31.3.11

Il mio Catullo. Arianna abbandonata (carme LXIV, 51-69)

Qualche caro e buon amico mi chiede nuove della traduzione catulliana che, con lunghissime parentesi, mi impegna ormai da trent’anni (e da una cui costola è nato il Catullo in Sicilia che mio fratello Cesare ha musicato e che, con nuovi arrangiamenti, porta in giro con successo insieme al suo gruppo). E non manca, tra i pochissimi che l’hanno letta e apprezzata, chi vorrebbe consolarmi lanciando improperi agli “editori che non capiscono un cazzo”.
Sarà anche vero, ma questa volta gli editori non c’entrano: la mia traduzione e il commento che la correda non sono stati finora proposti a nessuno di loro, perché essa si è arenata sui carmina docta. Specialmente sul poemetto dedicato alle nozze di Peleo  e Teti e all’amore infelice tra Teseo ed Arianna, il carme 64.
Più delle altre poesie dotte quel testo è così infarcito di riferimenti mitologici e geografici, che già al tempo in cui nacque, e in cui i lettori ne comprendevano buona parte senza dover consultare le note, doveva produrre qualche indigestione. In me il tradurre, che spesso mi diverte, in questo caso ha prodotto stanchezza, sazietà e nausea. Così è dal luglio del 2009 che la traduzione è bloccata. L’ho recuperata solo ieri dalla memoria del Pc, con l’intenzione di farla finita, questa volta. Progetto una rapida revisione dei carmi già tradotti, commentati e “lasciati a riposare” (110 sui 113 sicuramente autentici del liber) e di una rapida conclusione dei tre da portare a termine (tra cui, appunto, il 64).
Ho messo nel conto in partenza che la resa dell’epillio mi lascerà insoddisfatto, ma a suo tempo mi era venuta un’idea che può favorire la lettura saltellante: dividerla in brani, ciascuno con un suo sommario, come si faceva coi poemi nelle antologie scolastiche. Ho peraltro pensato di mettere in rete qualche frammento della traduzione. Nei passaggi meno dotti, lirici o narrativi che siano, quest’opera di Catullo non è cattiva, anche se le manca la brevità e levità di quelle che il poeta chiamava con modestia e malizia nugae, “sciocchezzuole”. Saranno quelli i brani che “posterò”, senza note, chiedendo agli scarsi lettori il conforto della critica anche aspra e del suggerimento. Forse più avanti metterò in giro qualche epigramma.
Qui propongo l’incipit della digressione (l’ecfrasis ellenistica che colloca un mito dentro a un mito): tra i regali di nozze di Peleo e Teti – narra Catullo – c’è un tappeto che rappresenta Arianna abbandonata da Teseo sul lido di Nasso (o Dìa), un’isoletta dell’Egeo. E’ con la descrizione di questa immagine che Catullo dà avvio al nuovo racconto. 
Ho corredato il tutto con una rivisitazione "statica" del mito, da parte di un pittore contemporaneo, Cecco Mariniello, il cui sito ho piacevolmente visitato.
http://www.ceccomariniello.com/pagine/italiano/home/home.html
(S.L.L.)

Cecco Mariniello, Arianna a Nasso
L’immagine di Arianna
Guardiamo la figura: ecco Arianna
che dal lido di Dìa vede fuggire 
con la celere nave il suo Teseo,
tra il fragore dell’onda.

Mentre la furia nel cuore divampa,
lei non vorrebbe credere ai suoi occhi,
come chi, ridestandosi
da un sogno lusinghiero,
all’improvviso si ritrova solo
e abbandonato su deserta rena.

Ma il giovanotto immemore e fuggiasco
nel mare si fa strada con i remi,
così disperde i falsi giuramenti
nel mulinar dei venti.

Lo sguardo della figlia di Minosse,
della mesta Arianna,
ormai di pietra come un simulacro
di baccante, lo segue da lontano,
vagando ahimè tra i flutti dell’affanno.

E la sottile mitra
che acconcia il biondo capo
non sa tenere ferma la sua chioma;
ed il saldo legaccio che sostiene
le mammelle non giova, ora ch’è sciolto,
a comporre il suo petto,
velato appena da leggera banda.

Giocano i flutti marini salati
con le vesti che cadono dal corpo
sparse davanti ai piedi.

Ma non si cura Arianna
di mitre né di bande che svolazzano,
a Teseo si rivolge ogni pensiero
perdutamente dall’anima tutta.

Ripetere, ripetere, ripetere (di Gian Luigi Beccaria)

Nella rubrica Parole in corso, sul Tuttolibri de “La Stampa” del 5 marzo 2011, Gian Luigi Beccaria riflette sugli effetti del berlusconismo, inteso come tecnica oratoria e di comunicazione, nella vita collettiva del nostro paese. Da leggere. (S.L.L.)
Lo slogan sostituisce il pensiero, la rissa soffoca il dialogo: l’esempio vien dall’alto

Il nostro premier sabato 25 febbraio ha detto che la scuola pubblica diseduca. Non per follia, ma perché desiderava incassare una particolare benedizione di quella parte di Chiesa che non lo osteggia. Ma soprattutto, da buon pubblicitario, sa bene che le parole, a forza di dirle e ridirle, prima o poi entrano nella zucca della gente. Forse che non è entrato nel senso comune il concetto che i magistrati che incriminano lui e i suoi amici sono «magistrati politicizzati», «toghe rosse»?
Nell'aureo libretto Sulla lingua del tempo presente (Einaudi), Gustavo Zagrebelsky ci ha opportunamente ricordato il motto di Goebbels: «Ripetere una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità». La ripetizione ossessiva da parte del nostro premier di parole come slogan non è ripetizione senile, ma una chiarissima tecnica pubblicitaria: la ripetizione del prodotto.
Ci stiamo ormai abituando a considerare la vita pubblica come un grande spazio per pubblicitari e venditori di slogan. Il premier è gran maestro in questo campo: continua a ripetere che i magistrati sono «fanatici», i giornalisti «comunisti», o comunque dominati dai «poteri forti» e dalle opposizioni, e via seguitando con amenità del genere. La frequenza nell'usare «comunista» per dir male dell'avversario è stupidaggine e nello stesso tempo astuzia: pur sapendo che quel termine non ha più un fondamento reale, poiché il comunismo si è estinto da oltre una generazione, e che è parola vaga e generica, parola etichetta che non vuole più dire nulla, formula rituale priva di contenuto, suona in ogni caso come parola negativa che risveglia echi profondi, che riassume stati d'animo sedimentati nella storia italiana, attinge a strati della memoria collettiva di un passato che ha prodotto in certi paesi «miseria, terrore, morte» (parole d'autore!).
Ripetere dunque, ridire,e poi insultare. Tutto ciò genera infinita malinconia e sconforto, in un paese civile come il nostro che si sta apprestando a festeggiare alcuni punti luminosi del suo passato, i 150 anni della raggiunta Unità. Disturba infinitamente che la scena pubblica si sia così tanto trivializzata. E che sia diventata soltanto rissosa. Non appartiene più all'uso presente il linguaggio del dialogo, quello che chiarifica, o persuade sulla bontà di un programma, verte su dei contenuti concreti. Tutta l'oratoria dei politici si concentra nel distruggere il programma degli altri invece di costruire e di limare il proprio, tutta l'intelligenza si spreca nel «pensare contro». Non si è più capaci di «pensare insieme».
Nei dibattiti si sa soltanto ululare, interrompe l'avversario, dar sulla voce, contrapporre al ragionamento il non-ragionamento delle urla e delle parole svuotate di senso reale: ridotte al minimo, sempre le stesse, battute e ribattute, diminuiranno sempre di più le possibilità, gli spazi del pensiero e della discussione costruttiva.

"Banner". Una poesia di Edoardo Sanguineti.

