28.6.10

La poesia del lunedì. Torquato Tasso.


Tacciono i boschi e i fiumi
e 'l mar senza onda giace;
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna;
e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose:
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.

27.6.10

"Ricordo la Sicilia". Una poesia di Ibn Hamdìs.


Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell'anima il ricordo.
Un luogo di giovanili follìe ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni.
Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia?
Se non fosse l'amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso.
-
Nota
Ibn Hamdìs, siracusano o della Val di Noto, lasciò la Sicilia da giovane, nei primi tempi della conquista normanna e non vi fece più ritorno. Trascorse la vita tra la Spagna e il Maghreb, morì nel 1133 a Maiorca. La poesia è ricavata dalla Storia della letteratura araba di Francesco Gabrieli ed al grande arabista si deve anche la traduzione.

In difesa di Flavio Briatore. Pietro Laffranco, l'extraterritoriale.

Ripropongo il mio breve articolo su Pietro Laffranco pubblicato su "micropolis" di oggi (27 giugno 2010) nella rubrica redazionale "il fatto".

L’extraterritoriale

Il “giovane” Luciano Laffranco, oggi un po’ imbolsito, non ha mai brillato per sagacia e deve probabilmente la sua carriera al padre defunto, Luciano, che fu dirigente nazionale del Fuan ed ebbe tra i suoi camerati ad allievi Fini, La Russa, Gasparri, Alemanno… Il Laffranco giovane, tuttavia, pare sia abile nella scelta della cordata cui aggregarsi per facilitarsi la carriera: così nelle più recenti contese ha abbandonato il suo storico protettore Fini per schierarsi senza complessi coi postfascisti più legati a Berlusconi e adeguarsi allo stile del Cav che ha come corollario il lusso senza risparmio e la festevolezza un tantino orgiastica allietata da veline, ballerine ed escort. Deputato al Parlamento per il collegio dell’Umbria, Laffranco dovrebbe, svolgendo il suo sindacato ispettivo, riservare un’attenzione speciale al territorio, ove peraltro, anche per via della crisi, fatti su cui interrogare e interpellare il governo ce ne sarebbero a iosa (la Merloni, tanto per fare un esempio), ma, per personale sensibilità o per scelta di classe, preferisce l’extraterritorialità.

A Flavio Briatore, celebre Team-manager di Formula 1 e proprietario del Millionaire, è stato di recente sequestrato dalla Guardia di Finanza il megayacht Force blue, che batte bandiera extracomunitaria. Pare che abbia evaso tasse per quattro milioni di euro. Dicono le cronache che, non essendo pronta la nuova sontuosa villa di Montecarlo, Briatore, la moglie ex velina e il piccolo Nathan Falco, siano stati costretti a trasferirsi nella suite di un grande albergo e che l’uomo se ne sia lagnato: “Il sequestro si poteva evitare senza forzare una madre e un bambino di due mesi a lasciare bruscamente l'imbarcazione”. La moglie Gregoraci, dal canto suo, ha accentuato i toni drammatici: “Il bimbo piange e non riesce a dormire”.

Laffranco non si è fatto pregare. L’8 giugno ha presentato un’interrogazione a risposta scritta ai ministri delle finanze e del turismo e, sposando in pieno le tesi di Briatore, ha denunciato il sequestro, “operato con modalità tali da cagionare, ad avviso dell'interrogante inutilmente grave ed ingiustificato nocumento al sig. Briatore ed alla sua famiglia”, “il grande dispiego di uomini e mezzi” e “la messa a disposizione di reti televisive del filmato della Guardia di Finanza sull'azione in mare”. Ha aggiunto che l’iniziativa può scoraggiare i “turisti di élite” e ha chiesto la restituzione del natante. Grande interpellanza, nella scia di Cetto La Qualunque!

Via Tomacelli 146 (di Rina Gagliardi).

Una foto collettiva al manifesto
Rina Gagliardi è in prima fila in piedi, la terza da sinistra

Rina Gagliardi, giornalista, italianista, senatrice, fu soprattutto una compagna del manifesto, legata a quella storia e a quella scuola. Per ricordarla propongo la rievocazione dei primordi del giornale, che Rina pubblicò su uno degli inserti del ventennale, il n.6. Non c'è indicazione di data, ma siamo nell'aprile del 1991 (S.L.L.)

Come eravamo.

Pochi e poveri, ma belli

Il manifesto del 71, per chi l’ha vissuto, ha questa immagine “produttiva” antica, quasi ottocentesca. popolata di oggetti che non esistono più (salvo qualche ingombrante “lettera 88” che sopravvive nell’uso degli aristocratici irriducibili, come Pintor e Parlato). Suggestiva come un film in bianco e nero: E commovente, come sempre capita alla giovinezza. Umanamente parlando, il giornale dei primi anni era un microcosmo a “conduzione familiare”, tutto concentrato nella sede di via Tomacelli 146, che appariva ampia e accogliente con i suoi pavimenti in marmo “screziato” e un arredo “rimediato” di scrivanie e sedie vecchiotte. Eravamo pochi: 17 redattori di cui la metà principianti sui 23724 anni, e quasi altrettanti tra amministrazione, diffusione, centralino eccetera (totale del costo della voce stipendi nel 1971: 6 milioni al mese). Ed erano tante le donne: al “vertice”, dove insieme a Rossanda e Castellina, era di casa Lidia Menapace; in redazione; nei servizi generali (l’archivio, per esempio, erano “Silvana e Mariuccia”, quest’ultima destinata a diventare poi caposervizio spettacoli); e naturalmente nei servizi tecnici – dove spiccavano figure come Giovanna Falli (sette figli, una vita difficilissima alle spalle e un’inesauribile carica vitale), Elisabetta castellani (che, per scelta politica, decise di lavorare alla spedizione), Pina Casadei (che poi fu a lungo centralinista.

Direttore era Luigi Pintor, già allora prestigioso giornalista (e deputato) che cercava (invano? ma no) di insegnare il mestiere a riottosi sessantottini. Nell’aneddotica del primo manifesto è rimasto un episodio detto del ta-tse-bao: stufo di assistere a quotidiane sciatterie (del genere: fughe di massa “per andare alla riunione a Pomponazzi”, sede storica del Manifesto romano, prima che il quotidiano fosse chiuso, oppure articoli mandati in tipografia senza correzioni, o titoli, o data), Pintor distribuì un “ordine di servizio” in dieci punti, nel quale venivano specificati criteri piuttosto elementari di lavoro e di comportamento. La reazione dei "giovani” fu quella di appendere davanti all’ingresso un manifesto intitolato Pintor come Agnelli – seguivano rivendicazioni parafrasate dalla lotta di fabbrica di quegli anni, quali “autoriduzione dei ritmi” e “salto della riga”. Per le nuove leve non fu una gran figura. Ma fu, forse, il primo vero scontro generazionale.

I "vecchi”, allora, avevano, salvo eccezioni, quaranta-quarantacinque anni. Rossana Rossanda e Aldo Natoli furono a lungo redattori “semplici” della sezione esteri, retta da Luca Trevisani – un altro giornalista di razza che ha insegnato a tutti l’uso intelligente delle notizie di agenzia e la consultazione del Keesings.

