28.2.14

Anni Ottanta, una eredità problematica (di Massimiliano Panarari)

Ancora qualche anno fa c’erano professori di storia che tentavano di dimostrare quanto fosse bella la “modernizzazione conservatrice” che aveva i suoi emblemi in Craxi e nelle tv di Berlusconi. Chissà se ce ne sono ancora. Intanto può essere utile, come sintesi di quell’apologia e materiale di riflessione, la presente recensione di uno dei loro libri. (S.L.L.)

C'e' chi dice che noi italiani siamo ancora premoderni. Sicuramente ora siamo, e decisamente, postmoderni. Accidenti, ma, allora, moderni mai? Così sembrerebbe... E, invece, sostiene adesso qualcuno, sia pur per un non lunghissimo lasso di tempo, siamo stati addirittura modernissimi. Negli adorati (o famigerati) Anni Ottanta, dopo i quali nulla, effettivamente, sarebbe stato più come prima.
«Cosa resterà di questi anni 80», cantava, alla fine di quel decennio, Raf. Già, proprio una bella domanda, che prelude a un'eredità problematica e controversa, sulla quale si esercitano, sempre di più, anche gli intellettuali. L'ultima occasione per discuterne la fornisce un volume, uscito da poco, scritto dal giovane storico Marco Gervasoni e dedicato, giustappunto, alla Storia d'Italia degli anni Ottanta (Marsilio, 2010), che porta l'eloquente sottotitolo Quando eravamo moderni.
Contravvenendo un po' alla vecchia lezione preparatoria di metodologia della ricerca storica che si insegnava nelle aule universitarie, secondo cui si può fare storiografia soltanto su epoche abbastanza lontane nel tempo da garantire la «giusta distanza» critica e di giudizio, il libro ci si tuffa, e ricostruisce, in modo assai completo e dettagliato, tutto il coloratissimo periodo degli anni Ottanta del secolo scorso (certo sfavillante di luci, ma non privo di ombre). Il decennio delle televisioni commerciali (la «neotv», copyright Umberto Eco), dell'eccesso, della «Milano da bere», dei paninari e dei rampanti, del craxismo, della politica spettacolo, e, su scala internazionale, dell'affermazione trionfale del neoliberismo e, dalle nostre parti, dell'ascesa del berlusconismo. Insomma, l'età d'oro dell'edonismo reaganiano, per usare l'espressione coniata, nel corso del programma Quelli della notte, da Roberto D'Agostino, futuro padre del sito di gossip politico-economico Dagospia - ed è ormai di dominio comune quanto il «pettegolezzo», da considerare qualcosa di ben diverso dal semplice sparlare o farsi gli affari altrui, sia figlio di quell'epoca («più che notizie, spetteguless» era uno dei tormentoni più in voga della trasmissione simbolo dell'epoca, Drive In).
La tesi di Gervasoni, in buona sostanza, è che i «mitici Ottanta» siano stati gli anni dell'«ultima modernità» del nostro Paese, della sua compiuta secolarizzazione tra diffusione di nuovi stili di vita e allargamento dei consumi. Il periodo del ritorno alla vita, dopo i terribili anni di piombo, e della piena accettazione, senza più sensi di colpa cattocomunisti, della libertà individuale (incluso il diritto alla realizzazione professionale e al guadagno personale).
Anche in ambito intellettuale, dove, tramontate le ideologie e finita la stagione della devozione coatta all'arte «impegnata» della Corazzata Potemkin (come ci suggerisce l'urlo liberatorio anti-cineforum del nuovo maitre-a'-penser ragionier Fantozzi), finisce con l'imporsi il postmoderno, che sgretola le distinzioni tra «alto» e «basso», sdoganando le varie manifestazioni della cultura pop e di massa.
Uno dei capitoli migliori del libro del contemporaneista dell'Università del Molise (già autore di una interessante biografia di Francois Mitterrand) è, infatti, quello consacrato al «pensiero Anni Ottanta», capace di congedarsi in modo definitivo dal retaggio di quell'engagement politico che, nella forma prevalente, aveva provocato qualche ansia anche all'indiscutibilmente progressista Italo Calvino. Proprio le sue Lezioni americane, con le conferenze consacrate alle virtù della leggerezza, della rapidità, dell'esattezza, della visibilità e della molteplicità, spalancano di fatto le porte a un universo valoriale intriso di categorie e idee-forza diversissime da quelle della fase precedente. Beninteso, Calvino rimane uno «scrittore morale», come aveva detto di lui Alberto Asor Rosa, ma il nuovo spirito dei tempi soffia potentemente anche nel paesaggio culturale.
E, così, gli Anni Ottanta saranno quelli di un certo elogio della diserzione in campo letterario, dalla nuova egemonia culturale costruita dalla casa editrice Adelphi di Roberto Calasso e dei suoi sodali (che si applica, potremmo dire scientificamente, a picconare i piloni della cultura della sinistra italiana) alla Rimini postmoderna di Pier Vittorio Tondelli, sino al successo planetario del Nome della rosa. Gli anni dei reciproci annusamenti tra «nuova destra» e spezzoni di sinistra (non di rado di matrice operaista), sotto l'egida della comune passione per il «pensiero negativo» tedesco e per la gaia apocalisse della Finis Austriae. Gli anni della fantascienza post-atomica e catastrofista alla Blade Runner, alla Mad Max e alla Terminator che faceva il paio con la circolazione delle teorie sulla fine della Storia e l'inizio irreversibile della decadenza (l'Aids non era forse la «peste del XX secolo»?). Della Transavanguardia, il gruppo di artisti tenuti a battesimo da Achille Bonito Oliva, accomunati dal rifiuto di qualunque ideologia forte e dall'edonismo del «movimento concettuale». Della massmediologia come scienza finalmente certificata (anche perché ci si era accorti, nel frattempo, dell'impressionante influenza popolare esercitata dai mezzi di comunicazione di massa). Del pensiero debole di Gianni Vattimo (la cui «serata Nietzsche» aveva fatto il tutto esaurito al Teatro Carignano di Torino nell'88) e Pier Aldo Rovatti, nato a sinistra, ma che invitava a fare i conti con la fine del razionalismo e delle «illusioni» dell'Illuminismo.
Tutto pacifico, dunque?
Nient'affatto, perché, accanto agli adoratori e ai simpatetici, gli Ottanta annoverano anche schiere di avversari e antipatizzanti. Come lo storico Guido Crainz che in quel periodo vede l'inizio della fine, i segni della «mutazione antropologica» determinata dal prevalere di una cultura dell'egoismo sociale che, saldatasi con i tratti peggiori del nostro atavico familismo e clientelismo, avrebbe fatto saltare per aria le già deboli propensioni italiane alla solidarietà e alla legalità. O come Edmondo Berselli, il cui ultimo libro (L'economia giusta, Einaudi), denuncia senza sconti dell'«imbroglio liberista» e perorazione della causa di un mercato che sappia avvicinarsi nuovamente alla società, è una sorta di corpo a corpo con il decennio della modernizzazione reazionaria dei Reagan e delle Thatcher e del pensiero unico neoliberale del «consenso di Washington».
Non c'e' niente da fare, amati (al punto da essere già vintage e oggetto di amarcord per alcune generazioni) o detestati, agli anni Ottanta si applica integralmente uno slogan che potrebbe sembrare quasi inventato allora, nel periodo che ha reso per la prima volta davvero di massa la società dello spettacolo. «Bene o male, purché se ne parli», come avrebbe commentato Oscar Wilde, anch'egli, a suo modo, un personaggio alquanto «Anni Ottanta». 


