziari, rivelatori di fenomeni generali. La scommessa del libro è quella di provare che lo studio della lingua letteraria possa avere il significato di una ricerca sociale, e che proprio in questo stia “il suo possibile contributo alla conoscenza storica”. Del resto, già nelle Conjectures on World Literature (2000) si osservava come nelle forme letterarie si condensassero tracce di strutture sociali; nell’analisi linguistica, sarebbe possibile verificare le variazioni più impercettibili che segnano continuità e discontinuità nell’immaginario di un’epoca. Il linguaggio, secondo la lezione di Reinhart Koselleck e di Raymond Williams, non è soltanto un modo di rappresentare la realtà, ma un vero e proprio fattore di cambiamento, “strumento”, nelle parole di Émile Benveniste citate da Moretti, “per dare un assetto al mondo e alla società”.

Le zone d’ombra della cultura borghese
Da questa dialettica di lontano e vicino deriva la struttura del libro, suddiviso in cinque capitoli che seguono un percorso storico, e sono inframezzati dallo studio di alcune parole chiave della cultura borghese: “utile”, “efficienza”, “comfort”, “serio”, “influenza”, “roba”. Dopo un’introduzione sul metodo di indagine impiegato, il libro prende le mosse dal Robinson Crusoe (1719) di Defoe, in cui Moretti vede la prima rappresentazione del passaggio weberiano dall’“avventuriero capitalistico” al “padrone lavoratore”. Nel secondo capitolo, rielaborazione di un saggio sul “secolo serio” già pubblicato nel primo volume di Il romanzo (2001), sono prese in esame le strategie retoriche con cui di alcuni romanzi inglesi e francesi producono il proprio “effetto di realtà”, intercalando il racconto con dei “riempitivi”, vale a dire episodi narrativi di poco conto, che non avrebbero altro scopo che produrre il “ritmo di continuità” essenziale alla rappresentazione della quotidianità borghese. A questo punto, il saggio si addentra nelle zone d’ombra della cultura borghese, che rifiuta sistematicamente di autoriconoscersi come tale; l’indagine di un vasto corpus di romanzi ottocenteschi mostra come le attestazioni del termine “borghese” siano per quasi tutto l’Ottocento sporadiche, ben più rare di definizioni come “ricco”, “agiato”, “benestante”, quasi per distogliere sottilmente il lettore da ogni possibile giudizio. Il discorso si sposta quindi verso testi e zone geografiche ai margini della seconda rivoluzione industriale – il Brasile di Memorie dall’aldilà (1881) di Machado de Assis, la Sicilia di Mastro-don Gesualdo (1889) di Verga, la Polonia di La bambola (1890) di Prus, la Spagna della tetralogia di Torquemada (1889-96) di Pérez Galdós –, laddove l’arrivo del progresso in contesti ancora preborghesi esaspera le contraddizioni. Infine, l’ultimo capitolo è dedicato al teatro di Ibsen, grazie al quale la cultura borghese farebbe finalmente i conti con il suo essere anche “struttura di potere”: “Ibsen è l’unico scrittore che guarda il borghese in faccia e gli chiede: Allora, dopotutto, che cosa hai portato al mondo?”
Il vero protagonista del saggio è la prosa, in quanto “ritmo della continuità”: “La prosa come lo stile borghese per eccellenza, nel suo senso più ampio; un modo per stare al mondo, non solo un modo per rappresentarlo”.
“Le minutiae della lingua rivelano segreti che le grandi idee spesso mascherano: l’attrito tra nuove aspirazioni e vecchie abitudini, le false partenze, le esitazioni, i compromessi”, scrive Moretti. Il suo saggio esamina le tracce letterarie della cultura borghese e delle sue ambiguità, alternando osservazioni linguistiche sottili – per fare appena qualche esempio: l’uso dei tempi verbali in Defoe; le storia delle trasformazioni semantiche di parole come “industria”; la connotazione morale che assumono coppie di parole formate da un sostantivo concreto e un aggettivo astratto –, con analisi statistiche e riflessioni sul dibattito storiografico e sociologico sulla figura del borghese. Il vero protagonista del saggio, tuttavia, è la prosa, in quanto “ritmo della continuità”: “La prosa come lo stile borghese per eccellenza, nel suo senso più ampio; un modo per stare al mondo, non solo un modo per rappresentarlo”. In Illusioni perdute (1839) di Balzac, c’è un passo in cui il giornale per cui sta per scrivere il protagonista si trova a corto di argomenti e occorre buttare giù un articolo in fretta e furia.
Queste “parole scritte per colmare uno spazio vuoto” sono immagine metaletteraria dell’espediente retorico del “riempitivo”: come l’articolo, molti episodi dei romanzi ottocenteschi non avrebbero una funzione strutturale all’interno delle rispettive trame, essendo piuttosto un discorso sul tempo. Come aveva già osservato Auerbach a proposito di Madame Bovary (1857), ci sono scene in cui “non accade nulla di straordinario. È un momento qualsiasi di un’ora che ritorna regolarmente. Non accade nulla, ma il nulla è diventato qualche cosa di pesante, di oscuro, di minaccioso”.
Fog, (nebbia), è la metafora che dà il titolo al capitolo sulle zone d’ombra della cultura borghese. Tra i romanzi che meglio descrivono la dissonanza borghese, c’è senz’altro Cuore di tenebra (1899) di Conrad. Quando all’inizio, sul Tamigi, rievoca il suo viaggio africano, Marlow osserva che la verità di un racconto è come l’alone soffuso di nebbia rivelato dalla luna. In risposta alla domanda di Ibsen alla borghesia – “che cosa hai portato al mondo?” – il romanzo offre una storia incontrovertibile: tra le imprese più redditizie del capitalismo fin-de-siècle c’era quanto di più abietto si potesse pensare. Eppure, una volta tornato a casa, Marlow, nel salotto borghese della fidanzata di Kurtz – le finestre alte, il camino, il pianoforte a coda –, non sa più ripetere ciò che ha visto: “La verità profonda rimane nascosta – per fortuna, per fortuna”.