Banner
in principio era la lotta di classe:
poi, l’anarchia e l’utopia
hanno generato il comunismo:
è soltanto da questo fantasma
che può nascere pace:

Da Varie ed eventuali, Poesie 1995 -2010, Feltrinelli, Milano, 2010

30.3.11

I feti nel Tempio del Bambù d'argento (di Andrea Fratticcioli - "micropolis on line")

Già da alcuni mesi Andrea Fratticioli, un giovane umbro che vive e studia nell'Oriente più estremo, pubblica su "micropolis on line" le sue corrispondenze, in una rubrica che si intitola "L'Internazionale di Micropolis". Non sempre parla immediatamente e direttamente di politica, come piacerebbe ai noi, vecchi redattori del mensilema il suo sguardo è attento, la sua mente curiosa. Dai suoi articoli nascono, com'è giusto, consapevolezze e interrogativi su quel mondo e sul nostro.  A me sembra proprio da leggere questo articolo del 13 gennaio 2010. (S.L.L.)
Bangkok. La polizia controlla i feti del Wat Phai Ngern.
A fine novembre il “paese dei sorrisi” è stato sconvolto da un’orribile scoperta: circa duemila feti umani di diversi pesi e dimensioni nascosti in una camera mortuaria nel cuore di Bangkok. Un forte odore aveva attirato la polizia fino al Wat Phai Ngern - o “Tempio del Bambù d’Argento” - luogo dell’orrendo ritrovamento. I feti, evidentemente in attesa di cremazione, erano rinchiusi in sacchetti di plastica bianca. A caldo, il tenente colonnello della polizia Kanathud Musiganont dichiarò che alcuni feti erano rimasti nascosti nel tempio per addirittura un anno.
A due mesi dallo scandalo, diverse persone sono già state arrestate (due becchini rei di aver nascosto i corpi e un dipendente di una clinica per aborti clandestini) con l’accusa di gestione di un ambulatorio medico senza licenza e di eseguire aborti, proibiti per legge. I becchini potrebbero essere condannati per un massimo di un anno di galera, mentre l’impiegato della clinica rischia fino a cinque anni.
La vicenda in Thailandia è stata vissuta come una vergogna nazionale, con una parte dell’opinione pubblica che ha definito “medievale” la legge che vieta la procedura di interruzione di gravidanza, obbligando ogni anno centinaia di migliaia di donne e ragazze a rivolgersi a costose e non sempre professionali “cliniche private”. Il governo thailandese, dal canto suo, ha risposto alle critiche promettendo di migliorare l’educazione sessuale tra i più giovani, ma ha continuato a difendendere la legislazione anti-abortista. Le ragioni governative sono comprensibili in un Regno dove le tradizioni sono gelosamente custodite da un monarca semidivino e ubbidientemente rispettate dalle masse, almeno formalmente. Inoltre, la stragrande maggioranza della popolazione segue il Buddismo Theravada - o “via degli anziani” - una corrente ortodossa che si caratterizza per la rigida linea conservatrice e per la “Sangha” - comunità dei monaci - il cui obiettivo primario è lo studio mnemonico dei testi sacri e il passaggio di questa tradizione ai posteri. La Sangha, che detiene un fortissimo potere di guida morale su questa nazione del sud-est asiatico, è dogmaticamente contraria alla liberalizzazione dell’aborto, in quanto il buddismo vieta ogni tipo di uccisione.
Ma mentre all’interno della società thailandese si sviluppa un dibattito sull’aborto che non differisce troppo da quello presente in molti altri paesi, in questa storia c’è ancora un grosso interrogativo: perché i feti sono stati nascosti nel tempio per mesi e mesi, senza essere sepolti o cremati? Per avvicinarsi ad una spiegazione occorre superare quell’immagine patinata della Thailandia che emerge dalle guide turistiche o da un veloce pernottamento presso le più rinomate località di vacanza ed entrare nel cuore pulsante di questa società. Mai come in Thailandia le teorie degli illuministi si dimostrano errate. Chi come loro aveva predetto che la scienza e la tecnologia avrebbero spazzato via credenze e religioni dovrebbe provare a farsi un giro per le strade di Bangkok. Ragazzi con laptop in mano si fermano davanti alle bancarelle che vendono amuleti, macchine di grande cilindrata si accostano al marciapiede per comprare manciate di insetti fritti, distinti signori entrano in librerie dove testi sull’oroscopo sono sullo stesso scaffale di bibbie, corani e manuali di economia aziendale. Da anni questa nazione ha abbracciato la modernità – nazionalismo, finanza, grattacieli, skytrain, moda e telefonini. Ma superate le apparenze e gli stereotipi più banali, ci si accorge che il paese dei sorrisi è anche un paese di spiriti e fantasmi, un luogo incantato dove paranormale e antiche credenze sono realtà ovvie e naturali per la maggioranza della cittadinanza locale.
Questa forte convinzione nell’esistenza degli spiriti e delle energie cosmiche influenza ogni aspetto della vita di questo popolo, dalle convinzioni religiose all’architettura, dalla politica ai programmi televisivi, dalle pubblicità fino alle attività commerciali. Nulla di strano, dunque, se nel decidere dove e come costruire un nuovo edificio un ingegnere sia “coadiuvato” da un esperto di geomanzia cinese. Naturale anche che l’inaugurazione dello stesso edificio sia accompagnata da una cerimonia religiosa e dalle preghiere del monaco officiante. Pratiche scontate in un Paese in cui all’interno di ogni casa o attività commerciale si trova un altare per gli Spiriti a cui offrire quotidianamente cibo e doni per attirare la buona fortuna e placare le anime in pena che potrebbero aggirarsi in quel luogo. In Thailandia persino le più importanti decisioni familiari, o di affari, affari richiedono la consultazione di un indovino: difficilmente una coppia convolerà a nozze se gli astri non saranno favorevoli.
Fantasmi e spiriti, insomma, sono vivi e vegeti nella vita quotidiana dei thailandesi. Storie di anime e di spettri sono così popolari che le sale cinematografiche che proiettano film dell’orrore sembrano non conoscere crisi. Persino nei giornaletti per bambini i fantasmi sono uno dei temi più ricorrenti.
Ma in questo paese gli spiriti non sono solo roba da ridere o un innocente passatempo. La stragrande maggioranza dei thailandesi crede nell’esistenza degli spiriti e una buona parte di loro crede di averne visti alcuni. Il fenomeno non è ristretto ai contadini delle regioni rurali,  quasi tutte le persone con le quali ho affrontato l’argomento avevano una storia vissuta in prima persona da raccontare, persino buona parte degli studenti universitari della capitale ammette di temere gli spiriti.
Nella cosmologia thailandese sono una miriade ognuno con una sua caratteristica. Tra i più celebri sono, i Phi Am, spiriti che siedono sul fegato della gente, durante il sonno, causando fastidi e dolori; i Phi Braed, fantasmi giganti, molto temuti perché capaci di uccidere i genitori; i Phi Chamob, che infestano il luogo della jungla dov’è morta una donna; i Phi Duat Leut, che come i vampiri succhiano il sangue delle loro vittime; i Phi Ha, che sono spiriti di donne morte di parto, e sono considerati particolarmente pericolosi; i Phi Hai, che infestano i luoghi dove le persone muoiono in modo violento o innaturale (spesso entrano nel corpo dei viventi e vanno cacciati con esorcismi o a frustate); il Phi Kra Hang, uno spirito notturno dalle sembianze di uomo alato; e, senza andare troppo oltre, il Phi Krasue, uno degli spettri più conosciuti e temuti, sempre affamato di carne umana e assetato di sangue, prende le sembianze di belle donne e plana sulle sue vittime col suo abito lungo che nasconde la parte inferiore del corpo, priva di gambe e dal quale penzolano le intestina.
Per combattere questa schiera infinita di creature, c’è una sorta di ‘Ghost Buster’: il Mho Phi. Questi ‘dottori degli spiriti’ impiegano tecniche e pratiche diverse a seconda dello spettro che si trovano ad affrontare, alcuni di loro sono diventati vere e proprie celebrità venerate ed osannate in tutta la nazione.
È per tutte queste ragioni che nel tempio maledetto di Bangkok, dove il 16 novembre scorso i feti sono stati ritrovati, decine e decine di persone si sono riunite più volte per pregare per le oltre 2.000 anime dei bambini mai nati e per offrire loro latte e banane, vestitini e giocattoli.
Dopo qualche settimana ed un rituale di purificazione, l’obitorio presso l’ormai celebre Wat Phai Ngern è stato demolito, ma il tempio del Bambù d’Argento continua ad attirare visitatori e intorno a questo luogo si è sviluppata un’atmosfera del tutto particolare. Nel giorno della nostra visita, una decina di venditori di biglietti della lotteria aspettavano i clienti proprio all’ingresso del tempio. Uno di loro mi ha spiegato che i numeri 2 - 7 - 27 sono i più richiesti. Il 2 sta per i 2.002 feti, il 7 è il numero della camera mortuaria in cui sono stati rinvenuti e il 27 è stato il giorno della prima cerimonia a suffragio delle anime dei bambini abortiti. Dicono che un’energia spirituale invisibile che emana dalla camera mortuaria e dal tempio renderà quei numeri particolarmente fortunati.
La risposta alla nostra domanda però, ha poco a che fare con la trasformazione del “tempio della vergogna” in “piazzetta della fortuna”: il motivo per il quale i feti sono stati nascosti nel tempio per mesi, senza essere sepolti, ha radici molto meno esoteriche di quel che sembra, anche se resta appesa al collo dei tanti fedeli che quel tempio lo frequentano.
I thailandesi amano agghindarsi con amuleti di ogni tipo, garantiscono una protezione contro gli spiriti maligni e contro la sfortuna in generale. Il loro commercio pertanto è diffusissimo. Grandi generalmente dai due ai dieci centimetri, possono raffigurare il Budda, “santi” buddisti (Bodhisattva), monaci famosi, animali o simboli vari. Alcuni amuleti - perlomeno quelli ritenuti più potenti - possono valere milioni di baht, centinaia di migliaia di euro. Ma esiste anche un lato oscuro di questa credenza, paragonabile alla magia nera occidentale.
Uno degli amuleti più potenti è il Look Krog, che rappresenta un bambino non voluto o un feto abortito. Secondo la credenza popolare, questo oggetto ha un fortissimo potere sessuale ed è capace di attrarre esattamente la donna desiderata. A Bangkok, un simile gingillo, ricavato da un feto umano, viene venduto a prezzi esorbitanti, pari ad anni dello stipendio di un umile lavoratore. Ecco perché - secondo alcuni - i due becchini incaricati di sbarazzarsi dei feti abortiti clandestinamente, avrebbero deciso di avviare un redditizio traffico di amuleti, magari con la complicità di qualche monaco.
In una delle cerimonie svoltesi nel Wat Phai Ngern per le anime dei bambini mai nati, una donna di mezza età con in braccio suo figlio mi ha spiegato che questi riti e queste offerte - ripetuti dopo 3, 7, 50 e 100 giorni dalla scoperta dei feti - servono ad ingraziarsi le migliaia di spiriti che ancora vagano in questo luogo. “I bambini morti urlano la notte, li ho sentiti - mi ha detto stringendo al petto il suo bambino, visibilmente preoccupata - vanno placati, possono essere pericolosi”.