“La Stampa”, 28-10-2010

Surrealismo alla milanese. Intervista a Renato Pozzetto (Egle Santolini)

Primi anni '60.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni (quasi invisibile)
si esibiscono per Dario Fo e Franca Rame
Doveva essere una “cosa grande” Milano, prima del dominio dei Craxi, dei Ligresti e, soprattutto, di Berlusconi, una rete di circoli, di esperienze, di intelligenze. Nell’intervista che segue Renato Pozzetto, opportunamente sollecitato da Egle Santolini, ne restituisce qualche frammento, più che sufficiente a scatenare in noi la nostalgia per un tempo che abbiamo perduto e per un luogo che abbiamo sognato. (S.L.L.)
1965. Foto di gruppo alla Pasticceria Gattullo
«Ci vede, lì nella foto che hanno appeso al muro, con le nostre belle cravattine precise? Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Jannacci, io, Cochi, Sergio Endrigo, Augusto Martelli, Giorgio Gaber. Era il 1965. E il posto era questo, il solito Gattullo». Se un mattino di giugno alle otto e mezza Renato Pozzetto ti convoca in una pasticceria a Porta Lodovica, di sicuro ci vai di corsa. Perché è l'occasione di capire, nel posto giusto e dal testimone più prezioso, come lo spirito del surrealismo sia planato, tra dopoguerra e boom, sul pavè di Milano. In principio era il derby, non inteso ancora come tempio del cabaret ma come duello Milan-Inter. «In quelle domeniche là era tanta l'attesa della partita che ci inventavamo una sfilza di scuse finte per dire agli amici che no, a noi non c'importava, allo stadio non ci saremmo andati: ho la zia da andare a trovare! la comunione del cuginetto! I fiori a portare al cimitero!»

Di che anni stiamo parlando, e voi chi eravate?
Più i 50 che i 60, andavamo ancora a scuola, Milano era piccola piccola e il Gattullo un buco. Noi eravamo io e Cochi che ci conoscevamo da bambini, più gli amici della compagnia: il Cobianchi, lo Zambelli, il Ciccarelli»

Ma il gruppo storico? Beppe Viola, Jannacci?
Nooooo. Per loro c'è tempo. Coi ragazzi si stava seduti sulle panchine, si giocava a palla, si beveva un bianchino. Si prendeva il tram numero 3 e si andava in centro a guardare le vetrine. Non avevamo niente. Niente, a parte le parole. E con quelle giocavamo».

È lì che sono nati i tormentoni del cabaret e poi della tivù?
«Più che altro avevamo un gergo: andare a mangiare si diceva "al pito", bere "al trinco", partire per le ferie "andare al Sant'Anselmo della spesa". Fare l'amore, che di quei tempi era una parola grossa, era “prendersi il gusto”. E le ragazze “le bastone”, nel senso che ci tenevano sotto schiaffo. Ma l’aspetto più interessante era un certo humour nero. Moriva qualcuno nel quartiere e
ci davamo la notizia con un gesto: "hai presente il Mario dell'edicola? Ciao-oo...". E il cancro era il fantolo: gli è venuto un fantolo al melone».

Ma il Cobianchi, lo Zambelli e il Ciccarelli non sono diventati famosi, e lei e Cochi invece sì. Com'è successo che il mondo dello spettacolo è poi arrivato da Gattullo?
«Siamo stati noi a portarlo lì. Milano allora era mescolatissima, capitava che noi studenti finissimo alla galleria d'arte notturna "La Muffola" di Velia e Tinin Mantegazza e conoscessimo Lucio Fontana, Piero Manzoni che poveretto è morto giovane, Luciano Bianciardi, e poi il Dario, Dario Fo: dopo un po' saltava fuori una chitarra e ci si metteva a cantare. Si andava anche all'Oca d'oro di via Lentasio, qualche volta al Giamaica dove passava spesso Mariangela Melato che stava in Montebello: ma io con Mariangela andavo soprattutto a ballare il rock'n'roll in una balera di corso Europa. Con Cochi eravamo appassionati di canti popolari, anarchici e di protesta, come quelli sullo scandalo della Banca romana: "S'affondano le mani nelle casse - crac! si trovano sacchetti pieni d'oro - crac! e noi per governare, come fare? Rubar, rubar, rubar, sempre rubare!"».

