31.5.18

Eneide. La “piccola Iliade” in cui Virgilio affiancò il suo eroe (Andrea Cucchiarelli)


Niccolò Bambini (1651-1736), Enea racconta a Didone
la distruzione di Troia -  Macerata, palazzo Bonaccorsi

Il lettore che inizia il libro II dell’Eneide non ha dubbi sul fatto che il protagonista del poema sia destinato a un grande futuro sul suolo italico. Lo dice la leggenda, naturalmente, e Virgilio stesso nel proemio ha già dichiarato come, dopo tante sofferenze, Enea dovesse portare gli dèi troiani nel Lazio, gettando le fondamenta per le «mura dell’alta Roma». Adesso, però, questo eroe vincitore è invitato dalla regina Didone a «rievocare un dolore indicibile», come è lui stesso a dire nel celebre attacco (infandum, regina, iubes renovare dolorem). Si intravede il futuro in cui Enea, con i suoi alleati, vincerà la guerra contro i popoli latini, ma per il momento lo ascoltiamo narrare, nella reggia di Didone, i luttuosi eventi della notte in cui Troia cadde, cioè la sua più grande sconfitta come capo guerriero.
L’evento «mitistorico», con cui nel libro II Virgilio si confronta, è enorme, il vero archetipo della «distruzione della città», e, per giunta, nemmeno trattato distesamente nei due poemi maggiori di Omero. Che si tratti di una prova notevole per un narratore epico, Virgilio lo lascia intendere anche per il modo con cui la prepara, già in più punti del libro I, creando una forte tensione narrativa. Quando, in apertura di libro, Enea inizia a parlare, qualunque lettore, al pari dei convenuti al banchetto di Didone, non può far altro che rivolgergli tutta la propria attenzione («Tutti tacquero, e fissavano attenti i suoi sguardi su lui»). Perché Virgilio, di fronte al difficilissimo compito di raccontare come va a finire la vicenda dell’Iliade – «completando» Omero – ha scelto di aiutarsi con Omero stesso: come avveniva con il protagonista dell’Odissea, che presso i Feaci raccontava le proprie traversie, Virgilio adesso lascia la parola a Enea, che dell’ultima notte di Troia può parlare come di un fatto vissuto in prima persona e ancora di attualità. Non poteva darsi un modo migliore, per il poeta epico latino, di innestarsi nel pieno della dimensione eroico-omerica.
Non mancavano, in realtà, testi e tradizioni varie che Virgilio e i suoi lettori avevano sicuramente a disposizione sull’argomento (e oggi sono perduti): l’inganno del Cavallo e la caduta della città erano raccontati in due poemi ciclici, la Piccola Iliade e la Distruzione di Troia (Ilioupersis). Ma qui Virgilio è voluto risalire al momento in cui tutti quei racconti, notizie di un passato appena trascorso, iniziavano a diffondersi sulle varie sponde del Mediterraneo. Tra le anticipazioni contenute nel libro I, ce n’è addirittura una che viaggia sul piano comunicativo più diretto e immediato, quello delle immagini: da poco sbarcato in terra d’Africa, Enea si accorge, non senza qualche meraviglia, che alcuni tra i fatti di Troia sono rappresentati nelle pitture che adornano il tempio di Giunone a Cartagine (l’artista, anzi, deve essere stato piuttosto abile e informato, perché Enea si riconosce senza difficoltà in una delle figure [se quoque… adgnovit]). E adesso tocca proprio a Enea, in prima persona, raccontare come siano andate le cose, rispondere alle curiosità della regina, che verso la conclusione del libro I gli si rivolge con animo ormai già sotto l’effetto di Cupido.

Prospettiva del narratore
Quello di Enea, però, non è un racconto facile, e non solo per la dolorosità (renovare dolorem…) della vicenda. È stato uno tra i grandi meriti di Richard Heinze, illustre studioso tedesco di Virgilio (1867-1929), essersi posto nella prospettiva del narratore per comprendere al meglio le difficoltà cui era esposto chi volesse raccontare la caduta di Troia dal punto di vista dei fuggitivi. Tanto Enea, che degli eventi fu protagonista e vittima, quanto il poeta dell’Eneide che gli dà voce, devono riuscire nell’impresa di raccontare – in una modalità dignitosamente eroica – come fosse potuto avvenire che i Troiani cadessero in un inganno come quello del Cavallo, di per sé non proprio irresistibile, e come il grande Enea, mentre la sua città bruciava, avesse trovato la via per salvarsi, scampando a quella morte onorevole, in battaglia, cui invece tanti suoi compagni erano andati incontro. Già in un frammento della Guerra punica del predecessore repubblicano, Nevio, la necessità di un chiarimento su questo punto sembra essere espressa in modo piuttosto diretto, ma non senza, significativamente, qualche riguardosa cautela (si è pensato, senza però argomenti decisivi, che il soggetto potesse essere proprio Didone, intenzionata a stimolare il racconto dell’eroe): blande et docte percontat, Aenea quo pacto / Troiam urbem liquerit «con blandizie e sapienza si informa sul modo in cui Enea / abbia lasciato Troia».
Del grande libro di Richard Heinze (La tecnica epica di Virgilio [Teubner 1915,terza ed., trad. ital. il Mulino 1996]) sono eredi, in varia misura, tutti i più avveduti interpreti e critici virgiliani degli ultimi cento anni e sulla sua scia si pone adesso il nuovo commento al libro II di Sergio Casali (Virgilio, Eneide 2, introduzione, traduzione e commento a cura di S. C.), primo volume della collana «Syllabus», con cui le Edizioni della Normale di Pisa si propongono di fornire, alla scuola e all’università italiane, commenti ai testi classici che coniughino la solidità scientifica alla chiarezza espositiva, come dichiarato da Gianpiero Rosati nella Premessa. E indubbiamente questo libro dell’Eneide si presta particolarmente ad essere letto e studiato da giovani ancora in fase di formazione: si può dire che Virgilio abbia vinto la sua scommessa, perché la sua «continuazione» dell’Iliade si è da sempre imposta come un classico della scuola. Un successo ininterrotto dall’antichità fino a oggi, di cui sono testimoni le numerose citazioni o reminiscenze del libro II negli autori antichi e moderni, come già nei testi epigrafici o nei graffiti pompeiani. E fu questo libro dell’Eneide che piacque di tradurre al giovane Leopardi, il quale così, con schietto latinismo e un poco faticosamente, rendeva in endecasillabi l’attacco di Enea: «Infando, / o regina, è il dolor cui tu m’imponi / che rinnovelli».
Proprio su di un testo come questo, Sergio Casali è interprete particolarmente qualificato e prezioso: e non soltanto per la sua ormai lunga esperienza negli studi virgiliani, che ha prodotto molti contributi importanti, ma soprattutto per la salutare intransigenza che lo caratterizza e che gli permette di leggere anche il testo più celebrativo (e celebrato) osservandone in controluce tutte le piegature, ricostruendo il lavorio di selezione con cui il poeta ha voluto indirizzare il lettore tra le tante tradizioni, senza escludere quelle scomode e, talvolta, soggette a censura. Grande esperto della tradizione esegetica virgiliana, a partire da quella antica fino a quella moderna (questa, in particolare, rilanciata dal commento del gesuita Juan Luis de La Cerda, 1612), sensibile agli approcci più aggiornati degli studi classici, Casali si inserisce appunto nel gruppo dei commentatori più capaci di seguire il testo virgiliano nelle sue problematicità: sovvengono i nomi di Philip Hardie, Stephen Harrison, Nicholas Horsfall, Richard Tarrant, Alfonso Traina. Una tale raffinatezza esegetica non va disgiunta, però, dalla solidità filologica, che approda nel volume a una revisione critica del testo, fondata sulle principali edizioni (quelle di Roger Mynors, Mario Geymonat e, soprattutto, Gian Biagio Conte), e che al contempo produce un apparato critico autonomo e originale.