L'Indice, Maggio 2007

Il mostro mite. Intervista a Tullio De Mauro (Fausto Marcone)

Dal sito de “l'Indice” riprendo l'estratto da un'intervista a Tullio De Mauro di qualche anno fa sull'analfabetismo, soprattutto di ritorno, sui livelli scarsi delle attività di lettura, sugli effetti sociali, civili, economici di tutto ciò. (S.L.L.)

Lei è lo studioso che più insistentemente in quest’ultimi anni ha continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, condizione di gruppi crescenti di italiani e non, e tuttavia anno dopo anno nulla è cambiato e i dati mostrano situazioni peggiorate. Ma, provocatoriamente, perché l’analfabetismo è la così grande iattura che si descrive? Se ci sono così tanti analfabeti e la vita nazionale scorre più o meno come sempre, perché dobbiamo preoccuparcene?
Tanto più in tempi di internet, lettura e scrittura di testi e almeno elementari capacità di calcolo e di lettura di una tabella o di un grafico sono un filtro indispensabile di utilizzazione di servizi e risorse informative, di esercizio di attività produttive di qualche contenuto tecnologico, di acquisizione e controllo critico di informazioni di ogni tipo. Gli analfabeti o semianalfabeti si ingegnano con mirabili astuzie per celare il loro handicap, ma pesano in modo terribilmente negativo sulla vita produttiva e sul reddito del paese. Pesano sulla lettura e sulle capacità di maturare insieme orientamenti meditati nella vita sociale e politica. Cerco di occuparmi non solo del mio mestiere di linguista, ma anche di scuola. E so da tutte le indagini internazionali in materia che la condizione culturale di famiglie e ambiente si riverbera negativamente sugli apprendimenti scolastici di ragazze e ragazzi: la scuola è costretta a lavorare in salita, fa molto, ma non può fronteggiare l’imponente descolarizzazione degli adulti, insomma l’analfabetismo di ritorno.

Quale motivazione dovrebbe spingere le classi dirigenti, in primo luogo la dirigenza politica del paese nel suo complesso, ad allargare le basi della comprensione e dell’intelligenza sociale, a favorire l’aumento e la redistribuzione del capitale culturale? Non sono esse in fondo espressioni di élites ed élites esse stesse? E dunque perché dovrebbero attivare processi che vanno a minare la loro esistenza? Non sarebbe, da parte loro, più desiderabile una popolazione debole dal punto di vista delle capacità critiche e dunque una popolazione più manipolabile?
La motivazione esplicita c’è ed è nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Le disparità di livello sono un grande ostacolo alla partecipazione effettiva alla vita sociale e politica del paese. Sì, forse, come le sue domande implicano, è proprio questo che si vuole evitare. Certo più volte negli anni ho constatato che vi è una certa freddezza nei gruppi dirigenti, e non solo a destra, nel tenere conto di ciò che stiamo dicendo.

Nelle nostre società occidentali non c’è piena abbondanza di tutto. Vi sono infatti beni che sono scarsi o diventano scarsi, pensiamo oggi all’aria pulita, agli spazi urbani, alla qualità del cibo e altro ancora. Bene, la capacità di interpretazione del testo scritto e il fare su di esso inferenze medio-alte non potrebbe essere un bene scarso e accettabile in quanto tale?
È un po’ quello che pensa un mio antico allievo e amico, oggi valoroso collega, Raffaele Simone: ci fronteggia e ci sovrasta un “mostro mite” che un po’ alla volta, per carità senza (troppa) violenza, ci imbonisce e poi succhia l’ossigeno di cui il nostro cervello ha bisogno. Aldous Huxley e George Orwell dipinsero quadri, ancora impressionanti per la loro precisione profetica, delle tecniche del mostro mite e dei risultati della loro applicazione. Ma anche Piero Calamandrei ha scritto pagine memorabili (ora riedite da Sellerio) sulla “mite” progressiva svalutazione e atrofizzazione di scuola, magistratura, realtà autonome che potrebbero produrre anticorpi contro il mostro.