Niente di nuovo sotto il sole.
«Appunto. Gino Negri ci ha notati e ci ha portati a cantare nei circoli di sinistra. Ma anche in piedi nelle sale biliardo, se capitava. Ecco, quei nuovi amici son venuti a trovarci da Gattullo, e il posto gli è piaciuto. Dopo la chiusura la cucina la occupavamo noi, c'era un tizio detto il Diavolo che faceva da mangiare da padreterno».

E poi la passione si è trasformata in lavoro.
«È arrivato Jannacci e ha imposto le regole: è stato lui a spiegarci che, se si voleva fare sul serio, bisognava impegnarsi nel lavoro, essere puntuali, non scadere nella volgarità. Ci ha dato coraggio e ci ha aiutato a scrivere le prime canzoni, a cominciare da A me mi piace il mare. Quando è nato il Caber64 in via Santa Sofia è stata la svolta cruciale: dagli scherzi con gli amici si è passati all' "ecco a voi". Poi è arrivato il Gruppomotore, con Enzo, Teocoli, Lino Toffolo. E il Derby, con Dario che è venuto a impostare il lavoro. E la tivù, e Beppe Viola che lavorava in Rai. Bar di riferimento, sempre Gattullo».

Ci racconta la storia dell'ufficio facce?
«Era una specie di circolo virtuale, inesistente, però organizzato come il Rotary o il club di Topolino. Essere ammessi era un'impresa, e se ti riusciva ti davano il timbro. Il presidente era il Cobianchi, ovvio, anche se noi immaginavamo che sopra di lui ci fosse una figura più evanescente, occulta. Qualche anno dopo un ufficio facce me lo volevo comprare davvero, un negozio qui in via Col di Lana, avrei aperto bottega e messo la targa. Poi ho pensato che quegli anni erano finiti, non è più tempo di ufficio facce».

Ma lei è ancora quello del bar.
«E il mio orgoglio è stato quello di aver portato in teatro, al cinema e in tv proprio quell'umorismo lì. Un po' freddo, anzi glaciale. Senza sorridere, senza chiamare l’applauso. Lo faccio da sempre. Lo facevamo tutti a Porta Ludovica».

La Stampa, 16 giugno 2013

Preti in bicicletta, una dolorosa impressione.

Pio X il 17 ottobre 1907 esprimeva all'arcivescovo di Milano Andrea Carlo Ferrari «la dolorosa impressione che lascia nei buoni e il disprezzo che suscita nei tristi il con­tegno di un prete in bicicletta».

Sono qui che lavoro... Una poesia di Franco Arminio

Sono qui che lavoro contro il mio destino
dentro la noce scura che mi ha concepito.
Sono diventato uno che dice
ma resterà sempre una crepa la mia radice. 

Peccato . Una poesia di Forugh Farrokhzad

Ho peccato, peccato, quanto piacere
nell’abbraccio caldo e ardente ho peccato
fra due braccia ho peccato
accese e forti di caldo rancore, ho peccato.
In quel luogo di buio silenzio appartato
nei suoi occhi colmi di segreti ho guardato,
nel palpito del petto furioso il mio cuore
tremava nei suoi occhi di desiderio in preghiera.
In quel luogo di buio silenzio appartato
accanto a lui al suo fianco sconvolta
la sua bocca desiderio versava tra le labbra mie,
scappata, io, dalle pene del folle mio cuore.
Gli sussurrai piano piano la melodia dell’amore:
ti voglio, ti voglio, anima mia
ti voglio, ti voglio, abbraccio che infiamma
ti voglio, amore mio pazzo.
Il desiderio nei suoi sguardi fiamme avvampava,
il vino nero nella coppa tremava e danzava.
Il mio corpo sul tenero letto
sul suo petto ubriaco oscillava.
Ho peccato, peccato, quanto piacere
accanto all’estatico fremito di un corpo.
Oddio, mio Dio, che cosa ho mai fatto
in quel luogo di buio silenzio appartato?

da Rivolta

27.2.14

Davide Lajolo. Voltagabbana, ma a proprie spese (di Folco Portinari)