Il commento di Horsfall
Non c’è dunque da dubitare che questo nuovo commento al libro II si imponga sia all’attenzione degli studiosi, come un prezioso strumento di riferimento e stimolo per la ricerca, sia, secondo gli obiettivi della collana, al pubblico dei lettori italiani, soprattutto nel contesto di scuole e università. Il più recente commento al libro II, infatti, pubblicato esattamente dieci anni fa (Brill, 2008), è quello in lingua inglese del già ricordato Horsfall, uno tra i più produttivi e instancabili studiosi di Virgilio dei nostri tempi: esso, però, per dimensioni (e prezzo…), per l’approccio ultra-specialistico e per il modo stesso dell’annotazione, molto tecnico (a rischio talvolta di riuscire criptico o «iniziatico»), non si presta all’adozione presso le università e tantomeno le scuole italiane. Piuttosto, per le sue caratteristiche di formato e approccio, il commento di Casali potrebbe invitare al confronto con quello oxoniense di Roland Austin (in inglese), ovvero con quello italiano, ma più limitato nei suoi obiettivi, di Feliciano Speranza. Basti dire, però, che entrambi questi commenti, pubblicati tutti e due nel 1964, sono ormai inevitabilmente carenti sul piano dell’aggiornamento bibliografico – tanto più quando si pensi all’enorme vitalità degli studi virgiliani nell’ultimo cinquantennio.
Se, dunque, il commento di Casali restituisce al lettore un testo spiegato con precisione e cura, anche tramite una traduzione in prosa estremamente affidabile, riesce cioè a produrre un’esegesi chiara e documentata, oggettivamente utile, il Virgilio che emerge da questa impresa interpretativa è un autore complesso, che non mira ad appianare le contraddizioni con cui egli stesso si trovò a confrontarsi durante la stesura di un poema epico su quell’esule sconfitto, che abbandona la sua città in fiamme e poi diventa eroe nazionale di Roma. In un caso in particolare, come dicevamo (è la proficua intuizione di Heinze), il poeta Virgilio e il narratore Enea sono solidali, quando si tratta di spiegare come sia stato possibile che la trovata del Cavallo abbia funzionato. Non è stata soltanto l’astuzia umana, di Ulisse e di Sinone, a ingannare Enea e i suoi concittadini, ma – come Casali mostra – allo scopo è riuscito decisivo l’intervento divino: i due serpenti marini che uccidono Laocoonte (figura introdotta nella tradizione relativamente tardi, per rispondere alla necessità che almeno ad un Troiano venisse in mente di seguire le più ovvie procedure di sicurezza in tempo di guerra) devono essere inevitabilmente interpretati dai Troiani come una conferma di veridicità, proveniente dagli dèi, che avvalori il discorso di Sinone, di per sé tutt’altro che lineare e privo di contraddizioni.

Giustificazione morale
Per questa via dunque, secondo l’interpretazione di Casali, la vicenda del Cavallo si connette direttamente al tema cruciale del libro II, posto a fondamento della giustificazione morale e ideologica indispensabile per l’eroe Enea, e che così può riassumersi: Troia è caduta ed Enea è fuggito, salvando i Penati, perché questa era la volontà divina. Qui Virgilio, poeta epico della Roma augustea, doveva fare i conti con tradizioni ostili già consolidate, sorte nella cultura ellenistica e stimolate da sentimenti antiromani, che mettevano in dubbio l’eroismo di Enea, facendone addirittura un traditore, salvatosi perché, nelle parole dello storico greco Menecrate di Xanto, era diventato «uno degli Achei». Che Virgilio avesse da «difendere» il proprio eroe, seppure con la sovrana astuzia narrativa di lasciare a lui stesso (e alla sua responsabilità…) l’onere del racconto in prima persona, è evidente nella sovrabbondanza di temi e trovate che ne giustificano le azioni: l’apparizione notturna di Ettore, che (lui, colonna della città e morto per essa) lo esorta a lasciare Troia, ma il cui suggerimento Enea decide di non accogliere, cercando la morte in battaglia con un furor quasi suicida; l’intervento della madre Venere, che in una grandiosa apocalissi gli rivela come gli dèi stessi si stiano accanendo contro Troia, e quindi lo convince a correre in aiuto della sua famiglia; l’ostinazione del padre Anchise, determinato a farsi uccidere dal nemico, il quale torna così a impersonare l’idea omerica dell’autoimmolazione e in effetti induce Enea a voler tornare in battaglia, tanto che soltanto, ancora una volta, l’intervento divino, con il prodigio delle fiamme sul capo di Ascanio e il tuono di Giove, persuade l’anziano padre (e quindi il figlio) a desistere.
Fonte di scandalo era anche il modo piuttosto improvvido con cui Enea perde Creusa, dando la sensazione che un marito innamorato avrebbe saputo come tenersi al fianco la propria moglie: e Virgilio stesso amplifica questa sensazione attivando più volte, come mostra finemente Casali, la memoria a contrasto di Orfeo e Euridice (se Enea si fosse voltato come aveva fatto, sbagliando per troppo amore, Orfeo, forse sarebbe riuscito a non perdere Creusa, che in alcune fonti per altro ha nome proprio Euridice). E qui il commentatore Casali si mette al fianco di un particolarissimo lettore di Virgilio: l’Ovidio delle Heroides, che nell’epistola di Didone fa sì che la regina rimproveri a Enea proprio di aver crudelmente abbandonato la moglie.
In conclusione, l’approccio esegetico di Casali, e il commento che ne è il frutto, sono perfetti per «preparare» un esame e sapere tutto quello che c’è da sapere su di un testo cruciale della letteratura latina. Ma questo volume è anche un prezioso strumento per leggere Virgilio e seguirne la straordinaria impresa di narratore e poeta soprattutto per le difficoltà che essa comportava. Non era cosa da nulla, per un poeta che aveva cantato di pascoli e campi, di amori, di fiori e di alberi, corrispondere all’obbligo – sostanzialmente assente dai poemi omerici – di un poema nazionale ideologicamente orientato, cioè vincolato a una rappresentazione positiva e nel complesso incoraggiante del mito finalizzata alle esigenze dell’oggi. In questa sua «piccola Iliade» Virgilio ha tentato una poderosa sintesi: il suo eroe riconosce la volontà divina negli eventi e tanto gli basta per proseguire nel suo cammino e, a suo modo, per dichiarare con onestà il proprio personaggio. Se Didone, presa d’amore per l’intervento di Cupido, resterà sorda a ogni ragione, Enea per parte sua le sta raccontando come, per volontà divina, egli abbia dovuto e potuto lasciarsi alle spalle addirittura la legittima moglie, madre di Ascanio. E per volontà divina dovrà abbandonare, non troppo sorprendentemente, la stessa Didone. Adesso è il momento di «rinnovare il dolore», ma per prepararsi a una storia che deve proseguire, lontano dalle coste d’Africa, con nuove guerre, assedi e, naturalmente, uccisioni. Il fato lo vuole.