29.3.11

L'uomo tagliato a metà (di Mo Yan)

Mo Yan, "colui che non vuole parlare", è lo pseudonimo letterario di Guan Moye (Gaomi, 5 marzo 1956), uno scrittore e sceneggiatore cinese vivente tra i più apprezzati. 
Dei suoi racconti e romanzi, alcuni dei quali pubblicati in Italia, nulla avevo fino ad oggi letto, benché talora invogliato da positive recensioni. Lo farò ora che Marco Rossari ha regalato emozione e riflessione ai visitatori del sito “Il primo amore”, postandovi una pagina bella e sconvolgente sulla violenza di stato. E' tratta dal romanzo di Mo Yan Il supplizio del legno di sandalo, pubblicato da Einaudi con la traduzione di Patrizia Liberati. Lo ripropongo sperando di fare cosa gradita e utile, non importa se a pochissimi. (S.L.L.)
Mo Yan
Il giorno dell'esecuzione nella piazza del patibolo di Caishikou era affluita una marea di gente: il popolo era stufo di assistere a decapitazioni ma questo cambio di programma era una novità interessante. L'ispettore all'esecuzione era il viceministro delle Punizioni, Sua Eccellenza Xu, era presente anche il ciambellano della Corte suprema, Sua Eccellenza Sang, insomma avevano fatto le cose in grande. Per preparare l'evento il gruppo dei boia era stato in piedi tutta la notte, la Nonna aveva affilato personalmente la grande scure Xuanhua, e la Prima Zia e la Seconda Zia si erano occupati di preparare il bancone, le funi e quant'altro in mancanza della Zia Minore, morto da poco di malattia. Avevo sempre pensato che per questo supplizio servisse la spada, in realtà, mi disse la Nonna, dall'epoca del patriarca fondatore era sempre stata usata la scure. Allorché stavamo per avviarci, la Nonna però mi fece portare anche la grossa spada, a scanso di imprevisti. 
Quando il custode venne accompagnato sul patibolo, aveva bevuto troppe coppe di "ultimo vino", era fuori di sé, aveva gli occhi rossi e la bava alla bocca: sembrava un toro impazzito. Le grosse braccia, quando si agitavano, erano dotate di una forza sovrumana. La Prima Zia e la Seconda Zia non riuscivano a trattenerlo. A vederlo scatenarsi il pubblico esultava; più loro si entusiasmavano e più lui delirava. Con molta difficoltà riuscimmo finalmente a stenderlo sul bancone. Davanti la Prima Zia gli reggeva la testa, dietro la Seconda Zia gli teneva ferme le gambe. Ma lui non stava fermo un attimo, e roteava le braccia come correggiati per battere il grano; i piedi scalciavano simili a zoccoli di cavallo; si contorceva come un serpente, inarcava il dorso come un verme. L'ispettore stava perdendo la pazienza e, senza aspettare che riducessimo il custode alla ragione, diede in fretta l'ordine di procedere. La Nonna fece roteare la scure alta sulla testa, poi la calò giù con violenza. Un bagliore bianco e una folata di vento. Quando aveva alzato la scure, tra gli spettatori era calato un silenzio perfetto; quando la scure si abbassò, dalla folla di levò un grido di esultanza. Udii un sibilo e vidi qualcosa di rosso schizzare verso l'alto. I visi della Prima Zia e della Seconda Zia si coprirono di sangue. Il colpo non aveva troncato il custode a metà: il lavoro non era riuscito. Mentre la scure calava, il custode si era contorto spostandosi di lato, e il busto gli era stato tagliato soltanto a metà. Le sue grida atroci coprirono l'esultanza della folla. Le budella erano sgusciate fuori, spargendosi ovunque. La Nonna avrebbe voluto concludere il lavoro, ma il colpo appena sferrato era stato così forte che la scure si era andata a conficcare profondamente nel bancone. Per sbrigarsi a estrarre la scure, senza volerlo aveva imbrattato di sangue il manico che era ormai viscido come un lombrico e non poteva più essere afferrato saldamente. Gli spettatori rumoreggiavano disapprovando. Le membra del custode si dimenavano, le sue urla inverosimili atterrivano il cielo e scuotevano la terra. Vista la situazione, decisi di intervenire e, senza aspettare istruzioni dalla Nonna, mi precipitai in avanti brandendo la spada con entrambe le mani e, a denti stretti e occhi chiusi, la calai con forza sullo squarcio già aperto troncando il custode a metà. In quel momento, la Nonna si riprese e, volgendosi verso l'ispettore, urlò: "L'esecuzione è completata, preghiamo le Eccellenze di voler ispezionare!" I funzionari erano sbiancati: stavano immobili come galline di legno. La Prima Zia e la Seconda Zia allentarono la presa delle mani insanguinate e si rizzarono confusi. La metà inferiore del corpo del custode, a parte essere contratta dagli spasmi, non si muoveva più di tanto. Ma la metà superiore… sconvolgente, se me l'avessero raccontato non ci avrei creduto, e anche avendolo visto con i miei stessi occhi, continuavo a pensare che fosse solo un incubo… otto su dieci, quel tipo in una vita precedente era stato una libellula, riusciva a muoversi anche senza la parte posteriore. Lo vidi rizzare il torso dal terreno sostenendosi con le braccia e saltare sulla piattaforma. Sangue e budella si erano attorcigliati attorno ai nostri piedi. Il viso era di un giallo lucente come se fosse stato laminato d'oro. La sua bocca larga mugghiava come una barca tra le onde in tempesta: non era chiaro cosa stesse urlando, fiotti di sangue e schiuma schizzavano fuori in continuazione. La cosa più curiosa era la sua treccia, curvata verso l'alto, come la coda di uno scorpione. Rimase per un po' alta sulla testa, poi si afflosciò. In quel momento sotto il palco calò il silenzio assoluto: i più coraggiosi continuavano a guardare, i fifoni si erano coperti gli occhi. Ce n'erano alcuni deboli di stomaco che vomitavano rumorosamente. Gli ispettori erano fuggiti a cavallo. Noi quattro, come fantocci sul palco, contemplavamo a occhi spalancati le portentose evoluzioni del mezzo custode. Si dimenò giusto il tempo che occorre per fumare una pipa, poi crollò malvolentieri a terra, la bocca ancora mugolante. Se aveste tenuto gli occhi chiusi, avreste avuto l'impressione di sentire il vagito di un neonato.