Luciana Castellina, dall’abbagliante bellezza che mandava in tilt i tipografi, era il primo caposervizio della sezione sindacale, poi inviata speciale in Italia e all’estero (in una mattinate del 1972, mentre erano in corso le Olimpiadi di Monaco, arrivò il primo flash d’agenzia sui cinque atleti israeliani uccisi da un commando palestinese – alle tre e mezza del pomeriggio lei dettava da Monaco il servizio!). Valentino Parlato, di aspetto pressoché identico ad oggi (solo qualche capello in più), dirigeva l’economia e girava per l’Italia. Ma era anche un animale di redazione: “passava” i pezzi con ossessiva pignoleria, poi scriveva velocissimo, e sempre all’ultimo minuto. Nella stanza centrale di via Tomacelli regnava Michele Melillo, redattore capo unico, vero cuore e motore del giornale e delle sue quattro pagine. Non perdeva mai i nervi, al contrario di (quasi) tutti gli altri, e risolveva, con “sano e pazienta” spirito di mediazione, tutti i problemi – dall’impaginazione titolazione alle risse interne. All’estrema sinistra dominavano altri due personaggi chiave: Giuseppe Crippa, proveniente da Bergamo, amministratore unico, e Filippo Maone, proveniente da Napoli, prima capo-diffusione, poi manager e public-relations man. Erano gli uomini che reggevano l’azienda e le sue scarne strutture – sempre in economia di guerra.

Si cominciava a lavorare presto, nel ’71 – alle nove o giù di lì. Il giornale prima della teletrasmissione chiudeva alle 18 (o giù di lì). Non esistevano le “corte” e anche le vacanze erano scarse – come gli stipendi. La riunione di redazione, annunciata da uno storico campanello era intorno alle 10 e mezza/undici – poi un panino, e via, “al lavoro”. più che di scrivere si trattava di scegliere tra le decine di pezzi che arrivavano dei “Centri del Manifesto”, tagliarli, corregerli, spesso riscriverli – sempre tra mille proteste. Ma è difficile, forse è impossibile spiegare oggi cos’era un giornale politico “militante” (chissà perché, questa è diventata una brutta parola), legato, non armonicamente, a un partito, sommerso dalle notizie e dalle pressioni del “movimento”. E spesso entusiasta, talora infantile, sempre “imperfettamente” organizzato, un giornale “zingaresco”, diceva Aldo Natoli.

L'onorevole Cassinelli e l'inno di Mameli. L'articolo della domenica.


Il deputato ligure del Pdl Roberto Cassinelli ama appassionatamente l’inno di Mameli. Il 7 marzo scorso ha presentato un progetto di legge nella cui relazione così si può leggere: “L’«Inno di Mameli» rappresenta una delle manifestazioni artistiche più alte dello spirito patriottico di unità nazionale ed è l'opera che ha spronato, unito e sostenuto i nostri Padri a fare l'Italia. Esso fu un importante strumento di propaganda degli ideali del Risorgimento e di incitamento all'insurrezione, contribuendo in maniera significativa alla svolta storica che portò all'emanazione dello Statuto albertino e all'impegno del Re nel rischioso progetto di riunificazione nazionale. L'inno nazionale esprime l'anima, il carattere di una Nazione e ascoltare le sue note durante celebrazioni solenni e le manifestazioni internazionali rappresenta un momento di profonda commozione e coesione”.
L’amore – è noto – fa stravedere. A me, ma non solo a me, l’inno in oggetto non sembra affatto un’alta manifestazione artistica. Scritto da un giovanissimo genovese imbevuto d’amor patrio e di patriottarda retorica in alcuni suoi passaggi fa persino sorridere, come in quell’iniziale dialoghetto da negozio di parrucchiera: “Dov’è la Vittoria? le porga la chioma”. Il ragazzo Mameli, che morì combattendo con coraggio per la Roma repubblicana contro i francesi e i papalini e che scrisse qualche altra, più fresca, poesia, merita il nostro ammirato ricordo; ma Fratelli d’Italia, con il suo lessico improbabile e la sovraeccitazione che esibisce, non vale granché. E la stessa scelta che fu fatta nel 1946 per sostituire la Marcia reale (“Viva il re, viva il re, viva il re, le trombe liete squillano”) - come ha raccontato Mario Isneghi in Le guerre degli Italiani (1848-1945) - è dovuta più alla mancanza di alternative che ai meriti intrinseci del testo di Mameli o della musica di Novaro (già un po’ migliore).
Dopo il 2 giugno 1946 e la proclamazione della Repubblica c’era tutto un moderatismo conservativo che tentava di frenare il vento di rinnovamento. Si era messo fuori legge il fascismo, si era allontanata la dinastia savoiarda, ma non si voleva fare una più radicale operazione chirurgica contro tutto l’armamentario ideologico che aveva nutrito l’Italia monarchica e perciò come inno non si poteva scegliere Bella ciao. Così, mentre i padri costituenti davano vita a una carta nel complesso molto avanzata, chi sceglieva l’inno “provvisorio” (ma, come si suol dire, “in Italia nulla è così definitivo come il provvisorio”), cioè il governo De Gasperi, i generali, i prefetti, lo faceva guardando indietro. Paradossalmente l’Italia antifascista si trovava a riproporre “l’elmo di Scipio” chiamato a cingerne la testa, mentre la Vittoria rimaneva “schiava di Roma” anche dopo l’8 settembre. E poi la coorte, la morte e, nelle strofe meno conosciute, dell’inno, perfino “i bimbi d’Italia (che) si chiaman Balilla”.
Ma pretendere senso critico e storico da uno come Cassinelli, per di più abbrutito dal ruolo di deputato nell’era di Berlusconi, sarebbe stato troppo. A lui l’inno piace da morire. Per questo progetta una legge onde “promuovere tra i nostri studenti, nella maniera più diretta possibile, la conoscenza del loro Inno nazionale”. Così recita l’articolo 1 della sua proposta : “Ferme restando le forme di autonomia scolastica previste dalla normativa vigente, con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca sono definite le modalità per l'affissione in ogni classe degli istituti scolastici della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado di un pannello con i colori del tricolore italiano con stampato il testo dell'inno «Il Canto degli italiani» di Goffredo Mameli”. Non si capisce se, “ferme restando le forme di autonomia”, le scuole possano rifiutare l’affissione (penso che la Lega ci costruirebbe su una campagna, “Schiavi di Roma mai”). Il Cassinelli, come è giusto fare in questi casi, ha pensato anche alla copertura della spesa che ha valutato in un milione di Euro. Ecco come : “All'onere derivante dall'attuazione della presente legge, pari a un milione di euro per l'anno 2011, si provvede mediante corrispondente riduzione dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 39-ter, comma 2, del decreto-legge 1o ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222”.
Le leggi, si sa, sono scritte in modo che nessuno le capisca, ma oggi, quando il cittadino testardo vuol capire, la rete un po’ l’aiuta. Così, per sapere donde il deputato voglia prendere i quattrini per i pannelli, abbiamo riguardato il decreto-legge in questione (è uno di quei testi omnibus collegati alla Legge finanziaria del governo Prodi). L’articolo 39-ter è intitolato Misure per il miglioramento dell'efficienza energetica e per la riduzione delle emissioni ambientali di autovetture da noleggio e autoambulanze. Il comma 2 prevede di destinare, a partire dal 2008, 24 milioni l’anno per dotare i taxi e, a Venezia e simili, i vaporetti di scarichi meno inquinanti. Insomma, se passasse la proposta Cassinelli, avremmo un po’ di inquinamento in più nelle città, e tanti bei pannelli nelle aule scolastiche.
Il deputato Pdl, nell’esaltare l’inno di Mameli e la sua potenza salvifica, non s’è risparmiato uno sfondone. A Messina la Siae aveva chiesto mille euro per un concerto in cui si era eseguita la musica di Novaro; Cassinelli ha detto: “L’Inno di Mameli è di tutti gli Italiani: pagare per ascoltarlo sarebbe un oltraggio ai sentimenti patriottici”. Ma la Siae lo ha sputtanato: sono decenni che Fratelli d’Italia non paga diritti, dato che sono trascorsi più di settant’anni dalla morte degli autori. I mille euro erano per gli altri brani eseguiti in quell’occasione.
Post scripum
Questo articoletto può sembrare dissacrante, ma è solo sincero. Conosco l’impegno eroico del presidente Ciampi e del presidente Napolitano in difesa dell’inno nazionale e, benché la cosa non abbia sortito alcun effetto contro il separatismo nordista, sono disposto a cantarlo tutte le volte che è richiesto. Ma nel cantarlo un po’ di senso storico, di senso critico e di ironia non guasterebbe, specie nei giovani. Questo la scuola dovrebbe alimentare, non la produzione di ridicoli pannelli. Tra l’altro si eviterebbe il ridicolo di certi calciatori che cantano con grinta e cattiveria “siam pronti alla morte” e poi meritatamente e ignominiosamente le buscano perchè brocchi e svogliati.
Appendice
Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.