Alias – il manifesto, domenica 27 maggio 2018

“Siamo marxisti? Esistono marxisti?” (Salvatore Lo Leggio)


Per il duecentesimo compleanno di Marx non c'è stato il clamore di altre ricorrenze del passato riferibili al rivoluzionario di Treviri, né il fervore religioso di certe antiche celebrazioni. La fine dell'Unione Sovietica, che nel pensiero di Marx, anzi nel marxismo, anzi nel marxismo-leninismo, pretendeva di trovare la giustificazione della sua nascita e della sua esistenza, e del comunismo novecentesco che a quell'esperienza si collegava, ha laicizzato la ricorrenza. Il che non è necessariamente un male.
Un approccio laico, del resto, era quello di Antonio Gramsci un secolo fa, per il primo centenario della nascita, nell'editoriale scritto per il “Grido del popolo”, il settimanale dei socialisti torinesi, dal titolo Il nostro Marx. Basta rileggerne l'incipit: “Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? [...] La questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d’inchiostro e di stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio...”.
Unica celebrazione solenne di questo secondo centenario è stata quella svoltasi a Pechino, in un immenso Stato tuttora governato da un Partito Comunista, ma il cui sviluppo lascia molte perplessità sulla natura sociale di quel modello economico e politico. A Pechino, per l'Italia, c'era Massimo D'Alema, che ha prodotto su Marx uno dei pochi interventi italiani “simpatetici” di questo centenario. Sulla stampa nazionale che un tempo chiamavamo “borghese” non sono, infatti, mancati interventi sul Marx pensatore, storico, teorico dell'economia, in gran parte encomiastici, e qualcuno di essi ricordava che per alcune sue formulazioni e ricerche egli oggi funge paradossalmente da maestro di quei capitalisti contro cui organizzava la classe operaia e il proletariato. Ma in genere gli elogi si accompagnano all'archiviazione del Marx ispiratore di movimenti politici, ad una sua collocazione monumentale nella storia della cultura, anzi della Cultura, occidentale. D'Alema no, in un certo senso è rimasto “chierico”: ha perciò parlato di Marx come maestro, tentando un'interpretazione della nozione di “capitale fittizio” e dichiarando che la lente critica di Marx può aiutare a governare il capitalismo, controllando le pulsioni distruttive che accompagnano il “feticismo del denaro”.
Trovo più convincente Immanuel Wallerstein che a Marx ha sempre guardato senza rispetto religioso. Nel concludere un suo prezioso libretto, Il capitalismo storico, più di trent'anni fa, quando l'URSS c'era ancora, scriveva: “ Karl Marx è stato una figura monumentale nella storia intellettuale e politica contemporanea. Ci ha lasciato una grande eredità, che è concettualmente ricca e moralmente ispirata.[…] Egli sapeva, a differenza di molti di quelli che si sono spesso autoproclamati suoi discepoli, di essere un uomo del secolo XIX […]. Adoperiamo dunque i suoi scritti nell'unica maniera ragionevole - consideriamolo un compagno di lotta, che ne sapeva quanto lui ne ha saputo”. Oggi – in un dialogo con un giovane studioso italiano, Marcello Musto, pubblicato un mese fa su “La lettura” del Corsera – Wallerstein ricorda come Marx ci abbia insegnato “meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società” e come dal capitalismo come totalità (imperfetta, ma totalità) sia possibile uscire. Marx, soggiunge, nel capitalismo globalizzato e pieno di ingiustizie, è ancora nostro compagno e può ancora aiutarci ad uscirne.
Quanto a noi – parlo di me, ma credo possa essere riferito a diversi compagni di “micropolis” e “Segno critico” - non abbiamo difficoltà a definirci “marxisti” impenitenti, specie oggi che esserlo è fuori moda. Ricordiamo l'affermazione di Marx di non essere “marxista” e abbiamo letto con profitto su una rivista on line di storia delle idee, “InTrasformazione”, patrocinata dall'Università di Palermo e diretta da Piero Violante, l'utilissimo glossario storico sulla babele dei marxismi e sulla confusione semantica e concettuale che ne è nata, elaborato da Enrico Guarneri, un vecchio compagno della scuola di Mario Mineo. Ma, a modo nostro, ci piace continuare a dirci “marxisti”, provando a ricomporre, seguendo l'esempio del nostro compagno Karl, la scissione tra ricerca teorica e impegno pratico, di cui scrive Paolo Favilli sul “manifesto” (“Bisogna entrare nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica”). Ci riconosciamo in quanto, all'inizio del millennio, ribadiva un grande intellettuale (ed eccellente poeta) come Edoardo Sanguineti: “Nel momento niente offre una visione più matura, più ricca del marxismo che, mi pare, è ancora quella che spiega meglio a che punto siamo della storia umana, quali sono i temi fondamentali da affrontare e anche qual è la direzione verso la quale muoversi, che poi è la questione veramente radicale. Cioè: che fare”.
Il nostro "marxismo" è un'approssimazione, un modo di dire, non certo un pensiero in sé compiuto, ma, così concepito, non rientra nel circuito dell'ideologia. L'ideologia non cerca verifiche o smentite nella realtà, si contenta della coerenza formale; il pensare alla marxista invece di necessità comporta scarti e accidenti. Si può essere davvero "marxisti", solo lasciando aperte porte e finestre.

"micropolis", maggio 2018 - Nella rubrica "La battaglia delle idee"

Gildo Moncada, agrigentino, partigiano in Umbria (Salvatore Lo Leggio)



È uscito lo scorso anno e in questa maledetta primavera è stato tema di due presentazioni umbre (una a Bastia, organizzata dal Circolo Primomaggio, una a Perugia sotto l'egida dell'ANPI provinciale) un libretto di un centinaio di pagine intitolato Il partigiano bambino – sottotitolo La storia di Gildo Moncada - edito dalla casa editrice Ad est che stampa tra l'Emilia e le Marche, ma che ha radici agrigentine. 
L'autore è Raimondo Moncada, che è nato ad Agrigento ma risiede a Sciacca, ha praticato da cronista il giornalismo sulla carta stampata e in tv ed è noto soprattutto come autore di testi umoristici e satirici destinati alla lettura e alla rappresentazione teatrale e come attore brillante.
Gildo Moncada, cui il libro è dedicato, nato nel 1928 e morto nel 1997, era il padre dell'autore. Era stato giovanissimo partigiano combattente nella Brigata Leoni tra Umbria, Lazio e Toscana: aveva perso una gamba a San Sepolcro, combattendo contro i tedeschi. Pittore e grafico, Gildo lavorò a Roma per gli Editori Riuniti e poi fu militante e dirigente del Pci nella sua Agrigento, da tutti stimato per la passione, l'impegno, il rigore e la rettitudine. Al Pds nel 1991 aveva aderito, ma a malincuore come tanti vecchi compagni, con la paura che nel cambio di nome e di simbolo, pur ritenuto necessario, si smarrissero i valori costitutivi di una comunità e di una identità.
Il libro che il figlio Raimondo ha voluto dedicare non è solo la comunicazione di una memoria alle nuove generazioni, ma è concepito e strutturato come un colloquio del figlio con il padre, nutrito da ciò che il padre in vita ha detto e raccontato di sé e dal rimpianto per ciò che invece non si è potuto dire.
La parte più bella e interessante del libro a me è sembrata, non a caso, la prima, quella dedicata alla partecipazione di Gildo alla Resistenza. Gildo non aveva mai voluto raccontare quella storia nel dettaglio, per cui la sua ricostruzione è anche il frutto di una ricerca, di una raccolta di testimonianze.
La storia comincia ad Agrigento dove Raimondo Moncada, il padre di Gildo vive, all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Ha quattro figli. La più grande, Pina, s'innamora di un sottufficiale dell'esercito, il sergente maggiore Sante Boldrini, in servizio al Distretto Militare della città dei Templi, ma nativo di Perugia. È proprio lui a mettere in allarme Raimondo nei primi mesi del 1943: la guerra per l'Asse va molto male, gli Alleati sbarcheranno presto in Sicilia, Porto Empedocle ed Agrigento, in primo luogo, poi l'intera Sicilia saranno teatro di battaglie, scontri e distruzioni. Raimondo accetta il consiglio del genero: in un viaggio avventuroso trasferisce la sua famiglia a Perugia e lì la famiglia affronta disagi e fame. Gildo ha sedici anni e ne dimostra anche meno, ma sceglie la macchia e la Resistenza nella Brigata Leoni. Lo chiamano “il partigiano bambino”. Nella rievocazione non mancano, scontri, fughe ed eroismi. Fa spicco la morte eroica di Mario Grecchi. Centrale è la liberazione di Perugia, il 20 giugno del 1944.
Gildo partecipa alla sfilata su corso Vannucci: lo si distingue chiaramente in una foto di gruppo. Un'altra lo ritrae da solo, non casualmente davanti al Brufani, il luogo da cui si dirigeva la famigerata marcia su Roma, e un'altra al teatro Pavone, vicino al generale Alexander. Per me, nativo dell'agrigentino e perugino d'elezione, quelle foto sono motivo d'orgoglio e di commozione. E mi commuove l'intero libro, visto che, da giovanissimo comunista negli anni Sessanta del 900, avevo conosciuto Gildo in Federazione, o – forse - nella tipografia Sarcuto. Ma credo che il libro di Raimondo Moncada possa essere fonte di grande emozione – per usare una parola cara alla sinistra perugina – anche per altri lettori umbri.