Nel 2005, per la riedizione di un romanzo emblematico della crisi che vissero non pochi giovani cresciuti sotto il fascismo e fascisticamente educati nel corso della seconda guerra mondiale, Folco Portinari scrisse questo bell'articolo su Davide Lajolo, scrittore e uomo. (S.L.L.)
Davide Lajolo, il partigiano Ulisse
Anno 2005, sono passati sessant'anni da quel 1945 che ha, o meglio avrebbe dovuto fare da spartiacque tra due storie, due Italie, quella fascista e quella antifascista. Non senza varianti, quella liberale e quella socialista, quella capitalista e quella operaista, quella monarchica e quella repubblicana, eccetera. Non fu, come tutti sanno, e pochi ricordano, un passaggio agevole e indolore, fu anzi drammaticamente traumatico, aprendo contestualmente altre questioni, non indifferenti né differibili, quelle che si trovarono a dover risolvere i nuovi governanti, in primis il guardasigilli Palmiro Togliatti: si trattava di governare gli stessi italiani che fino all'altrieri (prima di Stalingrado e di El Alamein) sembravano essere, o si dichiaravano, fascisti o mussoliniani. Dove pescare, allora, non tanto i quadri ma, specie tra i giovani che avevano appena combattuto tre guerre, i rincalzi per rinnovare una classe dirigente in mora, i nuovi intellettuali «organici», fossero liberali o comunisti, se non tra coloro che in varia misura e modo avevano collaborato nel Guf o con Bottai? Ciascuno con le sue sacrosantissime motivazioni, ciascuno secondo un proprio grado di partecipazione, all'interno dell'ambiguità ideologica del fascismo, uscito bene o male da una costola del socialismo. Quante polemiche in questi anni, che hanno coinvolto persino nomi illustri come Bobbio o Silone. Una cosa è certa, il traghetto fu una realtà. A raccontare quel passaggio ci pensò, con una spregiudicata quanto esemplare confessione, Davide Lajolo nel 1963, Il voltagabbana. Confessione pubblica e coraggiosa, se si pensa al tempo in cui avvenne e all'incarico di Lajolo, direttore dell'Unità. Ora Il voltagabbana me lo ritrovo ristampato in edizione «popolare» nella Bur di Rizzoli, perciò per ampia diffusione, sessant'anni dopo quel 1945 (o quel 1943), a svegliare la memoria addormentata. Con lodevole tempismo, per altro, data l'attualità del fenomeno, quando vedo il Presidente del Consiglio in carica, Berlusconi, tuonare ogni giorno un po' istericamente contro i comunisti che minaccerebbero l'Italia (continuando a mangiare i bambini), mentre al tempo stesso si circonda, in posti di responsabilità o di personale consulenza, di ex dirigenti comunisti, da Bondi a Ferrara a Adornato. La prefazione del libro è affidata a Giorgio Bocca, un testimone attivo di quell'epoca. Ed è una scelta azzeccata per il «duo» asti-cuneese che così si instaura. È Bocca, dunque, a rievocare introduttivamente la situazione e il clima di quegli anni, evocando la conversione totale di un popolo: quaranta milioni di fascisti diventati, in ventiquattro ore, quaranta milioni di antifascisti, lasciando nel mistero la consistenza del consenso addirittura di un ventennio, virtù sempre sbandierata per legittimare il regime. La conta, la vera, si sarebbe fatta dopo l'8 settembre. Però qualcosa c'era nel tessuto italiano che sociologicamente può aiutare a spiegare il fenomeno e la natura del fenomeno. La descrive bene Bocca quando scrive: «Nel libro di Lajolo l'Italia fascista sembra falsa, con quei federali bonari e con quei giovani parasocialisti. Ma quei federali erano veramente così nella maggioranza dei casi, dei provinciali cui il fascismo aveva concesso per la prima volta nella storia della piccola borghesia, di esercitare un ruolo politico, non dei feroci squadristi che dominavano le province italiane con il terrore, ma uno dei piccoli borghesi che restava legato ai piccoli borghesi della sua città da mille legami di amicizia e di parentela. Ed è anche vero che ci fu tutta una generazione di giovani che credette di poter essere socialista dentro il fascismo e che fu poi parte dirigente dell'Italia antifascista». Nella sua essenzialità semplice la diagnosi di Bocca è perfetta e ben calza non solo per Lajolo ma, come egli dice, pure per sé. Piccolo borghese e assieme contadino, che è una condizione antropologica e quindi culturale dirimente. Quello del legame alla terra, alla contadinità, mi pare resti il segno più profondo che caratterizza la sua personalità: non mi riferisco allo scrittore: è lì, nella e per la sua terra che il voltagabbana compie la scelta. Non a caso infatti Il voltagabbana incomincia con una lunga panoramica sulla sua Vinchio e sulla sua campagna, e non a caso, come ho detto, la conversione avviene proprio in quegli stessi luoghi, assieme a quelle stesse persone che vi lavorano la terra e le vigne di barbera. È una costante che si ritrova un po' in tutti i suoi libri e funge da bussola o da liquido di contrasto pure nel suo diario di lavoro complementare a questo, Ventiquattro anni, testo di singolare importanza per decifrare il nostro dopoguerra. Il voltagabbana finisce proprio là dove incomincia il diario, con il medesimo interrogativo: «Era finita davvero la guerra di liberazione?». Risposta negativa. Nel diario spiegherà che il 26 aprile 1945 era incominciata un'altra guerra, non meno terribile, erroneamente definita «guerra fredda», che sembra non abbia mai fine se continua ancora oggi, chiamando libertà l'ingiustizia, democrazia l'arroganza, che era stata la divisa del ventennio e che rivede a indossarla oggi gli eredi di allora. Anche peggio. Con una differenza: il voltagabbana Lajolo aveva messo in gioco la sua vita a saldo del cambio di gabbana, i molti voltagabbana di oggi pare che in gioco mettano solo il conto in banca da impinguare. È tutta lì la differenza.


l’Unità, 16 Febbraio 2005

Grande Guerra (1914-18). La scintilla fu italiana? (Luciano Canfora)