-
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.


-
Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.


-
Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.


-
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte

L'Italia chiamò

Musatti spiega la psicanalisi. Freud e l'ebraismo.

Dall’intervista a Cesare Musatti condotta da Paolo Guzzanti su Duemila-psicanalisi, il supplemento diffuso con il quotidiano “la Repubblica” il 17 dicembre 1986 propongo qui un brano su Freud e il suo rapporto con l’ebraismo.
“Il mondo di Freud è morto, ma le cose che ha pensato lui no, quelle funzionano. Ma era proprio un altro mondo. Le faccio un esempio: sono andato a Trieste, a un convegno sul witz, sulla battuta di spirito che Freud aveva studiato. Per prepararmi ho riletto le barzelletta che Freud esaminava ed ho scoperto che erano tutte barzellette ebraiche, storielle yddish polacche o galiziane degli ebrei askenaziti e sa di che cosa mi sono reso conto? Che quelle barzellette facevano ridere soltanto all’interno della comunità cui si riferivano, perché erano costruite tutte su situazioni in cui chi raccontava la barzelletta, ebreo anche lui, metteva subito in rilievo le caratteristiche negative degli ebrei: in questo modo impediva all’altro di aggredirlo e allo stesso tempo faceva vedere di essere un tipo superiore”.
Freud sentiva molto l’identità ebraica?
“Sentiva l’angoscia della situazione. Una volta raccontò di aver sentito suo padre che raccontava di essere stato aggredito e insultato perché ebreo. E che i suoi assalitori gli avevano strappato il berretto dalla testa e lo avevano calpestato. Allora Freud chiese al padre: e tu che hai fatto? E il padre rispose: niente, figlio mio, ho raccolto il berretto da terra, l’ho spolverato e me lo sono rimesso in testa. Freud era furente per questa prova di passività, di sottomissione del padre, credo che la furia accumulata da Freud fu la stessa accumulata da ogni ebreo. E fu quella furia che armò per la prima volta gli ebrei nel ghetto di Varsavia e da quell’esplosione di aggressività, da quella prova della possibilità di reagire, io credo che sia nata tutta l’aggressività israeliana. La costrizione dei secoli è esplosa.
Pensa che sia molto importante il fatto che la psicanalisi sia stata inventata da un medico ebreo come Freud?
“Direi che non è affatto un caso che i tre più grandi rivoluzionari della misura umana nell’età moderna, Marx, Freud ed Einstein, fossero ebrei. C’è un filo che li lega: tutti e tra avevano la capacità di capovolgere il senso corrente delle cose e vedere ciò che le cose stesse nascondono sotto di sé. Ora, lei capisce che il solo fatto di prendere il mondo, con le sue buone regole consolidate, e rovesciarle come un calzino, sia dal punto di vista fisico, che sociologico o psicologico, è un modo di fare che provoca grossi turbamenti nel borghese normale, il quale ama la stabilità e trova molto preoccupante la rivoluzione.

26.6.10

L'imam terrorista e il senatore mafioso.(S:L.L.)

L'articolo è apparso su micropolis on line (http://www.micropolis-segnocritico.it/mensile/?p=1648)

Su “7News Perugia”, uno di quei quotidiani gratuiti diffusi sulle scale mobili, sui treni e sul minimetrò, di oggi, 24 giugno, si può leggere in prima pagina il seguente titolo, corredato da foto: L’imam terrorista punta adesso sul nuovo processo. Già lì si spiega che si tratta di El Korchi, l’imam di Ponte Felcino, il resto è a pagina 8. L’avevano arrestato nel luglio 2007, trovando nella sua abitazione materiali scaricati da siti riferibili all’estremismo islamico e alcune bottigliette di potassio nitrato e di ammonio nitrato, comperate in un negozio di prodotti per l’agricoltura, ma, a quanto pare, utilizzabili per la costruzione di rudimentali ordigni.
Secondo l’accusa l’imam, insieme a due complici, avrebbe usato la moschea per l’addestramento sia spirituale che tecnico di militanti della Jihad intenzionati a combattere in Iraq o in Afghanistan. In primo grado El Korchi, che si è sempre proclamato innocente, è stato condannato a 6 anni non “per terrorismo”, ma per essersi associato con altri “al fine di addestrare persone disposte a compiere atti di terrorismo”. Domani comincia l’appello.
Fin qui la sintesi della notizia divulgata dal giornalino diretto da Silvano Marini, dalla cui lettura a me è nato più di un dubbio sulla colpevolezza del giovane. Ma non ho seguito il processo; e non escludo che il Pm che ha chiesto e il giudice che ha emesso la condanna abbiano in mano qualcosa di più che alcune bottigliette e alcune paginette ricavate da Internet.
Non voglio comunque fare il difensore d’ufficio: non sono avvocato e, a quanto pare, l’imam può pagarsi un difensore di fiducia. Una cosa in ogni caso mi lascia sconcertato: quel titolo che mette in non cale qualunque presunzione d’innocenza, reso possibile dal razzismo e dal classismo dilaganti. I poveri e gl’immigrati sono spesso considerati colpevoli anche senza processo: figurarsi quando uno è povero, immigrato ed è stato condannato in prima battuta. Un’altra cosa ancora di più m’indigna: il fatto che questa sia una vigliaccata doppiopesista. Nessun Silvano Marini, di nessun giornaletto a proposito di Marcello Dell’Utri, già condannato in prima istanza per concorso esterno in associazione mafiosa, titolerebbe così: Il senatore mafioso spera nell’appello.

Musatti racconta. L'angoscia.

Al supplemento de "la Repubblica" del novembre 1986, Duemila - psicanalisi, fungeva da apertura una lunga intervista di Paolo Guzzanti a Cesare Musatti. Aveva come titolo L'anima degli italiani non è più quella di un tempo, molto simile a quello di un recente libro del mancato cardinale Paglia. Ma - a mio avviso - le cose che Musatti, novantenne, diceva al suo intervistatore avevano molto più spessore. Propongo qui un frammento narrativo. Dallo stesso inserto un altro brano su Freud si trova in

http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/06/musatti-spiega-la-psicanalisi-freud-e.html (S.L.L.).