"micropolis", maggio 2018

Quando i bambini ... (Claudio Damiani)

Quando i bambini disegnano una casa, sempre fanno anche una stradina, che, da quella casa, esce. Oh, ma dove porta quella strada? Da dove viene?

"Nuovi Argomenti" N.40 ottobre-dicembre 1991, Arnoldo Mondadori Editore

30.5.18

Questo silenzio. Una poesia giovanile di Luciano Bianciardi (1922-1971)

Luciano Bianciardi

Riconosco il silenzio
che mi è caro,
quell’acqua che sussurra
sul gemito d’un flauto
e l’accordo dell’armonica.

Così non si è soli:
lontani dal chiasso
ostile di tante voci
ci ritroviamo
con l’anima
pura
nell’indefinibile accordo
di questo silenzio.

Taranto, Novembre 1944


in L'antiMeridiano, ISBN Edizioni ExCogita Edizioni, 2005

Le guerre sante. Passione e ragione (Umberto Eco)


"E' proprio nei momenti di smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui".
Un grande articolo di Umberto Eco, scritto nel clima di “scontro di civiltà” suscitato dalla strage delle Torri Gemelle. Sandro Portelli scrisse che questo articolo, che riusciva a dire cose elementari e difficili insieme, in conseguenza di un ragionare complesso, andava fatto circolare contro i veleni ignoranti che venivano all'epoca sparsi. 
Credo che quelle considerazioni valgano ancora oggi e che un articolo siffatto aiuti a misurare la grandezza eccezionale e tuttora sottovalutata di Umberto Eco, il più grande illuminista italiano del nostro tempo. (S.L.L.)


Che qualcuno abbia, nei giorni scorsi, pronunciato parole inopportune sulla superiorità della cultura occidentale, sarebbe un fatto secondario. È secondario che qualcuno dica una cosa che ritiene giusta ma nel momento sbagliato, ed è secondario che qualcuno creda a una cosa ingiusta o comunque sbagliata, perché il mondo è pieno di gente che crede a cose ingiuste e sbagliate, persino un signore che si chiama Bin Laden, che forse è più ricco del nostro presidente del Consiglio e ha studiato in migliori università.
Quello che non è secondario, e che deve preoccupare un poco tutti, politici, leader religiosi, educatori, è che certe espressioni, o addirittura interi e appassionati articoli che in qualche modo le hanno legittimate, diventino materia di discussione generale, occupino la mente dei giovani, e magari li inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione del momento. Mi preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la si cambia più. Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per secoli sono nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come Noi e gli Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è dimostrata feconda (non solo dall'Illuminismo a oggi ma anche prima, quando il francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo qualcosa da apprendere anche dagli infedeli) è anche perché si è sforzata di "sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le semplificazioni dannose. Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché fanno parte della storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri, condannava l'arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze "inferiori", o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare "Dio stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei cinque pasti" e dunque dei ghiottoni inferiori all'italiano parco e spartano.
Ma sono gli aspetti migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere coi giovani, e di ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che spesso non si riesce a cogliere la differenza tra l'identificazione con le proprie radici, il capire chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o male. Quanto a radici, se mi chiedessero se preferirei passare gli anni della pensione in un paesino del Monferrato, nella maestosa cornice del parco nazionale dell'Abruzzo o nelle dolci colline del senese, sceglierei il Monferrato. Ma ciò non comporta che giudichi altre regioni italiane inferiori al Piemonte. Quindi se, con le sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per gli arabi), il presidente del Consiglio voleva dire che preferisce vivere ad Arcore piuttosto che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto che in uno di Bagdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a parte). E questo anche se mi dicessero che a Bagdad hanno istituito l'ospedale più attrezzato del mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo influirebbe anche sulle mie capacità di ripresa.
Le radici possono essere anche più ampie di quelle regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto per dire, che a Mosca. Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente, ma a Limoges capirei la lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura in cui è cresciuto e i casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una minoranza. Lawrence d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine è tornato a casa propria.

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Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto. L'Occidente, sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato curioso delle altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci chiamavano barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua e dunque era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli stoici (forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con grande rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana medievale cercavano di farsi tradurre i testi dei filosofi, medici e astrologi arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di ricuperare perdute saggezze orientali, dai Caldei agli Egizi, Montesquieu ha cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che andavano sì presso i Bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire quale fosse il loro modo di pensare e di vivere - forse memori del fatto che missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio.
Ho nominato gli antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del XIX secolo in avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo di sanare il rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di quegli Altri che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli primitivi. L'Occidente coi selvaggi non era stato tenero: li aveva "scoperti", aveva tentato di evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti ne aveva ridotto in schiavitù, tra l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le navi degli schiavi venivano scaricate a New Orleans da raffinati gentiluomini di origine francese, ma stivate sulle coste africane da trafficanti musulmani. L'antropologia culturale (che poteva prosperare grazie all'espansione coloniale) cercava di riparare ai peccati del colonialismo mostrando che quelle culture "altre" erano appunto delle culture, con le loro credenze, i loro riti, le loro abitudini, ragionevolissime del contesto in cui si erano sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che si reggevano su una loro logica interna. Il compito dell'antropologo culturale era di dimostrare che esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e che andavano prese sul serio, non disprezzate e represse.
Questo non voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli Altri, decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il loro pluriennale lavoro oltremare se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe pensare che l'antropologia culturale sostenga una posizione relativistica, e affermi che una cultura vale l' altra. Non mi pare sia così. Al massimo l' antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria, bisognava rispettare il loro modo di vivere.

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La vera lezione che si deve trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che, per dire se una cultura è superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri. Un conto è dire che cosa sia una cultura e un conto dire in base a quali parametri la giudichiamo. Una cultura può essere descritta in modo passabilmente oggettivo: queste persone si comportano così, credono negli spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé tutta la natura, si uniscono in clan parentali secondo queste regole, ritengono che sia bello trafiggersi il naso con degli anelli (potrebbe essere una descrizione della cultura giovanile in Occidente), ritengono impura la carne di maiale, si circoncidono, allevano i cani per metterli in pentola nei dì festivi o, come ancor dicono gli americani dei francesi, mangiano le rane.
L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in crisi da tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a un ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, «no, sono animista». Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha almeno preso un diploma alla Ecole des Hautes Études di Parigi, e quindi quel bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato cose abbastanza slegate tra loro che poi lui aveva riunito in un sistema affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i malintesi possibili, di una cultura Altra si può avere una descrizione abbastanza "neutra".
I parametri di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre radici, dalle nostre preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni, da un nostro sistema di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il prolungare la vita media da quaranta a ottant'anni sia un valore? Io personalmente lo credo, però molti mistici potrebbero dirmi che, tra un crapulone che campa ottant'anni e san Luigi Gonzaga che ne campa ventitré, è il secondo che ha avuto una vita più piena. Ma ammettiamo che l'allungamento della vita sia un valore: se è così la medicina e la scienza occidentale sono certamente superiori a molti altri saperi e pratiche mediche. Crediamo che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità dei trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei, automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell' ozono. E dunque vedete che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come fa l' antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo di non potere rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra cultura, per noi, è migliore.