Il cacio all'argentiera (ovvero il frico alla siciliana)

Non conoscevo la ricetta del cacio all’argentiera (caciu all’argintera), benché molti siti turistici o gastronomici ne documentino la diffusione in diverse aree della Sicilia, da Marsala a Palermo, da Lentini a Milazzo fino alle Madonie, ove secondo taluni sarebbe nata, nella povera cucina di un argentiere palermitano caduto in disgrazia ed esiliato in montagna, in virtù della ricca inventiva della moglie cuciniera.
L’ingrediente di base è, ovviamente, il formaggio: i più preferiscono il caciocavallo freschissimo o poco stagionato, siracusano, ragusano o, almeno, siciliano. Ma non manca chi, nelle Madonie, lo sostituisce con il pecorino, fresco o anche invecchiato, di quello canestrato e pepato.
Ad attirare la mia curiosità è stata in primo luogo la frittura del cacio, che accomuna questa preparazione al frico friulano, stuzzichino che amo sia nella variante con patate sia in quella con le mele renette, e che addirittura adoro in quella senza altro ingrediente che i formaggi di diversa varietà e stagionatura. La prima importante differenza tra le due pietanze riguarda ovviamente il grasso usato, in Sicilia esclusivamente e rigorosamente olio di oliva, nel Friuli burro. La seconda riguarda l’aggiunta – credo arabeggiante - dell’agrodolce che rende speciale il piatto siciliano.
Io l’ho provato più volte, anche per la facilità della preparazione, seguendo le diverse varianti, peraltro di modesta entità. Esse riguardano oltre che il tipo di formaggio anche la quantità d’aceto bianco per 4 etti di cacio (da uno a tre cucchiai) e l’uso dello zucchero. Alla fine ho scelto una linea mediana su tutte le questioni aperte, quella che vi suggerisco. La foto l’ho ricavata dalla rete (http://www.blogsicilia.eu/blog/wp-content/uploads/2009/07/cacio-22.jpg): è quella che più assomiglia al piatto che cucino io. Ma per prepararlo nuovamente e fotografarlo dovrò attendere di togliere questa maledetta ingessatura che mi menoma mano e braccio. Avverrà subito prima di Pasqua e del 25 aprile: quest’anno per me saranno, come vuole la tradizione, occasioni di resurrezione e di liberazione. (S.L.L.)

Ingredienti per 4 persone
■ 200 grammi di caciocavallo siciliano fresco
■ 200 grammi di pecorino primo sale pepato
■ 2 spicchi di aglio
■ 50 grammi di olio d'oliva extravergine
■ Un cucchiaio d'aceto (al massimo due, se l’aceto non risulta abbastanza forte)
■ Poco sale.
■ Un pizzico di zucchero
■ Origano
Tempo di esecuzione: 10'

Preparazione
Dividete in quattro fettine il caciocavallo e in quattro fettine il pecorino. Lo spessore giusto è mezzo centimetro che consente di lasciare morbido l’interno. 
Fate imbiondire gli spicchi d'aglio in una padella con olio caldo. Aggiungete poi gli otto pezzetti di formaggio che farete rosolare uno o due minuti da una parte e dall’altra. Togliete dunque l'aglio ed aggiungete l'aceto e il pizzico di zucchero (a piacere). Fate evaporare l'aceto e spolverate i pezzi di cacio con l'origano. Coprite la padella con un coperchio e lasciate sul fuoco ancora per circa cinque minuti. Dalla padella o da un ampio piatto servite ben calde con il sughetto due fettine ad ogni commensale, una per tipo di formaggio. E’ un antipasto, ma si usa ottimamente per favorire un felice sorseggio, in quattro, di una buona bottiglia. Leggo che l’accoppiamento più felice è con un rosato. Ne sono convinto; ma a me non è dispiaciuto quello con un rosso da Nero d’Avola, non troppo forte, di Canicattì.

28.3.11

Pd e Napolitano. Qualcosa non funziona.

Napolitano all’Onu parla di “un nuovo spirito di orgoglio e di fiducia”, di una “rinnovata volontà di rafforzare la nostra unità e la coesione nazionale”.
Appena pochi giorni fa il Pd ha presentato al paese e al mondo una petizione con milioni di firme. Di italiani che si vergognavano del capo del governo e gli chiedevano immediate dimissioni perché svergognava la nazione. (Naturalmente per il cosiddetto premier e per i suoi era l’opposizione a svergognare il paese, ma a loro non serviva raccogliere firme).
Oggi i capi del Pd plaudono entusiasti al discorso di Napolitano ed esortano all’unità e alla coesione, presumibilmente anche con lo svergognato e con i suoi sostenitori, pure loro esultanti per la performance in lingua inglese di  "Napisan". 
Qualcosa non funziona.
Forse più di qualcosa.

La poesia del lunedì. Antonia Pozzi (Milano, 1912 - 1938)

Terrazza al Pincio
(ad A.M.C.)

Dai viali, a fiotti, corre sullo spiazzo
una fragranza amara d’oleandri.
Roma, immensa, s’abbuia a poco a poco,
sfiorata di rintocchi. Non un volto,
né una voce, né un gesto afferro intorno:
solo l’anima tua, solo il mio amore,
sbiancato dalla tua purezza. In breve,
nel cielo smorto di sfrenata attesa,
proromperà un rimescolìo di stelle.

Roma, 27 luglio 1929

I valori (e l'orgoglio) del laico (Gian Enrico Rusconi - "La Stampa" 5/3/2011)

Gian Enrico Rusconi
In democrazia vale il principio secondo cui il credente può esporre nel discorso pubblico e quindi introdurre nel processo deliberativo posizioni che (formulate in codice religioso o no) non pregiudicano l'autonomia di comportamento degli altri cittadini che hanno convinzioni diverse o contrarie alle sue. Naturalmente vale anche il reciproco. Da parte sua il laico deve falsificare l'inconsistente luogo comune che considera la laicità, nel migliore dei casi, soltanto una procedura o un metodo mentre la religione offrirebbe contenuti di senso sostanziali. Va fermamente respinta l'idea che la percezione del mistero della vita e della contingenza del mondo, l'emozione profonda davanti all'universo, il senso del limite dell'uomo siano prerogative del sentimento religioso. E' sciocco scambiare come indifferenza verso il senso della vita la discrezione, la riservatezza, il silenzio che il laico prova dinanzi alla finitezza, alla miseria umana e alla morte. La cultura laica rifugge da ogni omologazione culturale, ma possiede una concezione della «natura umana» ragionevole e scientificamente fondata, a fronte di visioni antropologiche strettamente intrecciate con culture religiose storicamente debitrici a saperi pre-scientifici. Contrastando ogni forma comunitarista che fa appello a «tradizioni» o «radici» con pretese vincolanti, il laico fa valere il principio universalistico della cittadinanza costituzionale. Tutto ciò è congruente con l'idea di democrazia intesa come lo spazio istituzionale entro cui tutti i cittadini, credenti, non credenti e diversamente credenti confrontano i loro argomenti, affermano le loro identità e rivendicano il diritto di orientare liberamente la loro vita senza ledere l'analogo diritto degli altri. Che questo difficile equilibrio sia etichettato oggi come post-secolare anziché semplicemente laico poco importa. Ciò che conta è che esso sia garantito da un insieme di procedure consensuali che impediscono il prevalere autoritativo di alcune pretese di verità o di comportamento su altre. L'età post-secolare non può cancellare l'acquisizione essenziale della secolarizzazione: la piena legittimità etica del non credere, oltre che la legittimità e la plausibilità intellettuale del non credere. Tutte le opzioni morali hanno pari dignità quando sono pubblicamente argomentate, accolte e sottoposte al vaglio dei procedimenti democratici nei casi in cui hanno rilevanza pubblica e richiedono di farsi valere come norme di valore giuridico. La libertà di coscienza individuale e la sua autonomia non sono affidate a insindacabili valutazioni soggettive bensì a motivazioni che sono aperte allo scambio di ragioni degli altri, accolte con pieno rispetto. Da qui la necessità di legiferare in modo da non offendere chi nei meccanismi della rappresentanza non riesce a far valere il suo punto di vista. […]
Questa democrazia e' definibile come laica nel senso che quando in essa si manifestano credenze e convinzioni incompatibili tra loro, ai fini dell'etica pubblica e delle sue espressioni normative, non decidono «verità sull'uomo» (riferite a una «parola di Dio» interpretata in modo autoritativo da un ceto di professionisti religiosi) ma le procedure che minimizzano il dissenso tra i partecipanti al discorso pubblico. «La verità» se vogliamo usare questo impegnativo concetto è contenuta nello scambio amichevole di argomenti che motivano le proprie convinzioni e nella lealtà di comportamenti che non sono reciprocamente lesivi. Chi accetta questo, realizza la cittadinanza democratica.