Una volta il professor Fornari mi chiese: “Musatti, mi spieghi lei una cosa, l’angoscia esattamente cos’è? che cosa vuol dire avere l’angoscia dentro di sé?”. Io lo guardai e gli dissi: “Dio mio, ma davvero lei non l’ha mai provata? E lui: “No, mai”. Io restai di sale: come potevo spiegare a uno che non l’ha mai provata che cos’è l’angoscia? Ma, più ancora, come può uno che non ha mai avuto un attacco d’angoscia entrare in sintonia col suo paziente? Vede qual è la specificità della psicanalisi? Un ortopedico non ha bisogno di rompersi una gamba per sapere com’è fatta e come si cura una frattura.

I furbi e i fessi. L'etica mafiosa di Sallusti e del suo padrone.


Stamattina sui giornali il caso Brancher. Napolitano, che su Pomigliano, cioè sull’accordo anticostituzionale e sul referendum con ricatto incorporato, ha bellamente taciuto, ha ritrovato la sua loquacità . Forse gli bruciava che solo pochi giorni fa lui in persona, lui che occupa (degnamente) il palazzo che fu dei Savoia, aveva assistito al giuramento dell’indecente personaggio e ne aveva controfirmato la nomina. Non aveva osato allora dire: “Firmo perché sono obbligato, ma sarebbe meglio che questo signore andasse a farsi processare”. Ora dice: “Perché il legittimo impedimento? è senza portafoglio”. Come dire che per quelli col portafoglio va bene. Poi ha pontificato anche Bossi. “Così presto? – ha detto – è stato un fesso”. E ha preso le distanze dalla sua nomina.

Il primo a reagire è stato Bersani, che quando può fare l’opposizione sulle cazzate di stile del governo non gli pare vero, così può nascondere l’assenza di controproposte sui temi forti dell’economia, della guera in Afghanistan, delle spese militari etc. Il Cavaliere, ufficialmente ha taciuto, ma è filtrata la diceria che, dopo aver saputo di Bossi, diceva: “Tenetemi, altrimenti spacco tutto!”.

Come che sia, stamani ha affidato la replica al vicedirettore del “Giornale”, Alessandro Sallusti, soprannominato “la voce del padrone”. L’argomentare è, come sempre, ignobile. Eccone un passaggio chiave: “Quale motivo aveva il premier di imbarcare un nuovo ministro, per di più con delega al federalismo, per di più con vicende giudiziarie aperte, sapendo di andare incontro a pasticcio certo? I soliti ben informati hanno la risposta pronta: Brancher è un ex dirigente Fininvest, amico personale del Cavaliere, che come si sa, è uomo generoso e solidale con i compagni di squadra alle prese con qualche guaio, economico o giudiziario che sia”. Il commento a tutto ciò non è l’indignazione, non è: “Berlusconi è uomo di stato e non fa favori agli amici”; ma, al contrario, è un secco: “È tutto vero”, anche se “non applicabile a questo caso”. Perché no? “Perché Berlusconi ha anche un’altra caratteristica: non è fesso”.

Sallusti dice, in sostanza, che il Cavaliere mai avrebbe fatto l’operazione, senza aver preventivamente acquisito il consenso della Lega, ché anzi sono stati proprio i leghisti a proporlo e Bossi in Consiglio dei Ministri ha detto: “Il Brancher che non possiamo lasciarlo per strada che tiene pure due bambini”. Sallusti garantisce che la frase gliel'ha riferita uno dei presenti. Chissà chi.

Su certi leghisti di primo piano Sallusti è ancora più ficcante: “Fu il presidente della banca, Gianpiero Fiorani (che tra l’altro salvò dal crac Credieuronord, istituto di credito della Lega) a sostenere di aver pagato alcuni politici per difendere il posto dell’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Tra questi fece il nome di Brancher che avrebbe riscosso anche per conto di Calderoli. Il primo fu rimandato a giudizio, il secondo completamente scagionato. Ma lasciamo la vicenda giudiziaria nelle sue sedi, anche se è evidente chi potrebbe avere paura di un processo a Brancher”.

Conclusione: “Evidentemente qualcuno nelle alte sfere del Carroccio ha chiesto, forse preteso dal premier, la nomina di Brancher a ministro. Ed è stato accontentato. Questo qualcuno oggi abbia il coraggio di prendersi la responsabilità di fronte al Quirinale, al governo e agli elettori. Perché è vero che il Cavaliere ha le spalle larghe, ma tutto ha un limite. Anche l’indecenza”.

L’indecenza dunque non starebbe nella nomina di un personaggio su cui gravano codeste accuse e che ha un passato di prescrizioni (vedi http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/06/un-ministro-indecente-di-giulio-cavalli.html), ma nel fatto che Bossi e i suoi non siano stati coerenti con l’etica mafiosa di Berlusconi, quella per cui il patto “tra amici” è sacro e l’amico va coperto in ogni caso. E’ un ragionare disgustoso, come tutto questo ragionare di “fessi” e di furbi, che lascia intravedere il cuore del messaggio. Quello che, tramite le sue Tv, le sue parole, i suoi atti, il suo corpo, il Cavaliere ha diffuso: “L’importante non è essere onesti, ma farla franca”.

Ha con lui quella parte di italiani che già la pensava così, ma che ha potuto finalmente proclamare il suo credo senza complessi o ipocrisie ed ha sedotto e corrotto un’altra parte che si è convinta che alla “furbizia” altrui e propria non c’è alternativa. Si convincerà prima o poi che l'onestà (di tutti) conviene, ma c'è il rischio che sia troppo tardi.

Io alla minoranza che resiste farei una proposta: se “fesso” è oltraggio per il premier e i suoi soci leghisti, bisognerà dare a questa parola una connotazione positiva, produrre un vero e proprio “elogio del fesso” e farne un corpo contundente contro i furbacchioni che ci governano e contro gli schifosi furbetti che li leccano davanti e dietro.

Beethoven e Napoleone. "Cantò l'Eroe ed anche la sua fine" (Lucio Villari)