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In questi giorni si è assistito a varie difese di culture diverse in base a parametri discutibili. Proprio l'altro giorno leggevo una lettera a un grande quotidiano dove si chiedeva sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo agli occidentali e non agli orientali. A parte il fatto che si trattava di un ignorante che non sapeva quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a persone di pelle nera e a grandi scrittori islamici, a parte che il premio Nobel per la fisica del 1979 è andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam, affermare che riconoscimenti per la scienza vanno naturalmente a chi lavora nell'ambito della scienza occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno ha mai messo in dubbio che la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi all'avanguardia. All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia.
Quanto è assoluto il parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la bomba atomica e l' Italia no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio vivere a Islamabad che ad Arcore? I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo islamico ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a Buchara, non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si citino sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi, Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del XIV secolo che fu Ibn Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia, matematica o medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro.
Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci.
Le cose cambiano. Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi cristiani di quanto non fossero stati i cristiani con i saraceni quando Gerusalemme l'avevano conquistata. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che i cristiani non li tollerano e Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha. Di converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo, ma questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari.
Non andiamo a scomodare la storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne facevano di cotte e di crude, ma i corsari di sua maestà britannica, con tanto di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei carabi; Bin Laden e Saddam Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin (Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se aveva studiato in seminario e letto Marx). No, il problema dei parametri non si pone in chiave storica, bensì in chiave contemporanea. Ora, una delle cose lodevoli delle culture occidentali (libere e pluralistiche, e questi sono i valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che si sono accorte da gran tempo che la stessa persona può essere portata a manovrare parametri diversi, e mutuamente contraddittori, su questioni differenti.
Per esempio si reputa un bene l'allungamento della vita e un male l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo benissimo che forse, per avere i grandi laboratori in cui si studia l'allungamento della vita, occorre avere un sistema di comunicazioni e rifornimento energetico che poi, dal canto proprio, produce l'inquinamento. La cultura occidentale ha elaborato la capacità di mettere liberamente a nudo le sue proprie contraddizioni. Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e lo dice. In fin dei conti tutto il dibattito su globale-sì e globale-no sta qui, tranne che per le tute nere spaccatutto: come è sopportabile una quota di globalizzazione positiva evitando i rischi e le ingiustizie della globalizzazione perversa, come si può allungare la vita anche ai milioni di africani che muoiono di Aids (e nel contempo allungare anche la nostra) senza accettare una economia planetaria che fa morire di fame gli ammalati di Aids e fa ingoiare cibi inquinati a noi? Ma proprio questa critica dei parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia, ci fa capire come la questione dei parametri sia delicata.
E' giusto e civile proteggere il segreto bancario? Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa segretezza permette ai terroristi di tenere i loro soldi nella City di Londra? Allora, la difesa della cosiddetta privacy è un valore positivo o dubbio? Noi mettiamo continuamente in discussione i nostri parametri. Il mondo occidentale lo fa a tal punto che consente ai propri cittadini di rifiutare come positivo il parametro dello sviluppo tecnologico e di diventare buddisti o di andare a vivere in comunità dove non si usano i pneumatici, neppure per i carretti a cavalli. La scuola deve insegnare ad analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni passionali.

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Il problema che l' antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte delle reazioni razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti vivano nel Mali (basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega), ma che gli animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi vuole pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se vogliono infibulare le loro ragazze, se (come accade per certe sette occidentali) rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se l'ultimo mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora) vuole emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni domenica?
Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in galera (ma specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a scuola col chador non vedo perché fare tragedie se a loro piace così, sulla infibulazione il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così tollerante da suggerire di farle gestire dalle unità sanitarie locali, così l'igiene è salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne musulmane possano essere fotografate sul passaporto col velo? Abbiamo delle leggi, uguali per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei cittadini, e non credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea mi sono tolto le scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese ospite. Come la mettiamo con la foto velata? Credo che in questi casi si possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti sono sempre infedeli e servono a quel che servono, si studino delle tessere magnetiche che reagiscono all' impronta del pollice, chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi l' eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne frequenteranno le nostre scuole potrebbero anche venire a conoscenza di diritti che non credevano di avere, così come molti occidentali sono andati alle scuole coraniche e hanno deciso liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili.

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L' Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e costumi degli Altri, ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di studiare usi e costumi dell' Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai bianchi, o consentendo agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi - e poi si vede cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa a organizzare movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare (la storia è peraltro vecchia, e per l' indipendenza dell' India si sono battuti intellettuali che avevano studiato con gli inglesi). Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano studiato qualcosa dei paesi dove tramonta il sole, ma sono cose di cui sappiamo abbastanza poco. Quanti antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare l' Occidente per raccontarlo non solo ai propri concittadini, ma anche a noi, dico raccontare a noi come loro ci vedono? Esiste da alcuni anni una organizzazione internazionale chiamata Transcultura che si batte per una "antropologia alternativa". Ha condotto studiosi africani che non erano mai stati in Occidente a descrivere la provincia francese e la società bolognese, e vi assicuro che quando noi europei abbiamo letto che due delle osservazioni più stupite riguardavano il fatto che gli europei portano a passeggio i loro cani e che in riva al mare si mettono nudi - beh, dico, lo sguardo reciproco ha incominciato a funzionare da ambo le parti, e ne sono nate discussioni interessanti. In questo momento, in vista di un convegno finale che si svolgerà a Bruxelles a novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un artista, stanno terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo che anziché limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine non so cosa le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa potranno spiegare anche a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano invitati a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non c' entrano i cattolici, sono protestanti americani, più fanatici di un ayatollah, che cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo che lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire meglio la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra santa (potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e forse vedrebbero con occhio più critico l' idea di guerra santa in casa loro. In fondo noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare proprio descrivendo la pensée sauvage.

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Uno dei valori di cui la civiltà occidentale parla molto è l'accettazione delle differenze. Teoricamente siamo tutti d' accordo, è politically correct dire in pubblico di qualcuno che è gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che è un frocio. Come si fa a insegnare l' accettazione della differenza? L'Academie Universelle des Cultures ha messo in linea un sito dove si stanno elaborando materiali su temi diversi (colore, religione, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro scolari come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto si è deciso di non dire bugie ai bambini, affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione. Né basta dirgli che sono tutti figli di Dio, perché anche gli animali sono figli di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai visto una capra in cattedra a insegnargli l' ortografia. Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza. Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana. Il passo successivo sarà mostrare che c' è qualcosa in comune tra la nostra e la loro musica, e che anche il loro Dio raccomanda alcune cose buone. Obiezione possibile: noi lo faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a Kabul? Bene, questa obiezione è quanto di più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi. Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano. Punto e basta. Altrimenti sarebbe come se decidessimo che, se in una certa area del globo ci sono ancora cannibali, noi andiamo a mangiarli così imparano. Noi speriamo che, visto che permettiamo le moschee a casa nostra, un giorno ci siano chiese cristiane o non si bombardino i Buddha a casa loro. Questo se crediamo nella bontà dei nostri parametri.