Un grande pianista diceva che se non suonava per un giorno se ne accorgeva solo lui, ma se non suonava per due giorni se ne accorgeva anche chi lo ascoltava. Perché insomma in questa Italia si corre il rischio di andare 11/13 anni a scuola, o anche più, e poco dopo perdere ciò che si è acquisito? Che cosa manca o che cosa vi è di perverso?
C’è un fatto fisiologico: in età adulta si calcola che regrediamo dappertutto di cinque anni rispetto ai livelli massimi di competenza conquistati a scuola, se le attività conformi a quei livelli non vengono esercitate. Domando a mia volta: in una terra senza vere librerie (sarebbero, queste, solo 300) e con più dei tre quarti dei Comuni senza una biblioteca di pubblica lettura, dove e come, uscita da scuola, la popolazione adulta può continuare a esercitare le capacità di lettura e intelligenza acquisite a scuola?

Perché l’istruzione degli adulti è la chiave di volta di un pensiero che progetta e cerca la riduzione degli indici dei vari analfabetismi? Perché non sarebbe del tutto valido un sapere esperienziale, senza la capacità di interpretare lo scritto? Si possono non possedere quelle capacità di lettura e interpretazione o di calcolo, ma si può avere un saper fare ricco di vita, ricco delle sue inferenze e dei suoi calcoli.
Quel che lei dipinge fu vero nelle società a base produttiva contadina, cioè in Italia fino ai primi anni cinquanta. Ho conosciuto quel mondo e so quanta intelligenza ospitasse. Ma oggi? Chi non sa leggere e capire palesemente non sa guidare un’automobile o, se purtroppo lo fa, combina disastri, non sceglie bene alimenti al supermercato, finisce preda delle cento e cento vannemarche sparse nel paese e esibite dalle televisioni. Ed è curioso (o no?) constatare che le abilità di un sapere di vita prezioso e prealfabetico, che abbiamo stolidamente dilapidato tra anni cinquanta e sessanta, oggi appaiono coltivate soprattutto, anzi quasi esclusivamente (a parte solo il cucito) dalla fascia più colta degli adulti e delle adulte.

Non era raro negli anni cinquanta trovare analfabeti che ascoltavano la musica colta, la lirica, piuttosto che la canzonetta leggera. Oggi lo spostamento in basso del quadro valoriale comune costituisce una minaccia per la capacità individuale di critica e di scelta?
Sì.

In un suo studio, realizzato con Adolfo Morrone, Livelli di partecipazione alla vita della cultura in Italia (Fondazione Mondo Digitale, 2008) ci ha colpito il dato, che potrebbe essere singolare ma certamente non lo è, che gli strati più attivi e più competenti culturalmente sono anche quelli che più si dedicano ad attività pratiche minute.
Vede, appartengo a quelli che credono che il cervello sia uno, una l’intelligenza nelle sue forme diverse. Probabilmente soltanto chi fa funzionare l’uno e l’altra ha gusto per quelle attività materiali che Benedetto Croce chiamò una volta “banausiche”, proprie di quella che Kant chiamava cultura della sopravvivenza. Ma altolà con l’anticrocianesimo facile. È di Croce una grande pagina in cui si spiega che opere non sono solo quelle dell’ingegno, rinomate nei secoli, ma anche le “opere di vita”, il saper attendere al quotidiano, il coltivare gli affetti. E temo (non so usare altro verbo), temo che anche di queste opere oggi siamo poveri nel nostro paese e che pochi, ormai, sappiano “l’odore dei limoni”. Riusciremo a tornare ricchi?


“L'Indice” Dicembre 2009 – anno XXVI – n. 12

18.5.17

E Cristo disse Una poesia di Ettore Fabietti

Conoscevo per sommi capi la vicenda del toscano Ettore Fabietti, figura importante del riformismo socialista del primo Novecento vicino al Turati, promotore di numerose iniziative per la diffusione e la divulgazione della cultura tra i ceti popolari. Fu tra l'altro il principale animatore di un vero e proprio movimento per le biblioteche popolari. I "guardiani" di cui la poesia discorre sono, con molte probabilità, oltre ai governanti, anche i preti, in armonia con l'anticlericalismo di stampo positivistico tipico del riformismo socialista nel primo Novecento. (S.L.L.)

E Cristo disse: Germini la Pace
l'umile germe ch'io semino in terra:
nel mio sacco non ho miglior semente.
Gittò la mèsse, e poi volle, il verace
seminatore, perché pria nascesse,
irrorar del suo sangue anco le zolle.
Ma i guardiani del campo, a cui commesse
eran le sorti de la pia fatica,
sconvolsero la terra,
e spersi al vento i germi della Pace,
che è ben di tutti, seminaron guerra;
onde i fraterni lutti
fruttar dovizie al lor desìo rapace.

Or dei guardiani, o buon Gesù, che al vento
spersero i germi de la tua semenza,
noi siamo stanchi, e omai provar vorremmo,
Gesù mite, a far senza;
che per i lor nefasti
Tu seminasti, e noi non raccogliemmo.


Da Canti di Trifoglieto, Treves, 1913 Ora nella piccola antologia on line Il Cristo nella poesia italiana decadente e simbolista nel sito “I libri della stanza ascosa” (http://leonbizz66.blogspot.it/) curato da Leonardo Bizzarri

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