Da Il romanzo della musica. Beethoven e il suo tempo, pubblicato come supplemento a "la Repubblica" del 27 maggio 1987, riprendo uno stralcio dall'articolo di Lucio Villari. La sua conclusione non deve ingannare: non sono convinto che Beethoven fosse un musicista "per tutte le stagioni". Non dico che nel suo dare suoni e toni al ritorno dell'ordine absburgico fosse insincero - ho visto tanti ex rivoluzionari sinceramente rifluire nella reazione - ma il volo dell'aquila invecchiata è cosa di certo meno trascinante delle note dell'Eroica. E' perfino un po' ridicolo (S.L.L.)
Beethoven risolse con audacia i problemi e, come una volta si diceva, le contraddizioni che spesso attanagliano gli artisti che si trovano tra due epoche, tra epoche che non riescono a coesistere e anzi tendono a staccarsi violentemente l’una dall’altra. […]
Beethoven fu, come Goethe e come il suo coetaneo Hegel (nacquero ambedue nel 1770), spettatore, testimone e partecipe della rivoluzione francese, dall’incendio napoleonico dell’Europa, del Congresso di Vienna e del “ritorno all’ordine” della Restaurazione.
Una analisi ravvicinata di tutte le composizioni beethoveniane potrebbe confermare puntualmente la “presenza”, diretta o trasfigurata, allusiva o allegorica, di molti di questi eventi e paesaggi della storia e dei contemporanei movimenti culturali e artistici. Ma soprattutto le nove sinfonie possono, come si sa essere lette come le pagine di un trentennio di avvenimenti storici straordinari.
Quando (era il 13 ottobre 1806) Napoleone entrò vittorioso a Jena, Hegel così descriveva, nella lettera ad un amico, la sua emozione: “Ho visto l’Imperatore – quest’anima del mondo – cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina”. Ebbene, le parole del grande filosofo dell’idealismo erano state, per così dire, anticipate sul pentagramma della Terza Sinfonia, l’Eroica. Beethoven la dedicò due volte aNapoleone: la prima volta a una figura fisica reale, il generale Napoleone Bonaparte, ma con l’incoronazione il reale si sublima: Napoleone è ormai l’Eroe e Beethoven allora scrive sulla copertina della sinfonia “composta per festeggiare l’avvento di un grande Uomo”.
Ma dieci anni dopo il panorama dell’Europa è completamente ribaltato. Dopo alcune disastrose campagne militari, conseguenza della disastrosa campagna di Russia, l’impero napoleonico è in pieno collasso. siamo nel 1814 e l’imperatore, sconfitto, è inviato all’isola d’Elba. Nuovi eroi si affacciano sullo scenario della storia: i Quattro Grandi che hanno sconfitto l’usurpatore, Russia, Prussia, Austria, Inghilterra, convocano un congresso internazionale che deve riassestare gli equilibri internazionali sconvolti da Napoleone.
E’ il Congresso di Vienna che si inaugura con un sontuoso ricevimento, nel novembre del 1814. L’avvenimento è eccezionale per due ragioni politiche di fondo: esso vuole significare la restaurazione dell’antico ordine politico e dinastico delle monarchie europee che vent’anni di guerre e di conquiste avevano sconvolto. Ma a tale ordine istituzionale, turbato e manipolato da Napoleone, corrispondeva, nella mente dei vincitori, un ordine più profondo e autentico che, prima di Napoleone, era stato alterato dalla Rivoluzione. […]
Gli abili organizzatori del Congresso sapevano che solo il linguaggio della musica avrebbe potuto esprimere questa complessità e varietà di motivazioni ideologiche e politiche e che solo un musicista, Beethoven, sarebbe stato in grado di sentire e di comunicare tali motivazioni. Fu così che egli venne invitato a comporre un’opera con cui inaugurare l’apertura del Congresso. In poche settimane l’opera fu composta e il 29 novembre 1814, alla presenza degli imperatori e di centinaia di diplomatici e di invitati di ogni parte del mondo, l’Orchestra dell’Opera di Vienna, diretta dallo stesso Beethoven, eseguiva Der Glorreich Augenblich (“Il momento glorioso”). Mentre il sipario si alzava il coro cantava: “Alta nei cieli si è levata la vecchia aquila d’Europa”.

"Quaccheri e pellerossa" (Giovanni Pioli)

In uno degli ultimi libri di Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, c’è una sorta di ricognizione a tutto campo nella storia politica e religiosa del Vecchio e del Nuovo mondo, che va dagli antichi Romani ai boy-scouts, da Gandhi ai san Francesco. Il pensatore perugino racconta i casi in cui tecniche nonviolente furono efficacemente usate, spaziando nel tempo e nello spazio, e il suo procedere, sempre documentatissimo, non ha quasi mai trattatistica pesantezza, ma acquista sovente aneddotica sapidità. E’ dal suo libro che trascrivo il brano che segue, di Giovanni Pioli, sui rapporti tra Quaccheri e Indiani d’America (S.L.L.).
George Fox, predicatore inglese nato nel 1624 e fondatore dei Quaccheri, formulò per essi la cosiddetta “dottrina degli amici” articolata in tre punti: 1) amarsi gli uni gli altri. 2) Amare i propri nemici. 3) Non usare mai le armi e non difendersi mai dalle aggressioni.
Benché non s’ispirasse che alle parole dell’Evangelo, la dottrina fu duramente avversata sia dallo Stato che dalla Chiesa Anglicana.
Fox e molti suoi seguaci vennero imprigionati e condannati a grosse ammende. Tutti quanti si rifiutavano di pagarle. Dicevano d’essere pronti a passar tutta la vita in carcere piuttosto che versare denari ai violenti.
Dinanzi alla loro resistenza, e dinanzi al loro gran numero, le autorità dovettero cedere. Nel 1696 una legge riconobbe il loro diritto di non prestar giuramento di fedeltà al re.
Il più illustre discepolo di Fox fu William Penn. Figlio d’un ricchissimo ammiraglio col quale il re aveva un debito, alla morte del padre propose al sovrano di condonargli il debito se gli avesse ceduto una parte dell’America del Nord per andarci a vivere con alcuni Quaccheri e attuare lì l’ideale della nonviolenza.
Raggiunto l’accordo col re, nel 1673 partì con cento Quaccheri per l’America. Giunsero nell’attuale Pennsylvania e presero contatto con le popolazioni locali. Ad esse, intimorite, Penn dichiarò che erano disarmati e che non avevano intenzione di prender le loro terre, ma solo di acquistare quelle che avrebbero voluto vendere.
Fu così che i cento esuli pagarono due volte i loro possedimenti: al re e agli indiani. E nel pagarle a questi ultimi furono assai generosi. L’acquisto dei termini avveniva allora in largo e in lungo la superficie in trattazione e, in base alle giornate occorse, si calcolava il prezzo. L’acquirente aveva quindi tutti l’interesse a camminare svelto. Temendo di commettere ingiustizie, William Penn fece questa singolare misurazione camminando lentamente, fumando, chiacchierando e fermandosi spesso.
Le relazioni che i nuovi venuti stabilirono con gl’indigeni erano improntate all’assoluto rispetto del loro modo di vivere, delle loro tradizioni e delle loro credenze religiose, senza discriminazioni né alcuno sfruttamento palese od occulto. “Il Grande Spirito, padre di tutti gli uomini, vuole che bianchi ed indigeni vivano insieme, e non solo come fratelli, ma come se avessero un’unica testa, un unico cuore e un unico corpo”. In quel trattato Penn, mentre s’impegnava per sé e per i compagni a non usare mai le armi, chiedeva agl’indigeni che anch’essi convenissero su questi tre punti: nessun padrone e nessuno schiavo, nessuna divisione in classi, nessuna lotta di religione.


da Per l’abolizione della guerra, ora in Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, 1977

Legge bavaglio: scenari per blog. Un allarme da "Nazione indiana" (di Jan Reister).

La "legge bavaglio" non riguarda soltanto le intercettazioni e la loro pubblicazione, ma incide profondamente sulla libertà di comunicazione nel web. E' improbabile che la legge venga approvata prima delle vacanze, ma le modifiche di cui si parla sembrano non riguardare la rete. Una ragione di più per lanciare e diffondere l'allarme. Questo che ho trovato su "Nazione indiana" è chiarissimo e pieno di indicazioni pratiche (S.L.L.).

La cosiddetta Legge Bavaglio che sta suscitando le proteste della società democratica potrebbe entrare in vigore presto, inalterata. Tra le conseguenze devastanti che avrà per la democrazia, la legalità e la libertà di espressione, ve ne sono alcune che riguardano direttamente i siti informatici. Anche se spero che la legge non venga mai promulgata, è ragionevole prepararsi ad affrontare concretamente il futuro che aspetta blog, siti web ed attività in rete.

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L’ obbligo di rettifica

“Articolo 1 comma 29: [...] Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.