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Molta è la confusione sotto il cielo. Di questi tempi avvengono cose molto curiose. Pare che difesa dei valori dell' Occidente sia diventata una bandiera della destra, mentre la sinistra è come al solito filo islamica. Ora, a parte il fatto che c' è una destra e c' è un cattolicesimo integrista decisamente terzomondista, filoarabo e via dicendo, non si tiene conto di un fenomeno storico che sta sotto gli occhi di tutti. La difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna in genere è stata sempre una caratteristica delle ali laiche e progressiste. Non solo, ma a una ideologia del progresso tecnologico e scientifico si sono richiamati tutti i regimi comunisti. Il Manifesto del 1848 si apre con un elogio spassionato dell' espansione borghese; Marx non dice che bisogna invertire la rotta e passare al modo di produzione asiatico, dice solo che questi di questi valori e di questi successi si debbono impadronire i proletari. Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso più nobile del termine), almeno a cominciare col rifiuto della rivoluzione francese, che si è opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si deve tornare ai valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si rifanno a una idea mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i musulmani a Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui anche molti che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a riti e miti dei popoli primitivi, o alla lezione buddista, proprio all'Islam, come fonte ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a ricordarci che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del progresso, e che la verità dobbiamo andarla a cercare tra i mistici Sufi o tra i dervisci danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro. Basta andare in una libreria e cercare negli scaffali giusti. In questo senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è solo segno che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di questi) nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle scuole, e non solo nelle conferenze stampa.

“la Repubblica”, 5 ottobre 2001

Marcello Catanelli ricorda Enzo Forini ("micropolis", luglio 2013)

Enzo Forini

Mi hanno colpito favorevolmente le tante parole pronunciate nella Sala del Commiato riferite al dottor Forini. Facevano riferimento ad un periodo lungo e significativo vissuto da Enzo nell'Università per Stranieri di Perugia, di cui ero a conoscenza, ma non in modo tale da apprezzarne fino in fondo il valore e l'originalità.
Invece non era il dottor Forini quello con cui facevo la guardia di notte sulle terrazze di Palazzo Manzoni durante l'occupazione della Facoltà di Lettere e Filosofia nel 1967, non era il dottor Forini a condividere con me ed altri la militanza nella “tendenza” trotzkista dentro la Fgci ed il Pci negli ultimi anni sessanta, non era il dottor Forini il dirigente del circolo Karl Marx in via Alessi e poi in via Bontempi, non era il dottor Forini il comunista che divideva con noi l'eresia de “Il manifesto”. Era il compagno Enzo Forini.
Così l'ho conosciuto, così l'ho frequentato e così lo ricordo. Una comunanza non priva di conflitti né di contraddizioni, perché Enzo era un leninista convinto, un assertore del primato dell'organizzazione di partito sulla spontaneità dei movimenti, della necessità di una avanguardia coesa e determinata. Non arrivava però a chiedere disciplina e fedeltà assolute, ma coerenza ed onestà intellettuale e di essere soprattutto compagni. Per questo era impossibile litigare con lui né tantomeno gestire una contrapposizione aperta e duratura, perché non la voleva né la cercava, non considerandola una variante possibile tra persone libere ed uguali. Al massimo la stemperava nella sua sottile ironia e la sdrammatizzava con poche e puntuali battute.
Io credo che ad allontanarlo dalla politica attiva, a parte il fatto che il suo lavoro nel Centro sociale dell'Università per stranieri è stato in piena continuità con il suo pensiero politico, sia stato non solo una valutazione molto critica della fase storica e delle possibilità e potenzialità di un altro mondo terreno, ma soprattutto il venir meno della fratellanza e della solidarietà tra compagni. Già l'uscita dal Pci era stata per lui uno strappo doloroso e credo che per lui siano state insopportabili tutte le altre scissioni e frantumazioni di cui è stata protagonista e vittima la sinistra comunista, non solo a livello nazionale ma anche e soprattutto a livello internazionale.
Anche perché la fratellanza tra compagni era per lui il presupposto se non la base dell'amicizia ed Enzo aveva e meritava di avere tanti amici.

Storia della lotta di classe. Un conflitto multiforme (Roberto Monicchia)


Da molti anni Domenico Losurdo è impegnato in una generosa e meritoria battaglia contro la straripante egemonia culturale della destra. A partire dall‘equiparazione tra marxismo e totalitarismo, e anche grazie alle abiure di molti intellettuali di sinistra, la rivoluzione conservatrice ha compiuto un lungo percorso di decostruzione reazionaria, per legittimare l'assolutismo liberista.
Questo percorso di critica dell'ideologia (già sperimentato, per citarne solo alcune, nelle opere su Hegel, Nietzsche, Stalin) continua con La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, Roma-Bari 2013). Negata e contrastata fin dall'apparizione nel Manifesto dei comunisti, la teoria della lotta di classe è stata interpretata e applicata in accezioni tanto diverse da poter fungere da chiave di lettura della vicenda del movimento operaio del XIX e XX secolo.
Losurdo si dedica in primo luogo a chiarire il significato e la portata del concetto così come viene elaborato da Marx ed Engels. Al centro del ragionamento vi è la concezione plurale della lotta di classe, che vale sia in senso storico che in senso attuale: il conflitto capitale-lavoro è solo una delle forme della lotta di classe, che non annulla altre contraddizioni tra le quali hanno particolare importanza la questione femminile e soprattutto quella nazionale. A differenza di Fourier e Proudhon prima e dei socialisti imperialisti alla Lassalle poi, Marx ed Engels riconoscono l'importanza e la legittimità della questione nazionale (la solidarietà con la causa irlandese e polacca è ricorrente) e coloniale (India e Cina). Molto significativa è la decisa presa di posizione per il nord “capitalista” nella guerra di secessione, che indica come obiettivo prioritario l'abolizione della schiavitù: la barbarie dello sfruttamento capitalista si riflette in quella coloniale; la liberazione del proletariato non è una questione economica, ma una “lotta per il riconoscimento”. La dinamica delle lotte di classe è integralmente storica, il che implica un possibile superamento della divisione in classi e l'universale riconoscimento della dignità dei popoli. In questo senso il marxismo nasce e si sviluppa in netta opposizione ad ogni determinismo, tanto quello di chi nega o attenua l'esistenza del conflitto (come nel giusnaturalismo e nel contrattualismo), quanto quello di chi, come Nietzsche, vede nella subordinazione un dato naturale e necessario. L'approdo a questa visione articolata e mobile non è però immediato né pacifica. Nel 1848, e di nuovo al tempo della Comune, Marx è propenso ad affermare una prospettiva rivoluzionaria unificata sull'asse del conflitto capitale-lavoro.
La molteplicità delle forme e manifestazioni, spesso contraddittorie, in cui si presenta la lotta di classe, acquisisce importanza decisiva nell'epoca aperta dalla rivoluzione sovietica, che a sua volta si sprigiona dalla grande guerra, evidenziando fin dal suo innesco l'intreccio tra questione nazionale e lotta operaia. Lenin è l'interprete più avvertito dell'età dell'imperialismo, di cui coglie la “doppia diseguaglianza” che attraversa il XX secolo: i paesi coloniali o comunque subordinati (come la Russia zarista), non possono realizzare l'emancipazione delle classi subalterne senza uscire dalla dipendenza economica e dall'isolamento politico internazionale. Fin da Brest-Litovsk il governo dei soviet sperimenta per primo il dilemma che tante tragiche scelte imporrà ai regimi postrivoluzionari del ‘900: come espropriare le vecchie classi dirigenti, reperendo contemporaneamente le risorse (in termini di capitali e conoscenze) per sviluppare le forze produttive necessarie a uscire dal sottosviluppo? Lenin affronta il problema con la Nep: bisogna riaprire all'iniziativa economica e al “know how” della borghesia, senza mettere in discussione il monopolio politico bolscevico, perché senza un'adeguata base materiale non è possibile alcuna forma di socialismo. Vista col criterio della doppia diseguaglianza (sociale e nazionale), lo spostamento verso “sud-est” delle lotte rivoluzione nel novecento non è la confutazione dell'ipotesi marxiana, piuttosto la conferma della natura multiforme e su più piani della lotta di classe. Il realismo “costruttivo” di Lenin è uno dei due poli attorno a cui oscilla il movimento operaio; all'opposto si manifesta a più riprese - come nel 1919-20 - l‘ipotesi di una “guerra civile mondiale” tra le due schiere omogenee della borghesia e del proletariato. Questa visione riduttivistica si accompagna spesso (in Urss e fuori) ad un'identificazione del socialismo con un egualitarismo assoluto, che porta a trascurare la varietà delle lotte o a considerare tradimento e sconfitta qualsiasi altra tendenza. Rientrano in questo schema quanti esaltano la miseria “condivisa” del comunismo di guerra contro la “restaurazione capitalistica” della Nep, come coloro che svalutano la lotta dell'Urss al nazismo perché macchiata da un carattere patriottico. In questo modo si manca la comprensione dell'importanza storica del movimento anticoloniale; del resto il progetto nazista, che proietta in Europa il colonialismo, evidenzia come il capitalismo imperialista si fondi contemporaneamente sull'oppressione di classe quanto su quella nazionale e razziale.
Nella parabola della rivoluzione cinese è contenuto l'intero spettro dei modi di intendere e condurre la lotta di classe. La peculiare esperienza dell'esercito popolare maoista ha al centro la necessità di superare insieme l'oppressione di classe e la dipendenza economica, riconoscendo la funzione progressiva dell'alleanza con la borghesia nazionale in funzione antimperialista. Queste caratteristiche, oscurate da svolte estremiste e catastrofici scacchi, riemergono pienamente con la svolta di Deng, che si rifà ripetutamente all'esperienza della Nep. Precipitosamente liquidata da sinistra come “restaurazione capitalistica”, la strepitosa crescita cinese va invece considerata come l'esperienza più avanzata di uscita dalla “doppia diseguaglianza”. Confermano questa lettura, del resto, gli esiti politici ed economici opposti della crisi del 1989 per Cina e Urss. La catastrofe sociale e nazionale della Russia postsovietica mostra le similitudini tra quest'epoca e la restaurazione del 1815. Sul piano ideologico il crollo di regimi politici oppressivi e decrepiti diviene discredito di ogni ipotesi di cambiamento, ennesima riproposizione dell‘estinzione della lotta di classe, e insieme rilegittimazione della superiorità occidentale (colonialismo incluso); al modello unico liberale corrisponde sul piano politico il lancio di un progetto globale unipolare. Ma come la restaurazione postnapoleonica chiuse solo momentaneamente l'età delle rivoluzioni, così in pochi anni “superimperialismo” Usa e “fine della storia” sono falliti miseramente. Il paradigma della lotta di classe resta il più adatto a comprendere la storia mondiale. Del tutto di là da venire è invece la possibilità che i diversi conflitti attuali trovino una qualche sintesi, almeno sul breve periodo.