Postilla
Questo brano, che ho ripreso da “La Stampa” del 5 marzo, è tratto da Democrazia post-secolare, saggio reperibile nella raccolta di Letture di Biennale Democrazia pubblicata da Einaudi. E’ uno scritto stimolante, come spesso accade per quelli di Gian Enrico Rusconi. Non ne condivido tutti i passaggi, ma mi pare utile a stimolare l’orgoglio del laico, specie quando vi si respinge con la giusta nettezza l’idea di una “laicità vuota” a fronte del “pieno” delle religioni. (S.L.L.)  

Collaborazione tra polizie. Il Quadraro: un esempio raro.

Lo striscione di una manifestazione di donne al Quadraro (Roma)
Il 5 marzo le cronache davano notizia di un’indagine giudiziaria per la violenza sessuale esercitata su una donna di Crema in stato d’arresto, una presunta ladruncola del Nord. Lo stupro sarebbe avvenuto alla Stazione dei Carabinieri del Quadraro, alla periferia di Roma nella notte tra il 22 e il 23 febbraio. Pare che l’abuso sia stato commesso da uno solo, mentre gli altri guardavano e proteggevano le operazioni. Gli indagati, tre carabinieri e un vigile urbano, sono stati poi rinviati a giudizio, mentre il GIP ha negato l’arresto il 21 scorso, perché non ci sarebbero più possibilità di inquinamento delle prove. I tre carabinieri, a quanto pare, sono stati trasferiti in un’altra città (Torino) in uffici ove non c’è alcun contatto con il pubblico, mentre si legge che il vigile sia ancora nell’Urbe, a vigilare. Non vogliamo anticipare giudizi, ma, se la sentenza confermasse le risultanze delle indagini, ne verrebbe fuori un bell’esempio, peraltro assai raro, di collaborazione tra diverse forze di polizia. (S.L.L.)

Orvieto. Un suicidio, due vescovi, un generale di corpo d’armata. (da "micropolis" - marzo 2011)

Il diacono Seidita e il vescovo Scanavino
Nella storia che si è provvisoriamente conclusa con l’estromissione di monsignor Giovanni Scanavino da vescovo di Todi e Orvieto ci sono ingredienti e personaggi per un appassionante intrigo romanzesco: un suicidio, le lettere anonime, le rivalità, gl’interessi economici. La vicenda, insomma, è tutt’altro che lineare e non è facile venirne a capo, tra accuse vere e false, dichiarazioni e controdichiarazioni. Fissiamo perciò qualche punto.
L’ordinazione sacerdotale del ventinovenne Luca Seidita, per alcuni mesi segretario del vescovo e da molto tempo desideroso di farsi prete, viene bloccata da una deliberazione vaticana a pochi giorni della data fissata: non è maturo. Seidita si butta dalla Rupe. Pare che alla base della sospensione ci siano anonime accuse di omosessualità di dubbio fondamento; di certo questo è uno schiaffo per il vescovo, che molto si era impegnato nel condurre al sacerdozio un giovane dall’esperienza seminariale irregolare. Scanavino dà pertanto le sue dimissioni, che vengono immediatamente accettate. Ad amministrare la diocesi è chiamato, in attesa di una nuova nomina, un vescovo in quiescenza, il vecchio Marra che essendo stato ordinario militare è anche generale di corpo d’armata. Il vescovo estromesso, però, non sta zitto. Spiega che le dimissioni non sono state spontanee ma richieste. E, in più dichiarazioni, fa riferimento alla lunga guerra ingaggiata contro di lui, fin dall’insediamento, con accuse di ogni tipo, specie relative alla gestione del clero. Le ragioni di questa guerra sarebbero in primo luogo di potere: il prelato è monaco agostiniano e ha fatto voto di povertà, la Chiesa locale non manca invece di ricchezze e dentro di essa non manca chi vuol metterle a frutto. C’è un cancro – a parere di Scanavino – dentro la Chiesa orvietana.
Due considerazioni. Prima: tutte le volte che c’è di mezzo l’omosessualità nella Chiesa cattolica si perde la testa e da quando a guidarla c’è Ratzinger ancora di più. Chissà perché. Seconda: il mantenimento degli arcana imperii, dell’opacità del potere, è cosa che al Vaticano e alla Chiesa cattolica riesce meglio che non al potere politico, ma, tutte le volte che qualcosa, anche poco, viene fuori, l’impressione é di un verminaio puzzolente.
Per finire. Ci hanno chiesto e ci siamo chiesti se nella vicenda orvietana c’entrasse Paglia, il potente vescovo di Terni che guida la conferenza episcopale umbra. Consultati, alcuni amici ben inseriti nel mondo cattolico non hanno mostrato dubbi: Paglia c’entra sempre. 

Da "micropolis", marzo 2011 

Walter Binni politico. La disperata tensione e l'eroica resistenza.