L’anno appena incominciato sarà segnato da costanti riferimenti alla ricorrenza centenaria dello scoppio della Grande guerra (1914). Non si dovrebbe parlare di celebrazioni, anche se qualche tentazione in tal senso è prevedibile. Speriamo che l’involuzione intellettuale dispiegatasi in molti campi con la cosiddetta, e a torto esaltata, «fine delle ideologie» non porti ad un recupero del peggior patriottismo e riproponga la retorica della nostra entrata in guerra nel maggio 1915, dopo dieci mesi di neutralità, come «quarta guerra d’indipendenza»: definizione usuale nei manuali di storia di epoca fascista. È ormai nota quasi in ogni dettaglio la storia del nostro cinico comportamento consistente nel mercanteggiare con entrambi gli schieramenti ormai in guerra il maggior lucro da trarre dall’uno o dall’altro eventuale alleato. (Ma eravamo legati ad un patto di alleanza con Austria e Germania, rinnovato ancora alla vigilia quasi del conflitto, il 5 dicembre 1912).
Il 6 maggio 1891 era stata già rinnovata la Triplice Alleanza (Italia, Austria, Germania). Il testo che ribadiva e ulteriormente rinnovava l’alleanza sanciva, all’articolo IX, che Germania e Italia «s’impegnano a mantenere lo statu quo nel Nord-Africa e in particolare in Cirenaica, Tripolitania e Tunisia» e che però, se - dopo maturo esame - Germania e Italia avessero constatato l’impossibilità di mantenere lo statu quo nella regione, la Germania si impegnava a sostenere l’Italia in qualunque azione «compresa l’occupazione di territori o altre forme di garanzia che l’Italia decidesse di intraprendere in quelle regioni».
Nel 1911 l’Italia invase la Libia, e nel protocollo del secondo rinnovo della Triplice (5 dicembre 1912) il punto 1 recitava: «Resta inteso che lo statu quo menzionato nell’articolo IX del Trattato implica la sovranità dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica». Insomma i nostri appetiti coloniali venivano accontentati e assecondati dal partner più interessato - la Germania - alla spartizione coloniale dell’Africa: un aiuto fattivo e arricchito del costante riferimento alle eventuali «provocazioni» da parte della Francia.
Nei libri per le scuole in epoca fascista l’attacco italiano alla Libia veniva raccontato così: «Nel 1911, per rafforzare la sua posizione nel Mediterraneo, l’Italia si accinse, dopo una pacifica penetrazione, ad occupare la Libia, terra africana che comprende la Tripolitania e la Cirenaica, ed era sottoposta al governo dei Turchi»; «Ma la Turchia ancora non cedeva. Allora nella primavera del 1912 l’Italia portò la guerra nel Mare Egeo, dove occupò le isole del Dodecaneso e inoltre la grande e importante isola di Rodi, soggetta ai Turchi. A Losanna finalmente fu firmata la pace» (L. Steiner, «Nozioni di Storia, Geografia e cultura fascista per i corsi annuali di avviamento professionale, Paravia, Torino, 1937, terza ed., pp. 94-95).
Pur nella sua rozza faziosità, questa sintetica descrizione della vicenda fa emergere chiaramente l’effetto destabilizzante che le ripetute aggressioni italiane, in Nord Africa e nell’Egeo ebbero sugli equilibri sempre meno solidi dell’anteguerra. Quando poi la guerra esplose, piantammo in asso la Triplice che ci aveva appoggiati nell’avventura coloniale e puntammo sull’appoggio anglo-francese per sottrarre all’Austria terre tedescofone, e a tal fine cambiammo fronte. La politica italiana si inseriva comunque, e sia pure in modo aggressivo, dentro un più generale quadro di lotta inter-imperialistica per l’egemonia e per la spartizione del bottino coloniale. Tale infatti fu la Grande guerra, matrice perciò della più radicale crisi che l’Europa abbia mai attraversato (anche più violenta del 1848) e cioè il quinquennio 1917-1922, al termine del quale era cambiata la faccia, e la sostanza, dell’intero pianeta.
In che misura le avventure italiane furono il detonatore del conflitto? Due studiosi italiani, non nuovi ad imprese congiunte, Franco Cardini medievalista e Sergio Valzania polemologo, hanno studiato questo segmento tutto italiano dell’anteguerra in un libro imminente per la Mondadori, La scintilla: forse intenzionale allusione alla testata del giornale di Lenin, «Iskrà». Titolo appropriato, perché l’inchiesta storiografica che essi hanno svolto ha fatto emergere la concatenazione di avvenimenti che conduce, a partire dall’invasione italiana della Libia, alla deflagrazione della grande crisi. L’attacco italiano all’impero ottomano infatti innescò una reazione a catena inducendo anche le piccole potenze balcaniche a pretendere, a danno del «grande malato» come allora veniva chiamato l’impero euro-asiatico, incrementi territoriali. Presto si mossero Bulgaria, Serbia, Montenegro, e anche la Grecia. Dopo due «guerre balcaniche», nella seconda delle quali intervenne anche la Romania, la Serbia ebbe quasi raddoppiato il suo territorio: era ormai la più grande delle piccole potenze regionali, per adoperare un’antica formula delle Lettere slave di Mazzini. Era insomma la principale spina nel fianco dell’Austria. E la Grande guerra partirà appunto di lì: dallo scontro, drammatizzato al massimo dalla corte di Vienna dopo l’attentato di Sarajevo, tra l’Austria e la Serbia. La quale, dopo il crollo austro-tedesco del novembre 1918, diventerà la grande Jugoslavia (denominazione assunta ufficialmente nell’ottobre del 1929), risultando così la vera vincitrice degli interminabili conflitti balcanici dell’anteguerra. E intanto - non senza un conflitto locale con la Grecia - verrà a maturazione anche il tracollo della vecchia impalcatura imperiale ottomana e sorgerà, ridimensionata territorialmente, una nuova Turchia laico-parafascistica sotto la guida di Kemal Atatürk, dal 1921 capo carismatico a vita della risorta Turchia. Alla luce di questo vasto e consequenziale sviluppo, non appare dunque affatto improprio definire «scintilla» di tutto ciò la deplorevole avventura giolittiana nel «Bel suol d’amore» della Tripolitania. I due autori della Scintilla hanno brillantemente assolto al loro compito, e il lettore è grato. Ma lasciano nell’aria una domanda sulla possibilità stessa di individuare una sola «scintilla».
Naturalmente essi seguono un filo molto articolato e coerente. E tuttavia, nella comprensione dei fatti storici, può apparire piuttosto unilaterale il privilegiamento di una «causa». Anche il grande Tucidide si trovò di fronte ad una grande guerra, incominciata anch’essa con un conflitto locale (tra Corinto e Corcira) e via via cresciuta su se stessa fino a coinvolgere, come egli scrive all’inizio della sua opera, «la gran parte dell’umanità». Tucidide non smise di indagare sulle cause, e, man mano che la guerra si ingigantiva, di porsi sulle tracce delle cause «vere». Il frutto di tali ricerche occupa un intero libro, il più lungo degli otto che compongono l’opera. Alla fine si convinse di averla scoperta, la «causa verissima e inconfessata», come egli la chiama: il conflitto di potenza, la lotta per l’egemonia tra le grandi potenze. Gli Spartani - scrive - si convinsero che la guerra fosse inevitabile perché Atene era ormai diventata troppo forte. Si potrebbe dire che c’è un che di tautologico in questo tipo di spiegazione. Ma c’è anche la presa d’atto dell’insufficienza delle spiegazioni settoriali, parziali, uniche. La guerra del 1914 fu «inevitabile» per le stesse ragioni per cui lo fu la guerra del Peloponneso. E speriamo che le grandi potenze che oggi si fronteggiano nell’Oceano Pacifico non giungano prima o poi ad analoghe, irreparabili, determinazioni.