“micropolis”, giugno 2013

Sessantotto. La “scuola di Budapest” e l'utopia materializzata (Ágnes Heller)


Da un libro intervista ad Ágnes Heller, la celebre filosofa tedesca, curato da Laura Boella e Amedeo Vigorelli e uscito nel 1979 per Savelli riprendo, saltando le domande, un ampio stralcio del secondo capitolo intitolato Verso il '68. (S.L.L.)


Degli anni Sessanta in generale non parlerei in relazione all'Ungheria. Fino alla fine del 1964 siamo vissuti nel buio tunnel della disperazione. Vi furono qua e là accenni di risveglio: nel 1964 ebbe luogo una discussione sulla estraneazione, dove molti partecipanti parlarono della estraneazione in Ungheria. Detto per inciso: a causa di questa discussione fummo (mio marito Ferenc Fehér e io) interrogati dalla polizia segreta, naturalmente «del tutto indipendentemente» da essa, poiché «da noi le discussioni sono libere occasioni scientifiche», bensì a causa di un’agitazione ostile allo Stato «avvenuta altrove». L’atmosfera cominciò a migliorare nel 1965: in quell’anno ebbe inizio la preparazione della riforma economica, che fu introdotta ufficialmente nel gennaio 1968. Tuttavia per noi il periodo di riforma si concluse nell’agosto dello stesso anno.
Ho detto «noi», e vorrei precisarlo meglio. All’inizio degli anni Sessanta si era formato un circolo di amici che Lukàcs più tardi ha denominato «Scuola di Budapest». La nostra amicizia era di carattere personale e teoretico. Tutte le nostre idee venivano discusse in questo circolo di amici. Ci leggevamo reciprocamente i manoscritti e li criticavamo; in questa atmosfera era già realizzata la «comunicazione libera dal dominio». Nessun’idea era «proprietà privata», tutto era patrimonio comune. È impossibile dire da quale membro del gruppo derivasse una nuova problematica. La diversità dei caratteri — anche sotto il profilo teorico — si rivelò feconda: in questo modo si potevano infatti controbilanciare le reciproche debolezze. Se qui di seguito uso il plurale, penso alle aspirazioni e atteggiamenti comuni che caratterizzavano questa comunità liberamente scelta.
È difficile rispondere alla domanda se gli anni tra il 1965 e il 1968 abbiano prodotto oppure no un «approfondimento». Sotto un certo aspetto se ne può parlare, considerando cioè unicamente le posizioni filosofiche. Allora iniziammo l’elaborazione di una fi­losofia « positiva », fondandoci su una nuova ricezio­ne di Marx. Ci ricollegavamo così a un movimento mondiale: era l’epoca della rinascita del marxismo, in­teso come teoria pluralistica. Questo periodo tuttavia produsse anche nuove illusioni: partecipammo infatti attivamente — sia pur con atteggiamento critico — al movimento riformatore. Il nostro obiettivo era di tra­sformare la riforma economica in riforma sociale. Per sostenere alcune tendenze di questo movimento, e non ritirarci scetticamente nella sfera privata, era per noi indispensabile condividere anche la speranza che una trasformazione sociale mediante le riforme — con la partecipazione dell’intera popolazione — fosse possi­bile. L’insegnamento del 1956 era ormai svanito, la nuova situazione del mondo (la fine della guerra fred­da) veniva enormemente sopravvalutata.
Nel 1956 sapevo bene che nessun Paese dipenden­te dall’Unione Sovietica si sarebbe potuto riformare da solo, ma ora sembravo averlo dimenticato. L’inter­vento dell’armata sovietica in Cecoslovacchia pose ter­mine definitivamente a queste illusioni. Perciò a par­tire dalla metà degli anni Settanta, il nuovo liberali­smo ungherese non ci poteva più incantare: conosce­vamo i limiti del regime. Il « buon sovrano » può ar­rivare quasi fino al limite, ma non potrebbe superarlo nemmeno se lo volesse (e certo non lo vuole).
L’incontro con i filosofi iugoslavi della scuola esti­va di Korgula avvenne proprio in questo periodo di riforma. Per quanto mi riguarda, ho partecipato tre volte alle sessioni: nel 1965, nel 1967 e nel 1968.
Prima di parlare del significato storico della scuo­la estiva e della rivista «Praxis», vorrei dire qual­cosa di personale: sono stata sempre (e lo sono an­cora) profondamente influenzata dalla dignità umana, dal disinteresse, dalla sincerità e onestà dei miei com­pagni iugoslavi. Essi hanno subordinato tutti i loro fini e aspirazioni personali — spesso anche scientifiche — alla causa comune. La loro solidarietà (fatte rare eccezioni) si manteneva anche in presenza di un disaccordo teorico o pratico, e si rivolgeva verso tutti i marxisti di opposizione dell’intero mondo orientale. Non solo ci hanno «capiti», ma hanno anche condiviso le nostre pene, sono stati di esempio, non solo in quanto ideologi, ma soprattutto come uomini socialisti. E poiché il socialismo significa anche una nuova forma di vita, questa loro testimonianza umana era altrettanto importante di quella ideologica, se non persino di più.
Parlando del periodo di «rinascita del marxismo», dobbiamo ricordare la scuola estiva di Korgula e la rivista «Praxis», che di questa rinascita furono le istituzioni. Korcula e «Praxis» crearono infatti la base di opinione (Oeffentlichkeit) intorno a cui si svolgevano le discussioni, si incontravano e si confrontavano le diverse varietà del nuovo marxismo. In queste istituzioni il nuovo marxismo divenne internazionale. Ed esse furono le sole a svolgere questa funzione storica.
Le sessioni della scuola estiva erano caratterizzate da questa tendenza comune, sebbene fossero molto diverse. Il movimento giovanile radicale nel 1965 non le influenzava ancora: d’altra parte nemmeno esisteva. Nel 1968 — nei giorni precedenti l’intervento — proprio questa rivolta era però al centro delle discussioni. Se si confrontano i due interventi di Marcuse alla scuola estiva — la discussione con Serge Mallet del 1965 e il suo patetico discorso del 1968 — questa differenza balza subito all’occhio.
Korcula ci offrì la possibilità di incontrarci con numerose personalità rappresentative del vecchio e nuovo marxismo. Ovviamente non tutte mi erano simpatiche allo stesso modo. Ricordo soltanto i due che non potrò più incontrare e che mi hanno profondamente colpita per il loro carattere umano: Ernst Bloch e Lucien Goldmann. Li conoscevo già dai loro scritti, e in particolare avevo già conosciuto Bloch a Berlino. Il vecchio raccontava per lo più storielle. Da lui ho risentito quasi tutti gli aneddoti che avevo già ascoltato da Lukàcs. Tuttavia: duo si faciunt idem, non est idem. Fu una rivelazione per me il modo in cui Bloch univa nella sua natura il momento scherzoso e quello patetico. Dopo l’intervento, quando noi tutti eravamo disperati, lui solo conservò l’ottimismo. Quando io gli parlai delle mie speranze perdute, egli batté adirato sul tavolo: «Persino questo tavolo può diventare un coccodrillo! Dovete crederci, dovete credere a me, che sono vecchio!» Io non ci credetti, ma fui colpita.