Lo scritto che segue, mio, è tratto dal numero di "micropolis" di marzo 2011. La presentazione perugina del volume, organizzata dal Comune, da "micropolis" e da Segno critico, si svolgerà nel pomeriggio dell'8 aprile nella Sala della Vaccara.
Nell’attività di Walter Binni, secondo una prassi critica che ha il suo modello in Francesco De Sanctis, politica, etica e letteratura sono intimamente congiunte: com’è stato notato (tra gli altri da Walter Cremonte) in lui il rigore scientifico e analitico è forma di una indomabile passione civile. Pertanto tutte le sue opere di studioso, di italianista tra i maggiori nel Novecento, presentano un grado assai elevato di “politicità”, da quella sul decadentismo fino al corpus degli scritti leopardiani, passando per Ariosto, Alfieri e i preromantici. A gennaio è uscito per  le edizioni de “Il Ponte”, in collaborazione con il Fondo Walter Binni, il volume La disperata tensione, che raccoglie un’ampia scelta di scritti politici stricto sensu e rende evidente anche il movimento inverso: un impegno politico, fuori e dentro le istituzioni e i partiti, fortemente nutrito di cultura letteraria, filosofica e storica e da essa inseparabile.   
Il titolo del libro – lo spiega la premessa - nasce uno degli ultimi appunti per un saggio autobiografico ove si può leggere, tra l’altro, “Capitini e l’antifascismo: la disperata tensione”. L’espressione, di ascendenza leopardiana, restituisce in verità i caratteri costitutivi dell’impegno di Binni, che, come il “suo” poeta, dal deserto delle illusioni e dal rifiuto di ogni consolatoria mistificazione, religiosa o ideologica, trae alimento per una resistenza attiva e appassionata al “male”. “Male”, nel suo approccio, è la condizione naturale dell’esistenza; ma colpa, oltre che male, è un’organizzazione sociale e politica fondata sulla disuguaglianza e sull’oppressione, per i più generatrice di sofferenze.
Il volume offre, in realtà, due testi in uno: un’ampia selezione di scritti politici (articoli, brevi saggi, discorsi, interviste, interventi e comunicazioni), dal 1934, quando Walter Binni aveva 21 anni, al 1997, anno della morte; e un sostanzioso saggio biografico, La poetica di un “pessimista rivoluzionario”, di Lanfranco Binni, che funge da premessa e cornice ma ha anche un valore autonomo.
Il “racconto” di Lanfranco Binni mostra da una parte una rete di relazioni politico-intellettuali assai fitta, da Nenni a Rigoni Stern, da Alessandro Natta a Pratolini, da Bobbio a Vassalli, da Parri a Pintor (l’elenco è assai più lungo e la scelta dei nomi opinabile); dall’altra un intellettuale, che, sia quando in prima linea è attivo nelle lotte della politica (la cospirazione antifascista e resistenziale, la Costituente repubblicana, gli anni Sessanta e la contestazione all’Università di Roma), sia quando oppone alle ricorrenti “restaurazioni” italiane la forza dell’analisi e il coraggio della verità, non scinde mai pensiero e azione, ricerca scientifica ed impegno etico-civile.
La ricostruzione dell’attività politica e intellettuale di Walter Binni, come del complesso di eventi, contatti, rapporti, sollecitazioni, studi che ne rappresentano l’humus, forniscono  il variegato spaccato di “un’altra Italia”, assai migliore di quella che si esprime nella lunga catena di malefatte che lega i nomi di Mussolini, Andreotti, Berlusconi. Lo stesso Binni ne parla in una delle ultime interviste (a Giorgio Calcagno nel marzo del 94) : “Forse nel nostro paese è vissuta sempre una doppia Italia. Ce n’è stata una nobile, minoritaria. E poi ce n’è una cinica, conformista, arrampicatrice, rotta a ogni corruzione. Solo in rari momenti della storia, quelli che vengono chiamati lune di miele dei popoli, è emersa la prima…”.
Nei testi de La disperata tensione si possono individuare alcuni filoni e temi ricorrenti.
Primo: il radicale e radicato antifascismo. Evidente già nei due scritti degli anni Trenta sulla Germania pubblicati nel giornale del Guf pisano esso si esprime al massimo livello nel discorso del 66 per la morte dello studente Paolo Rossi o nel ricordo di Ferruccio Parri. Ma in Binni l’antifascismo non si esprime solo nei momenti speciali di tensione o di commozione, è abito di tutti i giorni: basta leggere, per averne conferma, un articolo del 47 sulle case di tolleranza.
Secondo: Capitini, amico e maestro riconosciuto, nonostante la diversità di prospettive in materia religiosa. Fin dal primo dopoguerra Binni ne sottolinea il ruolo formativo per la sinistra; poi ne seguirà e valorizzerà, dai Cos alle Marce pacifiste, la sperimentazione di forme nuove della politica.
Terzo: la scuola pubblica, nazionale, democratica e laica. Sul tema Binni fece un lucido e vibrante intervento da deputato nella Costituente, e più volte vi ritornò nel corso degli anni, spesso in coincidenza con i ricorrenti rigurgiti di clericalismo.   
La disperata tensione, letta nelle due parti che la compongono, permette anche di ricostruire un percorso politico sicuramente atipico, ma significativo.
Binni, dopo la liberazione, non sceglie, come Guido Calogero e altri amici di Capitini, il Partito d’Azione, ma compie senza ambiguità la scelta socialista, nel Psiup di allora. Eletto deputato alla Costituente nel 46, nel complesso dibattito interno al suo partito è vicino a “Iniziativa socialista”, la corrente più giovane e avanzata sul piano programmatico, ma avversa allo stalinismo e alle politiche frontiste. Quando nel 1947 “Iniziativa” aderirà alla scissione di Palazzo Barberini, Binni non confluisce nel Psli saragattiano, ma con Codignola e Silone tenta di dar vita a una Unione Socialista, possibile ponte verso un unico grande partito socialista non subalterno né alla Dc né al Pci. Nel 1948 Walter Binni rinuncerà alla politica attiva, ma resterà questa la sua area di riferimento, minoritaria ma piena di fermenti (poneva tra i propri maestri anche eretici come Trotzkij e Rosa Luxembourg). Negli anni 50 Binni accompagnò il processo di unificazione tra il Psdi di Saragat e il Psi di Nenni, prima promuovendo insieme a Giuliano Vassalli un movimento di “socialisti senza tessera”, poi aderendo al Psi.
Del socialismo italiano si disamorerà negli anni del centrosinistra, quando vedrà le riforme progettate naufragare nella mai bonificata palude italiana e molti compagni preferire la “stanza dei bottoni” alle battaglie di massa. Vicino alla contestazione studentesca, Walter Binni si allontana dal Psi nel 68. Nel 1976 si fa addirittura promotore di un incontro, nella sua casa romana, per una comune iniziativa tra persone dalle storie politiche molto diverse, da lui ribattezzate “liberi comunisti”, Aldo Natoli, Carlo Cassola, Guido Aristarco e Vasco Pratolini, una iniziativa che anticipa la sua generosa adesione al Partito della Rifondazione comunista nel 1994, dopo la fine ingloriosa dell’Urss e l’avvento in Italia della cosiddetta Seconda repubblica. In realtà nel riflusso degli anni 80, segnati dalla presenza ingombrante di quelli che Walter Binni chiamava “brutti ceffi”, il fallimento sempre più evidente del comunismo di marca stalinista, che egli aveva contrastato quand’era all’apice della forza e della capacità attrattiva, non lo spinge affatto a un ripiegamento o a una resa, come accade a tanti, ma a una radicalizzazione del suo sentimento socialista. Gli anni Ottanta e Novanta del 900 gli appaiono, come al “suo” Leopardi gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, un tempo di regressione civile e culturale, un tempo “superbo e sciocco” che pretende di chiamare progresso il ritorno a forme rapinose di sfruttamento capitalistico, la cancellazione di diritti sociali e civili, la sottomissione del lavoro, il riciclaggio postmodernista della superstizione religiosa o la “moda nera e nefasta” della falsa disperazione . Il tempo della vecchiezza è dunque per Binni anche il momento di una resistenza “disperata”, orgogliosa ed eroica contro il “nuovo che avanza”, orribilmente vicino nei suoi tratti sottoculturali a quell’ “era fascista”, in cui era maturata la sua prima ribellione. La sua denuncia è implacabile, ma sente fortissima anche l’esigenza di un lascito positivo a quelli che verranno, non la trasmissione di un’eredità da dissipare ma l’indicazione di un dovere da compiere. La selezione opportunamente comprende come scritto precipuamente e altamente politico un testo come Il messaggio della “Ginestra” ai giovani del ventesimo secolo, del 1988, collegato alle conferenze che Walter Binni l’anno prima aveva tenuto a Terni, Perugia e Città di Castello in teatri affollatissimi da studenti. La “proposta” del poeta di Recanati (e del suo critico perugino) veniva così sintetizzata: “l’invito urgente ad una lotta per una attiva e concorde prassi sociale, per una società comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, «eguale», giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più doverosa proprio nella sua ardua difficoltà”.

27.3.11

Nel cuore.


Dedalo cura la raccolta dei rifiuti nella provincia di Agrigento, in un'area che per la "differenziata" è a livelli assai bassi; è una di quelle società a cui, nella fregola delle privatizzazioni vere e finte, è stato delegato il compito di raccogliere e smaltire immondizie. La foto è stata effettuata in un suo spazio a Canicattì. Meno male che quelli della  Dedalo la differenziata ce l'hanno nel cuore. Chissà cosa accadrebbe se ce l'avessero sullo stomaco. (S.L.L.)