Come scrive Guido Scorza, l’obbligo perentorio di gestire una richiesta di rettifica con questi tempi mette chi gestisce un sito, di fronte a rischi, non solo per le sanzioni fino a 12.500 euro: che siate un blogger, il gestore di un “sito informatico” o piuttosto abbiate un canale su You Tube, in un momento qualsiasi, magari nel mezzo delle Vostre agognate vacanze, qualcuno potrebbe chiedervi di procedere alla rettifica di un’informazione pubblicata e Voi ritrovarvi costretti a scegliere se dar seguito alla richiesta senza chiedervi se sia o meno fondata, rivolgervi ad un avvocato per capire se la richiesta meriti accoglimento o, piuttosto, opporvi alla richiesta, difendendo il vostro diritto di parola ma, ad un tempo, facendovi carico di grosse responsabilità.

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Le fonti di rischio

Una richiesta di rettifica può arrivare per qualsiasi informazione pubblicata sul sito: testi, filmati, immagini. È più facile che sia scatenata da riferimenti a persone, istituzioni, aziende, marchi e prodotti, e non da concetti astratti generali.

Si può essere accurati, attenti nella pubblicazione, ma i siti che hanno un grande archivio storico (Nazione Indiana, Carmilla per esempio) hanno un grosso problema legato alla quantità di materiale, prodotto spesso in condizioni diverse.

È impensabile mettere fuori linea gli archivi. Altro problema comune a tutti i blog sono i commenti, magari messi in passato su articoli ormai d’archivio.

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Uno scenario reale

Ecco cosa potrebbe accadere dopo la promulgazione della legge:

Gestisci un sito informatico, magari un blog come “Nazione indiana”, e un giorno una persona vuole farti pubblicare una dichiarazione o rettifica a proposito di un articolo che hai scritto. Questa persona va da un avvocato, il quale ti invia una raccomandata, magari anticipata gentilmente via email.

Se tutto fila liscio, devi fare in poco tempo le difficili scelte dette sopra. Se, come può succedere, non ricevi l’email né la raccomandata (filtri antispam, indirizzo vecchio, sei in ospedale, fai il turno di notte, sei in viaggio di nozze), il postino ti lascia l’avviso e la lettera torna all’ufficio postale (spesso distante chilometri da dove abiti) dove, se non la ritiri durante la giacenza di 7-15 giorni, torna al mittente.

L’avvocato allora procede per conto del suo cliente e ti fa causa. Ora hai bisogno tu di un avvocato, di tempo e di soldi.

Da qui in poi è difficile dire cosa succederà: prima o poi ci sarà un caso esemplare, una persona che messa di fronte a questo meccanismo infernale opporrà le sue ragioni pubblicamente e metterà a nudo l’iniquità della legge. Fino a quel momento siamo tutti dei potenziali casi esemplari.

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Indicazioni pratiche per chi gestisce un sito

Cosa succede in pratica quando arriva una richiesta di rettifica dipende molto dal genere di sito web: i suoi contenuti, i modi di interagire con le persone (un forum, un blog, un sito di user generated content), dome è realizzato e dove. Dipende anche da chi ci sta dietro, che sia un privato cittadino o una struttura stabile, un’azienda, un giornale.

Qui riporto alcuni casi tipo per le situazioni più diffuse:

1. Sito web senza indicazione del responsabile

Nel caso di un blog ospitato da piattaforme come Splinder, Blogspot o wordpress.com, se non c’è alcuna informazione sul proprietario, la richiesta di rettifica viene inviata al gestore della piattaforma. Questi di solito la comunica all’utente via email (l’indirizzo interno usato per la registrazione del sito) e se non riceve risposta di solito prende misure unilaterali (chiusura del sito, cancellazione di articoli) secondo il contratto di servizio.

Il tempo tra la ricezione della richiesta presso il gestore e l’inoltro interno all’utente erode il margine di 48 ore e può di fatto mettere l’utente in condizione di inadempienza. In caso di mancata risposta, saranno le eventuali indagini di polizia a risalire all’identità dell’utente attraverso i log del gestore, dai contenuti pubblicati eccetera.

Un caso particolare è un sito self-hosted senza indicazioni sul proprietario. A differenza delle piattaforme gratuite, qui c’è di solito un pagamento di servizi, da cui con indagini di polizia si risale facilmente al titolare del sito.

Questo scenario (servizio gratuito, chiusura del sito, indagini) si presta a una situazione particolare, quella di blog anonimo per scelta, che descriverò più sotto.

2. Sito web dove è indicato chiaramente il titolare

Un sito che vuole essere raggiungibile pubblica il nome del titolare ed il modo per raggiungerlo.

Nazione Indiana, ad esempio, ha un indirizzo email, un indirizzo fisico (la sede legale dell’associazione, che corrisponde alla residenza del legale rappresentante), informazioni WHOIS complete. Nonostante ciò, non è sempre possibile ricevere comunicazioni e gestirle in sole 48 ore: non siamo una ditta con uffici e orari, abbiamo tutti una vita, altre attività, facciamo NI nel tempo libero, di tasca nostra. Possono accadere errori, con l’email, con le raccomandate.

Bisogna decidere prima cosa fare in caso di richiesta di rettifica: se ricevuta in tempo, occorre saperla valutare ed eventualmente assecondarla, od opporsi. Serve un avvocato subito disponibile. Se la richiesta non viene ricevuta in tempo, l’avvocato serve comunque e anche qui si decide se scendere a patti, o opporsi e creare quel caso esemplare di cui dicevo sopra. Non tutti hanno la capacità, la voglia e la possibilità materiale di farlo.

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Le scelte operative

Cosa farà Nazione Indiana? Cosa può fare un cittadino, un’associazione per rispettare la legge, non venire triturata da cause immotivate e nel frattempo cercare di cambiare la legge con i mezzi a disposizione?

Coniglietti e soldatini

Rinuncia a darti pena per le cose a cui tieni: scrivi con grazia e leggerezza solo di banalità, di cuccioli adorabili, di hobby innocui. Finché un produttore di peluche non ti farà causa.

Chiusura

Scelta drastica che non risolve il problema del passato, degli archivi che sono esistiti in rete (cache Google, altre cache, archivi personali) e da cui può arrivare sempre una richiesta di rettifica o altro.

Fuga all’estero

È un modo per rendere più onerosi e lenti gli attacchi legali, ma non risolve il problema. Se all’estero è solo il server, non serve a nulla.

Corretta diligenza

La strada faticosa, quotidiana e poco appariscente. Indicare chiaramente come essere contattati, verificare che i canali funzionino sempre, prepararsi un minimo e lottare con gli strumenti democratici a disposizione (sempre meno, con questa legge) per cambiare le leggi inique.

Blog anonimo

Chi si occupa di argomenti molto sensibili, oppure è esposto a ritorsioni pericolse, o è molto determinato, non sarà soddisfatto dalle opzioni qui sopra. A costo di rinunciare alla possibilità di firmarsi, con l’obbligo di fare attenzione a ogni informazione che lo potrebbe tradire, può gestire un blog anonimo con una protezione forte della propria identità. La tecnica è descritta nella guida di Ethan Zuckerman Scrivere un blog anonimo con Wordpress e Tor, pubblicata da Global Voices e da me tradotta.

Si tratta in pratica di tenere un blog privo di ogni segno personale, su una piattaforma gratuita, collegandosi ogni volta solo in modo anonimo, e predisponendo un sistema di backup per spostare il blog su piattaforme volta per volta diverse quando questo viene disturbato o chiuso. Occorre naturalmente predisporre più canali alternativi di comunicazione (blog, varie email, twitte…) e prestare attenzione scrupolosa alla sicurezza.