Corriere della Sera, 10 gennaio 2014

Table d'hôte, restaurant, casa del brodo. Tra Parigi e Palermo

Un ristorante a Paris Bastille
Leggo su “La Stampa” del 14 settembre 2013 alcune notizie tratte da un volume di Adam Gopnik, In principio era la tavola (Guanda). Table d'hôte – a quanto pare - era il posto in cui si andava se si voleva mangiar fuori, a Parigi, nella prima metà del Settecento, una tavolata pubblica (ma le donne erano escluse) dove si prendeva quello che veniva servito.
Quelli a cui non piaceva, soprattutto per la compagnia occasionale con cui si doveva condividere il tavolo, presero a dire che mangiando lì poi stavano male. Apparvero così locali che offrivano un brodo salutare preparato in pignatte pulite: il restaurant, il piatto che ristora. La specialità diede il nome al tipo di locale, che poco dopo cominciò a offrire una gamma più ampia di cibi, sempre con l'intenzione che fossero salutari.
A Palermo, diversi decenni fa, succedeva una cosa curiosa: c’erano un paio di posti, uno alla Vuccirìa, un altro al Capo, ove si celebrava una sorta di ritorno alle origini. Come nei primi restaurants vi consumava solo brodo, qui arricchito dalle carni grasse e ossute che vi si erano disfatte dentro, ma come nelle tables d'hôte c’era molta promiscuità, un vero e proprio andirivieni, e la grande, visibile, pignatta sempre in ebollizione, alimentata da nuovi pezzi di carne e nuova acqua, non dava l’idea della massima pulizia.

Credo che ci sia ancora dalle parti della Vuccirìa un esercizio che dichiara di essere l’antica casa del brodo, ma si tratta di un normale ristorante.  

I giorni della merla e Giulio Cesare

Invernale. Una fotografia di Dani Purcaru
Sul “Corriere” Isabella Bossi Fedrigotti  cura la rubrica La lettera, che consiste appunto nella pubblicazione della missiva di un lettore, cui si dà – se pare il caso – risposta. Il 28 gennaio scorso la lettera aveva come tema i “giorni della merla”, quegli ultimi giorni di gennaio considerati per tradizione i più rigidi dell’intero anno. Ne era autore tal Pellegrino. Riprendo qui il suo testo, che soddisfa molte curiosità, con la breve risposta della giornalista. (S.L.L.)
 
Susina nel gelo. Una fotografia di Dani Purcaru
La lettera
Gentile signora,
mi domando: è mai possibile che si seguiti a prestar fede alla panzana dei tre dì de la Merla, e cioè che gli ultimi tre giorni di gennaio siano i più freddi dell’anno, come starebbe a testimoniare quella merla che per ripararsi dal gelo andò a posarsi sull’orlo di un comignolo fumante e dopo, da bianca che era, per la caligine divenne più nera della notte; e così pure tutti i suoi simili?
Via, smettiamola di credere a queste fanfaluche e consultiamo piuttosto la fornitissima biblioteca di Don Ferrante il quale, a detta del Manzoni, era oltremodo versato «in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più riputati in somma».
Ebbene, costoro ci rivelerebbero come, al tempo di Mediolanum, Giulio Cesare, di ritorno dalle Gallie, incaricasse un certo Cornelio Merula, sacerdote del sommo Giove nonché valente astronomo, di riformargli il calendario. Che fece costui? Semplice. Prese a prestito tre giorni di febbraio e li aggiunse a gennaio, e così da allora furono chiamati i giorni di Merula che poi il popolino, solito a storpiare i nomi di cui non intende bene il significato, ribattezzò di Merla.
Ma siamo poi sicuri che i giorni della Merla siano davvero i più freddi dell’anno? E l’«effetto serra» dove lo mettete? Vogliamo scommettere che quest’anno i fatali tre giorni non saranno poi tanto gelidi, un po’ come capitò nel lontano 1948? Quel gennaio fu infatti caratterizzato da un capriccioso alternarsi di splendide giornate di sole e di massicci annuvolamenti apportatori di piogge che, tuttavia, non si tramutarono quasi mai in nevicate per via delle temperature miti. E così il Comune dovette tenere nei depositi gli spartineve di cui s’era provvisto per riscattare la figuraccia dell’anno prima allorché un’eccezionale nevicata aveva colto tutti impreparati. La benigna combinazione climatica indusse un precoce risveglio della natura, sì che gli acciottolati cittadini, le soglie delle case e, persino, le crepe nei marciapiedi si ricoprirono di un verdeggiante manto di erbetta, gli alberi s’imperlarono di gemme e i cespugli di sambuco dei Giardini e del Parco aprirono i loro bottoni in anticipo. E dei tre dì de la Merla, manco a parlarne.
Bruno Pellegrino