Gli effetti del bacillo (di Salvatore Collari)

E’ possibile che Salvatore Collari fosse un medico, specializzato in igiene o in medicina sociale, magari quel nuorese laureatosi nell’Università di Cagliari il 2/07/1924 con una tesi sull’inversione uterina puerperale. Ne trovo più di un indizio sulla rete. Ha questo nome, per esempio, il curatore, nel 1943, di un libro sugli effetti demografici e sanitari delle bonifiche nell’Agro Pontino. Di un altro volume di cui il detto è probabile autore, Falene, si trova traccia nei siti di compravendita dell’usato. Dovrebbe aver avuto due edizioni, una nel 1938 (Ceschina) e una del 1950 (Igea). Dalla copertina visibile in rete si desume che non si tratta di un testo di entomologia, ma di un’opera letteraria: una raccolta di saggi, o di racconti-saggi, dedicata al rapporto arte-malattia. Ne ha riportato un frammento nel suo sito Mila Audaci  http://milaaudaci.splinder.com/post/24195657/le-falene ). Si parla degli effetti del bacillo di Koch, nelle sue diverse fasi. Ha tutta l’aria di voler mettere insieme competenze mediche e risorse stilistiche, con risultati non disprezzabili. E’ per questo che lo ripropongo (S.L.L.)
Il bacillo di Koch
Nel periodo “iniziale” dell’infezione tubercolare – che principia dall’ingresso del bacillo nell’organismo o meglio dall’inizio della sua attività patologica, e che è caratterizzato dalla secrezione e immissione in circolo delle tossine, - si determina una vera eccitazione delle diverse facoltà: intellettive, affettive e volitive. Il malato è irascibile, irritabile per ogni nonnulla, ansioso, sospettoso, in uno stato di inspiegabile sovreccitazione e colle antenne della sensibilità pronte a vibrare alle più piccole segnalazioni dell’ambiente che lo circonda.
Nella fase di “rivelazione”, dopo un primo periodo di disorientamento che segue inevitabilmente alla conoscenza del male, il malato ha una pausa più o meno lunga, di equilibrio, di calma, di ragionamento. Ed è proprio in questo periodo che si ha un assestamento mentale; così individui che prima della malattia erano ottimisti lo ridiventano, mentre in altri, al contrario, si accentua la nota pessimistica che persisterà, più o meno continua e crescente, fino al termine della vita.
Durante il periodo di “stato”, poi, i sentimenti generalmente preponderanti sono due: una affettività morbosa che genera amicizie violente, passioni amorose tenaci (Catullo per Lesbia, Chopin e De Musset per Gorge Sand, Keats per Fanny Borwne, Elisabetta Barrett per Roberto Browning), o una religiosità estrema (San Francesco d’Assisi, San Luigi Gonzaga, Santa Teresa di Lysieux), e d’altra parte un egoismo talvolta aspro (Leopardi).
L’euforia è caratteristica del periodo terminale, della fase preagonica.

da Salvatore Collari, Falene, Casa Editrice Ceschina - Milano,1938

25.3.11

Vertigine. Una poesia di Antonia Pozzi (1912 - 1939)

Afferrami alla vita,
uomo. La cengia è stretta.
E l'abisso è un risucchio spaventoso
che ci vuole assorbire.
Vedi: la falda erbosa, da cui balza
questo zampillo estatico di rupi,
somiglia a un camposanto sconfinato,
con le sue pietre bianche.
Io mi vorrei tuffare a capofitto
nella fluidità vertiginosa;
vorrei piombare sopra un duro masso
e sradicarlo e stritolarlo, io,
con le mie mani scarne;
strappare gli vorrei, siccome a croce
di cimitero, una parola sola
che mi desse la luce. E poi berrei
a golate gioiose il sangue mio.

Afferrami alla vita,
uomo. Passa la nebbia
e lambe e sperde l'incubo mio folle.
Fra poco la vedremo dipanarsi
sopra le valli: e noi saremo in vetta.

Afferrami alla vita. Oh, come dolci
i tuoi occhi esitanti,
i tuoi occhi di puro vetro azzurro!

Pasturo, 22 agosto 1929

23.3.11

Fabrizio De Andrè, un poeta senza volto (di Cristina Valenti)

“A, rivista anarchica”, anno 30 n.262, del marzo 2000 conteneva un supplemento molto ben curato dal titolo L'altro Fabrizio, interamente dedicato a Fabrizio De André. Vi ho trovato questa preziosa lettura critica del lavoro poetico-musicale del cantautore genovese. (S.L.L.)

Le canzoni di Fabrizio De Andrè hanno rappresentato per molti di noi momenti di presa di coscienza, ci hanno orientato nel labirinto dell'intemperanza giovanile contribuendo a nutrire di consapevolezza quel ribellismo generazionale che negli anni Settanta avrebbe assunto tante facce e tanti colori. Alcune sue canzoni sono diventate vere e proprie bandiere, altre hanno accompagnato riflessioni più intime, momenti di scoperta personale. Non era vero che le nostre poesie scopiazzavano De Andrè, mi trovai a spiegare da adolescente: nelle sue canzoni c'erano cose che già pensavamo, ma che non eravamo mai riusciti a formulare. Confondendo l'entusiasmo dell'adesione con l'ebbrezza della scoperta, in De Andrè trovavamo la lingua per tradurre e finalmente esprimere l'urgenza della nostra presa di posizione sul mondo.
A tutto questo lui si mescolava e si sottraeva. A differenza di quanti si imponevano anche personalmente come immagini forti, De Andrè non trasmetteva altro che atmosfere musicali e parole in rima. Un cantautore che ha accompagnato la ribellione di più di una generazione senza mai porsi come modello, senza mai offrire esempi, spunti, tracce da seguire. Nessuna ragazza se ne innamorava da lontano, come sarebbe stato frequente (o lo era già?) per i divi del rock, della musica leggera o del cinema. La sua faccia non la si conosceva quasi. C'era una foto che era (o almeno sembrava) sempre la stessa nelle copertine dei suoi primi album, una foto di sbieco, il volto quasi indistinguibile dietro un lungo ciuffo di capelli; più tardi i meglio informati avrebbero spiegato che nascondeva un occhio dalla palpebra troppo bassa. Nessuno si è mai vestito al modo di De Andrè né ha impugnato la chitarra come lui, semplicemente perché di lui non c'erano immagini.
Una vera anomalia, se si pensa che i suoi primi trentatré giri vendettero centinaia di migliaia di copie, imponendosi al vertice delle classifiche quando il dominio incontrastato apparteneva ai quarantacinque giri. Fabrizio De Andrè conquistò il mercato (o per meglio dire lo inventò, come è stato notato, perché un mercato della canzone d'autore non esisteva prima di lui in Italia) imponendosi alle persone prima che a un pubblico. Il pubblico sarebbe venuto molto tempo dopo, coi primi (rari) concerti, aggregandosi attorno a quanti già lo conoscevano e si riconoscevano nelle sue canzoni, nel suo mondo poetico, nei suoi bozzetti umani e sociali.