E’ uno strumento usato da attivisti per i diritti umani, whistleblower, operatori umanitari, operatori in aree controllate da criminalità organizzata, in stati repressivi. In Italia ci sono situazioni che ricadono in questo scenario.

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Conclusioni

La strada di questa legge non è ancora finita e bisogna lavorare molto nel frattempo (ancora una volta, inizia andando qui per sapere cosa propongono Paolo Gentiloni, Matteo Orfini e Pippo Civati). La limitazione delle libertà individuali e di espressione, i vincoli posti alle comunicazioni sembrano però essere una costante di questi tempi in Italia. Occorre fare la propria parte, e cercare almeno di non essere totalmente vulnerabili.

Se ti è piaciuto questo articolo, parlane ai tuoi amici. Se conosci qualcuno a cui potrebbe interessare, prendilo e daglielo. Fallo circolare!

La licenza è aperta e libera (CC A-NC-SA 2.5).

Un ministro indecente (di Giulio Cavalli)


Giulio Cavalli è un attore lodigiano. Un suo lavoro, prodotto congiuntamente nel 2008 dal Comune di Lodi e dal Comune di Gela, Do ut des, definito "spettacolo di riti e conviti mafiosi", costruito in collaborazione con il "Centro Impastato" di Cinisi, gli è valso l'attenzione, di certo non desiderata, delle organizzazioni criminali. Di quando in quando scrive allarmati articoli d'attualità, soprattutto sul bel sito "Nazione Indiana". Da lì ho ricavato questo articolo su Brancher, postato ieri, che mi sembra chiarire la questione meglio di quanto non abbiano fin qui fatto i giornalisti di mestiere(S.L.L.).

Sono molti e diversi i motivi per cui Brancher ministro dovrebbe accendere rigurgiti insopportabili e non sopportati da un Paese che ha perso il gusto del risveglio: la storia di Brancher, innanzitutto, è un sentiero di ombre che mette le radici nelle pieghe di quella Prima Repubblica che è stata “riciclata” piuttosto che essere confiscata e riassegnata ad uso sociale.
Aldo Brancher è sempre stato ad un soffio dalla quasi condanna grazie all’uso spregiudicato delle pieghe “garantiste” e rassicuranti della politica dell’impunità: detenuto per 3 mesi nel carcere di San Vittore, fu uno dei pochissimi inquisiti di Mani pulite a ricevere solidarietà dall’ambiente esterno: lo rivelò il suo datore di lavoro Silvio Berlusconi raccontando che “quando il nostro collaboratore Brancher era a San Vittore, io e Confalonieri giravamo intorno al carcere in automobile: volevamo metterci in comunicazione con lui”. Scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, è stato condannato con giudizio di primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito al Partito Socialista Italiano. In Cassazione il secondo reato va in prescrizione, mentre il primo è stato depenalizzato dal Governo Berlusconi II, del quale faceva parte. Viene indagato a Milano per ricettazione nell’indagine sullo scandalo della Banca Antonveneta e la scalata di Gianpiero Fiorani all’istituto creditizio: la Procura ha rintracciato, presso la Banca Popolare di Lodi, un conto intestato alla moglie di Brancher con un affidamento e una plusvalenza sicura di 300mila euro in due anni.
Oggi il neo ministro del neonato e patetico “Ministero per il federalismo” decide di sfoderare il “legittimo impedimento” per l’udienza prevista domani mattina. Deve organizzare il proprio ministero, dice sornione. Primo buco libero nella fitta agenda del servile ministro è per il prossimo 7 ottobre. In un Paese civile si scenderebbe in piazza, si chiamerebbe la rivoluzione della dignità che viene fatta marcire sotto le suole di un Governo che ha superato il limite dell’oltraggio non solo alla democrazia ma anche alla Costituzione, ai cittadini, alle Istituzioni, alla Giustizia e alla decenza.
Ecco, se si dovesse trovare un aggettivo per abbigliare questo momento politico, “indecente” sarebbe il più calzante. L’indecenza di un ministero lanciato come una ciambella di salvataggio. L’indecenza di un potere che usava l’impunità per preservarsi e ora pornograficamente nomina potere per impunirsi. L’indecenza di un sorriso che sta sulla faccia di un presunto ladro mentre sfugge al giudizio e tutto intorno gli arredi di palazzo della Repubblica Italiana, i fotografi delle grandi occasioni, il Presidente che stringe la mano, le congratulazioni del Governo, la compostezza dei messi, i flash da cerimonia, gli uffici stampa che hanno raccontato sessant’anni di storia, i braccioli dei padri costituenti.
In mezzo, un ministro in calzamaglia e senza maschera come la pagina di un giornaletto erotico incollata a forza in mezzo ad un manuale di Storia. Come un pacchetto scagazzato lasciato a tutti i cittadini, al mattino presto, fuori dalla porta. Un ministro indecente. L’ennesimo e non l’ultimo episodio. Di una rivoluzione che russa.

25.6.10

Zdanov in Vaticano. Un articolo dell' "Osservatore romano" su José Saramago.

Per i marxisti critici Zdanov è un bersaglio polemico obbligato. L’uomo, longa manus di Stalin nelle lettere e nelle arti, si muoveva su due direttrici: imporre a scrittori e poeti una poetica di stato, il cosiddetto “realismo socialista”; affermare una critica letteraria in cui il criterio nettamente prevalente fosse il criterio ideologico-politico. Non era una novità. Nel proporre l’ideologia ufficiale come cartina di tornasole per valutare ogni prodotto artistico Zdanov agiva su due direttrici: primo una sorta di censura preventiva che selezionasse il pubblicabile, secondo un’intervento sul pubblicato che individuasse e denunciasse i prodotti eterodossi, quelli che sotto la copertura di esigenze artistiche inquinavano il retto sentire del popolo e oggettivamente lavoravano per il nemico. Quella di Zdanov era, in realtà, la riproposizione dei metodi controriformistici. Era stato il Concilio tridentino a definire l’ortodossia e il “credo” che la sintetizzava, a pretendere che in tutti gli stati cattolici nulla si stampasse senza preventiva autorizzazione ecclesiastica, l’imprimatur e a stabilire un vero e proprio Index librorum prohibitorum, in cui erano compresi non solo il Decamerone di Boccaccio e Il Principe di Machiavelli, ma anche la dantesca Divina Commedia. Nel mondo cattolico, d’altra parte, questa attitudine a proibire e a condannare non è mai cessata, benché non siano mancate epoche di disgelo (ricordo il Concilio) in cui il dialogo con i “diversamente credenti” si è aperto con una discreta libertà. Una sorta di zdanovismo di ritorno sembra tuttavia oggi percorrere la politica culturale della Chiesa cattolica. A me pare che il necrologio di José Saramago, pubblicato dall’ “Osservatore romano” ne sia un’insigne documento. Come tale lo propongo ai visitatori di questo blog. Sui rapporti tra Saramago e la Chiesa di Roma si può qui trovare un altro post dedicato a una battaglia italiana del grande scrittore portoghese (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/06/una-battaglia-italiana-di-jose-saramago.html). (S.L.L.)