La risposta
Ringraziandola per le interessanti informazioni, temo, tuttavia, che quest’anno lei perderà la sua scommessa. Per domani 29 è, infatti, addirittura annunciata neve su Milano con temperature in notevole calo un po’ dappertutto: nonostante l’effetto serra. Svelato il mistero della «merla», resta però da capire perché i suoi tre giorni siano tradizionalmente considerati i più freddi.
Isabella Bossi Fedrigotti


dal Corriere della Sera 28 gennaio 2014

L'utopia moderna di Dante. Luciano Canfora legge la «Monarchia»

La Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all'Indice dei libri proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant'Uffizio nel 1559. La ragione di ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava - col suo trattato politico - contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità.
Pur consapevoli del rischio di frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a volta regnanti. I quali - in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di poteri vastissimi - possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta. Come vediamo ancora oggi.
Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l'impero (si passi l'espressione metaforica). Nel primo libro di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace universale che ne è il portato, il fine supremo: l'attuazione e il pieno dispiegamento dell'intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico. Nel secondo libro rivendica, come già nel Convivio, al popolo romano il diritto all'impero. Nel terzo affronta il tema più delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del «Vicario». E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all'intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell'uomo - cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia - è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l'uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l'impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede.
Questo impianto teorico spiega bene perché a Giustiniano, cioè all'imperatore cesaropapista per eccellenza, venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l'esaltante elogio di Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l'idea di una pace universale conseguente all'unico governo universale. Tale governo però viene concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi non veda in tale concezione l'utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all'arroganza di singole potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.


Corriere della Sera, 7 ottobre 2013

Il ritorno dei Re Magi (Pietro Citati)