Da Dostoevskij a Brassens
L'anomalia costitutiva della sua carriera artistica è stata quella di una star senza volto, che non era "di moda" eppure manteneva i suoi dischi ai primi posti delle classifiche di vendita anche per diversi anni di seguito. Solo in questi ultimi tempi, da quando è morto, le immagini hanno avuto paradossalmente il sopravvento, rimbalzando da un servizio televisivo all'altro e rischiando di farci dimenticare che la sua vita l'abbiamo sentita vicina in assenza di immagini e di aneddoti.
Di lui si conosceva poco o nulla. Si sapeva della sua attività di chansonnier sulla scena alternativa della Borsa di Arlecchino a Genova, e della sua predilezione randagia per le storie di vita vere, popolate da figure di balordi e di sconfitti: immagini di un esistenzialismo un po' maudit, che potevano sembrare datate in anni in cui la politica stava mettendo al centro l'antagonismo sociale della classe operaia. E d'altro canto i personaggi delle sue canzoni non appartenevano certo a un paesaggio condiviso, accampandosi piuttosto all'orizzonte di una vicenda umana in qualche modo universale, che De Andrè aveva modellato a partire dalle suggestioni dei classici sui quali si era formato, Dostoevskij, Maupassant, Flaubert, Balzac, e ai quali aveva coniugato i temi e le atmosfere di Brassens, Brel, Ferrè.
Nel 1991 Fabrizio De Andrè si è raccontato a Cesare G. Romana, un giornalista amico di vecchia data, e ha accettato che il risultato dei loro colloqui diventasse un libro, Amico fragile.
La formula dell'autobiografia "mediata", del racconto che si ritrae cioè dalla trasmissione in prima persona, ben corrisponde alla strategia del riserbo che il cantante ha rigorosamente applicato alla sua vita personale e artistica.
La storia inizia nel dicembre '79: il prigioniero dell'Hotel Supramonte liberato dai prigionieri della riserva, pastori sardi ovvero Sioux. Il riaffacciarsi al mondo e il poter ricordare di nuovo, dopo mesi in cui era stato troppo doloroso farlo. Il cammino dell'uomo bianco verso la libertà ripercorre il passato per sfumarlo nella lontananza, deludendo immancabilmente la promessa del racconto. De Andrè inganna con generosa condiscendenza l'intervistatore: la storia di vita si snoda per tappe significative e figure indelebili: la guerra, il padre partigiano, Genova, la vita "zingara" della fanciullezza, gli studi, la scoperta del sesso, i compagni di strada, le donne e gli uomini dei "carrugi", poi la musica, gli amici cantautori, il lavoro dell'artista e quindi la produzione discografica, i pochi concerti, fino al mestiere di agricoltore. Tratteggia figure di irregolari, compagni di strada a volte maledetti a volte semplicemente marginali, amori mercenari e ambigui, mascalzonate fra il goliardico e il picaresco. Ci presenta personaggi che non potremo dimenticare per tutto quello che non ci viene raccontato e che vorremmo invece sapere: il poeta cieco che muore suicida come i personaggi della Ballata degli impiccati di cui è coautore, l'amico Spugna che muore di cirrosi, le battone delle prime esperienze amorose, da preferire per generosità e umanità alle ragazze della sua classe sociale. Ma sono ritratti appena evocati, che sembrano rivelare risvolti intimi e segreti, fermandosi in effetti sulla soglia della vita reale, dei dolori e dei sentimenti. Niente di avvicinabile alle figure scolpite a tutto tondo delle sue canzoni: il suonatore Jones, il Pescatore, il soldato Piero, il carcerato Miché, il Malato di cuore, il Giudice, il Matto, Bocca di Rosa, Marinella, la fanciulla che conosce l'amore e l'inganno nella Leggenda di Natale, le puttane di Via del Campo, Jamin-a, Franziska, il servo pastore, l'amico fragile...
Il racconto è ben lontano dallo svelare l'autore delle canzoni; piuttosto, sono proprio le canzoni a gettare bagliori su una vicenda personale che, mentre si mette nella condizione di svelarsi, resta ancor più segreta. E' da poeta che De Andrè ha saputo gettare lo sguardo più fiero, sdegnato e raggelante sulle cose che ha deciso di raccontare: sul conformismo, sulla piaggeria, sul potere, sulla corruzione, sulla violenza di un mondo che tuttavia non ha mai cessato di dipingere con poesia, per proiettarlo al di là dei "litri e litri di corallo" che lo separavano dalla sua Utopia.
C'è un passaggio che resta segreto, e che corrisponde al mistero del processo creativo: la strettoia attraverso la quale passano le esperienze, le letture, le tecniche, le frequentazioni, gli appunti, i fermenti di rabbia, ispirazione, desiderio, per farsi opera, composizione musicale, poesia. Sono condizioni a lungo preparate e poi accese e bruciate, come una candela che ardendo si consuma, ma trasforma la concretezza della materia nella consistenza lieve dell'arte. A volte il racconto ci porta appena vicino a questa soglia misteriosa: quando muore Tenco, e De Andrè compone in una notte Amico fragile; il periodo passato a comporre con De Gregori in una condizione di particolare fervore produttivo; l'alternarsi di momenti di concentrazione e altri di espansione creativa: i mesi passati solo a lavorare i campi, a leggere nei giornali le notizie del mondo, senza pensare alla musica, e quindi il momento in cui la scrittura si fa necessaria e improrogabile. Ma di tutto questo non ci sono che brevi passaggi del racconto, quasi sviste, fra un episodio e l'altro, nell'intenzione di trasmettere piuttosto i fatti, ritenuti - come si sa - "più interessanti".

Dove nascono i fiori
Esplicito fino a parer didascalico lo è invece nel dichiarare il suo serbatoio di idee, l'universo degli autori che l'hanno ispirato, dai grandi classici della letteratura ai padri dell'anarchismo. Molte citazioni, seppure esposte senza pretesa di organicità (uno stile di pensiero che ha fatto proprio, dopo che l'accusa di non essere "organico" gli fu rivolta ai tempi del liceo). Addentrandosi nei modi del processo creativo lascia in ombra le questioni tecniche, per affermare piuttosto che ciò di cui non può fare a meno per comporre sono le "idee forti", attorno alle quali si costruisce ogni suo disco. I suoi dischi li definisce "concept album" in quanto "mantengono le singole canzoni del tutto indipendenti l'una dall'altra, ma le fanno ruotare attorno a [...] un concetto di base, da sviscerare via via, da un brano all'altro".
Dice a proposito di Nuvole: -"Ho cercato di narrare aspetti e protagonisti delle due realtà, il potere e il popolo, evitando di raccontare me stesso e cioè trasformandomi in interprete che sostiene dei ruoli, dò voce a personaggi diversi. E questa è la novità di questo album che tuttavia è venuto fuori più duro e teso, io credo, degli altri, e che ho vissuto, anche nel cantarlo, con un'emozione e magari un'angoscia diverse". Con straordinaria lungimiranza parla della sua rabbia "per questo mondo senza più rabbia", che "si prepara a essere governato da un'unica potenza mondiale" e nel quale "la politica si è impadronita di qualsiasi espressione umana". E si rammarica del fatto che lui e tutti gli artisti avrebbero "dovuto stimolarla di più, questa protesta". Forse risiede qui la ragione vera della ritrosia di De Andrè, che ha tenuto in ombra il proprio volto per farsi tramite di altre storie, per far parlare attraverso di sé la protesta dei suoi personaggi, il suo mondo di esclusi e di reietti, ma anche di eroi senza speranza, portatori di sentimenti semplici e spesso eccessivi, di una bellezza imprevedibile e fragile, come quella scovata in mezzo al "letame" da cui "nascono i fiori". Le denunce vibrate, la rabbia e l'indignazione, ma anche i sentimenti di calda e dolorosa partecipazione, De Andrè ha saputo fonderli in personaggi, storie e situazioni, drammatizzandoli, se così si può dire, e per questo esponendoli in maniera mai sentenziosa né retorica, ma rivelandoli sull'onda e dall'interno di un'esperienza.
A proposito della sua vocazione di artista, delle ragioni prime che l'hanno fatto cantautore impegnato, dice: "Ebbi abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo"; poi la disillusione: "la seconda [l'illusione] si è sbriciolata presto, la prima [l'ansia di giustizia] rimane". Ed quest'ansia ad accomunare quelli che ha definito i "santi senza Dio" dell'anarchismo: Errico Malatesta in primo luogo.

Dove le utopie si fanno realtà
In un altro luogo, sempre a proposito della sua prima vocazione, Fabrizio De Andrè scrive: "Ma la musica fu anche una necessità. In casa mia tutti si esprimevano in modo non truccato, in assoluta coerenza con le scelte di ciascuno: l'avvocatura, il management, la politica, l'insegnamento. Io non ero capace di esprimermi a quei livelli, con quel misto di vocazione genuina e, si dice oggi, di professionalità. E così scelsi la prestidigitazione [...]. E allora scoprii che, se prendevo la chitarra, la suonavo meglio di tutti, e stupivo gli altri più che con un tema in classe. Ed ero esonerato dai loro cerimoniali, perché a un musicista nessuno rimprovera di essere un tipo ruvido, chiuso in se stesso, o di mangiare con le mani. A un avvocato o a un insegnante, sì".
La musica come necessità di espressione autentica, non truccata, e l'arte come luogo in cui è possibile trasformare la realtà [acquisita l'arte della "prestidigitazione"] e darsi regole proprie, costruendo un universo alternativo.
Interrompendo il racconto indiretto, De Andrè ha scritto in prima persona il suo Epilogo all'Amico fragile: "Aspetterò domani e magari cent'anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie. E ricordandomi con orgoglio e rammarico la felice e così breve esperienza libertaria di Kronstadt, un episodio di fratellanza e di egualitarismo repentinamente preso a cannonate dal signor Trotzkij".

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