L’incontro con Lucien Goldmann, questo epicureo intimamente lacerato, fu per me molto importante anche dal punto di vista teoretico. Ci incontrammo non solo a Korcula, ma anche alla conferenza di Royamont (gennaio 1968), dove conobbi Adorno. Con Lucien mi trovai impegnata in accese discussioni sulla estetica del giovane Lukàcs. Mi accadde lo stesso che nelle conversazioni con Kolakowski. Dopo aver difeso fino in fondo il mio punto di vista, una volta tornata a casa capii che le mie posizioni erano deboli e che Lucien aveva avuto ragione contro di me nei punti essenziali. Attraverso di lui, riscoprii L’anima e le forme e Teoria del romanzo.
Tornando al gruppo di «Praxis»: furono i primi (come avete ricordato) ad aver reintrodotto Storia e coscienza di classe nel marxismo vivente. Fu un grande merito teoretico. Ma, per quanto mi riguarda, devo ammettere che questa scoperta non ha influenzato profondamente il mio pensiero. Ovviamente per me (come credo per noi tutti) Storia e coscienza di classe rappresenta il grande capolavoro filosofico di Lukàcs, nonché una delle opere più importanti del XX secolo. Sono tuttavia arrivata tardi a questo libro: dopo il 1956. Prima, quando condividevo la parola d’ordine lukacsiana del «tornare a Lenin», l’opera mi avrebbe sicuramente molto influenzata. Mentre dopo il ’56 io avevo ormai chiuso i conti — sia pur gradualmente, ma sostanzialmente — con Lenin. Per quanto avessi imparato da questo libro, per quante idee ne avessi tratte, non potevo più accettarne la concezione di fondo: era troppo leninista per me. Sotto questo profilo le mie esperienze « Est-europee » avevano inciso troppo.
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Pur non avendovi potuto assistere direttamente (conobbi tuttavia personalmente a Budapest Rudi Dutschke e altri membri dell’SDS in occasione della loro visita a Lukàcs) nel 1968 condivisi in pieno i movimenti studenteschi americano e francese, la rivolta giovanile e lo sciopero generale in Francia. Era proprio il movimento che aspettavo, per dirla in termini un po’ egocentrici: fu la conferma dei miei ideali e aspirazioni teoriche. Allora avevo terminato il libro sulla vita quotidiana, ed ero giunta alla conclusione che presupposto di un’autentica società socialista avrebbe dovuto essere la trasformazione delle ferme di vita, la creazione di nuove comunità. E proprio allora ci fu un movimento di estensione mondiale che incarnava le stesse aspirazioni. Quei giovani si accingevano a realizzare nuove forme di vita. Erano l’utopia «materializzata». Lo slogan della rivolta francese: «siamo realisti, tentiamo l’impossibile» mi commosse fino alle lacrime. Finalmente si trattava dell’espressione non più di una dialettica negativa, bensì positiva. I movimenti di rivolta non si limitarono ad articolare la negazione totale del mondo dell’oppressione, della gerarchia, dell’egoismo e dell’individualismo, bensì costituirono l’ideale del nuovo: un futuro degno dell’uomo. Non ero certo d’accordo con tutto ciò che avveniva in questo o in quel movimento giovanile (soprattutto sul movimento studentesco tedesco avevo serie riserve), ciò nonostante nell’insieme lo ritenevo un inconfutabile segno dell’emergere di un nuovo concetto e di una nuova prassi della rivoluzione, che non si doveva più identificare con l’accezione politico-giacobina nel senso stretto della parola, ma doveva intendersi piuttosto come rivoluzione della società civile, delle forme di vita. Ancora oggi sono di questo parere. Il riflusso di questi movimenti non ha mai significato per me la fine di queste aspirazioni, dal momento che non ho mai creduto che il mondo si possa trasformare da un momento all’altro. È possibile introdurre da un giorno all’altro delle riforme, anche le rivoluzioni politiche esplodono spesso improvvisamente, ma la totale trasformazione rivoluzionaria delle forme di vita può essere immaginata solo come un processo di lunga durata, al quale ineriscono ovviamente momenti di riflusso.
Quando prima dicevo che questo movimento mi sembrava la conferma delle mie aspirazioni, non volevo negare il profondo influsso che esso a sua volta avrebbe esercitato sul mio successivo sviluppo teorico.
Compresi infatti che i conflitti che qui si rappresentavano ed esprimevano non si potevano definire «puri» conflitti di interesse. Questi movimenti mi mostrarono la necessità di differenziare interessi e bisogni; aveva così inizio l’intera teoria dei bisogni, grazie ai movimenti del 1968.
Il 1968 (fino all’agosto) fu veramente l’anno dell’ottimismo. Tutto era in movimento, all’Est come all’Ovest. Mi appariva una possibilità reale la prospettiva di un’Europa unitaria, la diffusione di un socialismo democratico. Come ho già detto, quest’ottimismo si fondava ancora una volta su illusioni: per me era quasi inconcepibile l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Davo per scontato che in tali circostanze internazionali la riforma economica appena lanciata in Ungheria fosse solo un inizio, che avrebbe portato a una trasformazione sociale del sistema.
L’agosto 1968 segnò la fine delle nostre illusioni e aspirazioni riformistiche, benché in Ungheria non si notassero reazioni violente all’avvenimento. Neppure la stampa subì immediatamente delle censure. I giovani di oggi si stupiscono leggendo le riviste di allora: era ancora permesso tutto ciò che in seguito non lo sarebbe mai più stato, neppure dopo il 1975. Anche la repressione contro di noi fu relativamente mite. A causa della protesta contro l’intervento i nostri passaporti furono confiscati per un anno (nel mio caso per due). Hegedűs fu licenziato dal posto di direttore dell’Istituto di sociologia. Contemporaneamente fu licenziato dal posto di direttore dell’Istituto di filosofia anche Jozsef Szigéti, agente diretto dell’Unione Sovietica, la cui posizione e attività «filosofica» da anni consisteva nella delazione. In Ungheria si ritornò alla mano forte soltanto nel 1972.

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