È morto José Saramago

L'onnipotenza (presunta) del narratore

di Claudio Toscani

"Quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile".
Sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l'abbia tenuto in vita a tutti i costi, vedi la frase succitata, tolta dal romanzo Tutti i nomi, uscito in quel 1998 che lo vide provocatorio Nobel della letteratura.
"Saramago", cognome aggiunto all'anagrafico José Sousa, era nato nel 1922 ad Azinhaga in Portogallo, da una famiglia di contadini e braccianti. Trasferitosi a Lisbona nel 1924, qui aveva compiuto i suoi studi fino al diploma di tecnico meccanico. Non particolarmente complessa né movimentata, la sua vita veniva registrando vari lavori, tra cui l'editoria; un matrimonio nel 1944; un primo romanzo nel 1947 (Terra di peccato, che disconoscerà in sede di bibliografia ufficiale); l'iscrizione al Partito comunista nel 1969 e una militanza politica clandestina sino al 1974, quando la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" (contro la dittatura di Caetano), ristabilisce le libertà democratiche.
Cinquantacinque anni compiva Saramago al suo vero primo romanzo, Manuale di pittura e di calligrafia (1977), ma nel resto della sua vita recupererà il tempo andato imponendosi in decine e decine di opere che coerentemente convergono attorno a pochi cespiti conduttori: la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo; una struttura autoritaria totalmente sottomessa all'autore, più che alla voce narrante, non solo onnisciente ma anche onnipresente; una tecnica dialogica in tutto debitrice all'oralità; un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l'impronta ideologica d'eterno marxista; un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione. E, infine, una strategica modalità, tematica ed espressiva a un tempo, impegnata a rendere quel che lui stesso ha definito la "profondità della superficie": qualcosa che allude sia a quel poco che conosciamo del tanto che rivendichiamo alla ragione, ma anche quel tanto che strappiamo alla realtà di quel poco che la ragione ci permette.
Chiamando a raccolta non molti ma primari maestri (da Kafka a Borges, da Eça de Queiros a Pessoa, da Antonio Vieira a Machado), Saramago diede da subito l'elenco degli artefici della sua formazione, collocandoli senza soluzione di continuità lungo un'onda di piena al cui estuario poneva la novecentesca inquietudine della letteratura, della storia, dell'arte, della politica e della religione, oltre che di se stesso.
E per quel che riguardava la religione, uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all'origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l'effetto di ogni causa.
Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l'umana totalità delle domande. Ma non per lui.
Giunto tardi al romanzo, si era rifatto, come s'è detto, con una serie di narrazioni. Dal 1980 in poi, nella bibliografia dell'opera di Saramago, si transita da Memoriale del Convento a L'anno della morte di Ricardo Reis (1984), che torna alla storia del Portogallo nel 1936; da La zattera di pietra (1986), avventura ecologica e demoniaca che immagina la deriva della Spagna dell'oceano tra magico quotidiano, metafora politica e nuove soluzioni atlantiche, a Storia dell'assedio di Lisbona (1989), libro in cui un revisore editoriale, inserendo una particella negativa (un "non") in un saggio storico, dà a Saramago il destro per giocare a falsificare l'evento, più per gioco che per convinta ideologia.
È il 1991 quando, inaugurando ciò che la critica ha chiamato il suo secondo tempo, lo scrittore pubblica Vangelo secondo Gesù, sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva.
Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo.
Il secondo tempo di Saramago si diversifica poi con Cecità (1995), affresco apocalittico che denuncia la notte dell'etica in cui siamo sprofondati. Poi in campo esistenziale, sia con Tutti i nomi (1997), altra apocalisse dal pessimismo assoluto sospesa su una indifferenziata comunità di morti e di vivi, sia con Il racconto dell'isola sconosciuta (1998), parabola sull'uguaglianza dell'uomo tra gli uomini. In campo intellettuale, prima con La caverna (2000), che tra Kafka, Huxley e Orwell, dispiega un allarme meno disperato del solito e addirittura aperto alla speranza; poi, con L'uomo duplicato (2003), dove colui che si scopre identico a una comparsa televisiva finisce per smarrirsi in un garbuglio fattuale, psichico e spirituale.
Avvicinandosi alla fine, Saramago ci ha lasciato un "testamentario" Saggio sulla lucidità (del 2004), critica al funzionamento, se non alla funzionalità, delle odierne democrazie, contro le quali l'autore auspica una schiacciante maggioranza di "schede bianche", la più invisa espressione di volontà politica per un potere che solo così dovrebbe deflagrare. Poi, un "giocoso" Don Giovanni o il dissoluto assolto (del 2005), ossia il ritratto di un onore sociale offeso, giacché al grande amatore non riesce, nel testo, ciò per cui è da sempre famoso.
Fertile, comunque, la discesa creativa degli anni appena precedenti la scomparsa: dall'itinerante carovana di Il viaggio dell'elefante (2009), pittoresco, umoristico e "peripatetico", all'inaccettabile Caino (2010), romanzo-saggio sull'ingiustizia di Dio, parodiante antilettura biblica, per non dire di altri titoli che andrebbero segnalati, a onor del vero, ma quasi sempre per polemica o pretesto.
Saramago è stato dunque un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle "purghe", dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi.


(©L'Osservatore Romano - 20 giugno 2010)

"E' come se mi fosse caduta una benda dagli occhi". Goethe in Sicilia (1787)

Quello a Napoli e in Sicilia fu per Goethe un viaggio nel viaggio in Italia e si svolse dopo un lungo soggiorno romano. In Sicilia arrivò per mare il 2 aprile del 1887. Così commentò l’arrivo nel suo giornale di viaggio: “Non saprei descrivere con parole la luminosità vaporosa che fluttuava intorno alle coste quando arrivammo a Palermo in un pomeriggio stupendo. La purezza dei contorni, la soavità dell’insieme, il degradare dei toni, l’armonia del cielo, del mare, della terra… chi li ha visti una volta non li dimentica per tutta la vita”.

Partendo da Palermo, ove sostò diversi giorni (vedi anche http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/06/quasi-un-apologo-goethe-palermo-dal.html ), visitò Segesta, Bivona, Girgenti, Caltanissetta, Castrogiovanni, Catania, Taormina, Messina. Partì dalla Sicilia l’11 maggio. Quando fu tornato a Napoli, il 17, mise in carta questo pensiero che del viaggio in Sicilia e un po’ la sintesi: “Per quanto riguarda Omero è come se mi fosse caduta una benda dagli occhi. Le descrizioni, le similitudini ecc., ci sembrano voli poetici e sono invece naturali oltre ogni dire, benché indubbiamente presentino una purezza e una forza intima che sgomentano. Perfino le maggiori inverosimiglianze e invenzioni hanno una naturalezza di cui non m'ero mai capacitato prima di trovarmi al cospetto delle cose descritte. Permettimi di chiarire in breve il mio pensiero così: loro, gli antichi, rappresentavano l'esistente, noi, di norma, l'effetto; loro dipingevano il terribile, noi raffiguriamo in modo terribile; loro il piacevole, noi in modo piacevole, e via dicendo. Di qui la fonte d'ogni iperbole, maniera, affettazione, ampollosità. Quando invero si opera cercando l'effetto e basandosi sull'effetto, non si crede mai d'averlo reso abbastanza percettibile. Se questo che dico non è nuovo, certamente in quest'occasione l'ho sentito con particolare vivezza. Ora che ho presente al mio spirito tutto questo: coste e promontori, golfi e insenature, isole e penisole, rocce e arene, colline boscose, dolci pascoli, fertili campi, fioriti giardini, questi alberi ben curati e i tralci pendenti e i monti che toccano le nuvole e questo ridente susseguirsi di pianure, di scogli, di dune, e il mare che tutto abbraccia con tanta mutevolezza e molteplicità di volti, ora l'Odissea è davvero per me una parola viva”.

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