Nei Vangeli, l'apparizione dei Magi è timidissima. Ignoriamo chi siano i Magi che, nel Vangelo di Matteo (l'unico che li ricorda), giungono da Oriente: sappiamo soltanto che seguono una stella, giungono a Betlemme, entrano nella casa di Giuseppe e Maria, vedono il bambino, si prostrano, gli rendono omaggio e gli offrono i doni: oro, argento e mirra. Tutto il resto del racconto della Natività, che trionfa nel Vangelo di Luca, viene abolito da Matteo. Non ci sono i pastori e le greggi, l'angelo del Signore, la grande gioia di tutto il popolo, la nascita del Salvatore, la moltitudine dell'esercito celeste che loda Dio: «Gloria a Dio nelle sublimità e sulla terra pace agli uomini della divina benevolenza»; e sopratutto il segno singolarissimo, il paradosso dei paradossi: «Il Cristo, avvolto in fasce che giace in una mangiatoia».
Nel Vangelo di Matteo, abbiamo soltanto questi Magi sconosciuti: saggi pagani, che anticipano la conversione dei popoli stranieri al Signore, mentre Israele lo rifiuta. Il racconto è sobrio e rapido: nessun episodio della Bibbia lo anticipa; tanto che potremmo persino immaginare che sia un particolare indifferente, lasciato cadere a caso da Matteo. Ma, pochi anni dopo l'età dei Vangeli, la vicenda dei Magi diventò la più grande leggenda mitica del Nuovo Testamento: qualcosa di sacro, festoso, tremendo. La pietà popolare vi trovò tutto ciò che desiderava: il brillio delle grandi ricchezze, gli eserciti multicolori, l'Oriente, la misteriosa saggezza dell'Oriente, i minuziosi particolari della vita di Gesù, l'aura della leggenda, il verisimile, l'inverosimile, il vasto, l'ingenuo e il romanzesco, che incantano i semplici e i bambini.
Così la storia dei Magi attraversò arricchendosi i secoli del Medioevo, lo riempì di apparizioni, fino a quando trionfò in un capolavoro: l'Historia Trium Regum di Giovanni di Hildesheim, composto attorno al 1364, e raccolto da Luca Scarlini nel piacevolissimo Natale dei Magi (Einaudi, pagine XXIV-271, 16). Ora, finalmente, i nomi sconosciuti dei tre Magi vennero rivelati: si chiamavano Melkon, Gaspar, Balthasar, oppure Melchior, Jaspar, Balthasar. Ognuno di loro discendeva da una delle tre razze della Bibbia: giungevano dalle diverse regioni d'Oriente; e incarnavano il passato, il presente, il futuro, o i sacerdoti, i guerrieri e i coltivatori.
I narratori del Medioevo inventarono loro un passato, che risaliva fino alle origini del mondo. Quando fu cacciato dal Paradiso Terrestre, Adamo ricevette un dono di Dio che lo legava al suo creatore: un libro scritto, chiuso e sigillato da quella mano meticolosa e onnipossente. Il libro discese le generazioni: venne trasmesso di figlio in figlio; da Mosè ad Abramo a Isacco a Giacobbe a Giuseppe; e finalmente giunse, intatto e immacolato, senza un foglio o una lettera in più o in meno, nelle mani dei Tre Magi. Quando l'angelo del Signore annunciò alla Vergine Maria che sarebbe divenuta madre, in quell'istante medesimo il libro si aprì; e la voce dello Spirito Santo - una voce squillante che non avevano mai ascoltato - annunciò ai Tre Magi di lasciare le loro case, di seguire una stella, e di andare ad adorare un misterioso Neonato. La stella, quasi anonima, del Vangelo di Matteo diventò rapidamente una immensa stella miracolosa. Gettava fiumi e fiumi di luce, che avevano la consistenza dell'acqua di mare: splendeva più di qualsiasi astro o cometa mai conosciuti; anche di quella che, pochi decenni prima, aveva annunciato la nascita di Mitridate re del Ponto. Gli altri astri sembravano offuscarsi e ottenebrarsi dinanzi a quel chiarore sovrabbondante; e danzavano per rendergli omaggio. A poco a poco, la stella si innalzò sopra il mondo, come un'aquila, e rimase immobile, fissa nello stesso punto: il sole si avvicinò sfiorandola, quasi toccandola; e i raggi lunghissimi e ardenti della stella diventavano grandi uccelli che battevano festosamente le ali. Giù in basso, in Persia o a Babilonia o in Caldea, i Magi fissavano il cielo con attenzione spasmodica; e quando gli occhi erano stanchi e quasi ciechi si accorsero che la superficie dell'astro era disegnata da una calligrafia minuziosa e meticolosa: qui c'era l' effigie di un bambino, lì l'immagine di una virgo che allattava, là il disegno di una croce sanguinante. Non sapevano ancora che quei segni sarebbero divenute impronte evangeliche.
I Magi continuarono a fissare per giorni il cielo e compresero che non avevano compreso. La stella miracolosa era un enorme angelo, che aveva preso le forme e lo splendore di una stella: forse lo stesso angelo che, molti secoli prima, aveva guidato i figli di Israele fuori dal vasto carcere dell'Egitto. I tre Magi non si erano mai conosciuti. Venivano da lontano e percorrevano strade diversissime che non si incontravano nella vastità del deserto e delle montagne. Una sola cosa avevano in comune: quella stella, sempre la stessa, sempre diversa, che precedeva ciascuno di loro e i loro eserciti numerosi e coloratissimi; e avanzava quando essi avanzavano. Non sostavano quasi mai: quasi mai toccavano cibi e bevande, e non nutrivano le bestie di foraggio. Camminavano da lungo tempo e tuttavia credevano di aver camminato da una sola giornata, e di aver contemplato un solo tramonto. Mentre procedevano, le vie sconosciute, i corsi d'acqua, le paludi e le montagne diventavano vaste pianure, piene di strade affollate.
Presso Gerusalemme si levò sopra di loro una nebbia densissima e caliginosa, che nascose la stella-angelo. Melchior si fermò presso il monte Calvario; Balthasar presso il monte Oliveto. Quando la nebbia si andò diradando, i tre Magi si incontrarono all'improvviso: non si erano mai visti, non si conoscevano; eppure si baciarono con grande affetto, come se avessero trascorso insieme tutta la vita. Cominciarono a parlare. Si accorsero di parlare lingue diverse: ma ciascuno di loro credeva che gli altri dicessero le loro stesse parole. Quando i tre re giunsero vicino a Betlemme, vestirono gli abiti e gli ornamenti regali, che avevano portato con sé dall'Oriente. Lì vicino c'era una casa chiamata alchan: un tempo custodiva cavalli, muli, asini e cammelli, che venivano offerti ai viaggiatori e ai pellegrini: ma, al tempo dei Magi, la casa era distrutta ed era rimasto soltanto un piccolo tugurio - pareti di mattone, muri sconnessi, un' aia dove si vendeva pane, e una mangiatoia di pietra, grande come un' urna, alla quale erano legati il bue di un mendicante e l' asino di Giuseppe. Era la mangiatoia - «il segno dei segni» - di cui parlava il Vangelo di Luca. La grande stella-angelo si fermò, si abbassò tra i mattoni e i muri di pietra con un fulgore così grande che ogni pietra del tugurio venne accecata e trasfigurata. I Magi furono sconvolti dal timore. Videro Maria, bruna di capelli e di pelle: essa si copriva il capo con un mantello bianco di panno, tranne il viso avvolto nel lino, e con la mano destra reggeva il corpo di Gesù. Allora Melchior offrì a Gesù un pomo d' oro, che stringeva in una mano, ed era già appartenuto ad Alessandro Magno. Rappresentava il mondo nelle sue forme più fastose e vistose. Ma Gesù non aveva bisogno del pomo d' oro e, appena gli fu consegnato, lo frantumò e lo ridusse in polvere con un tocco della sua piccolissima mano. In quel momento cominciò il ritorno. La stella scomparve: nessun barlume celeste ricordava ai Magi che un grande angelo li aveva illuminati per due settimane. Le strade erano oscure, scoscese e incerte. Se il primo viaggio era durato dodici giorni, quello di ritorno, pieno di ansie, di pene e di fatiche, durò due anni. La notte, come tutti i viaggiatori, i Magi si fermavano nelle locande, chiedendo cibo, aiuto e soccorso. Ebbero timore e tremore. Alla fine dei due anni riuscirono a ritornare a casa, portando uno strano regalo. Quando avevano lasciato Betlemme, Maria aveva donato loro una fascia, come ricordo. In Oriente i Re e i principi si raccolsero attorno ai Magi, domandando cosa avevano visto e cosa avevano fatto, in che modo erano andati e ritornati, e cosa avevano portato con loro. Essi mostrarono la fascia di Maria. Celebrarono una festa, accesero il fuoco e, secondo l'usanza zoroastriana, lo adorarono e vi gettarono sopra la fascia. Il fuoco la avvolse e la accartocciò: ma, quando il fuoco si spense, estrassero la fascia dalle ceneri, come se la fiamma non l'avesse nemmeno toccata. Dunque la verità - dissero i Magi - non era il fuoco d'Oriente: ma la fascia di Maria, la mangiatoia del Bambino, la croce disegnata sulla stella, l'astro-angelo che li aveva protetti, il tugurio pieno di splendore. I Magi presero la fascia, la baciarono, e se la misero sul capo e sugli occhi, dicendo: «Questa è la verità». Poi la nascosero con grande venerazione tra i loro tesori. Infine, nelle loro remote e quasi inattingibili sedi d' Oriente, i tre Magi cedettero alla forza del tempo. Melchior aveva centosedici anni, Balthasar centododici, Jaspar centosei. Poco prima che morissero, sopra la loro città apparve una stella: la stessa che li aveva guidati a Betlemme; e ora ricomparve, a salutarli e forse ad accompagnarli per l'ultima volta. Nell'ottava della Natività del Signore, dopo aver celebrato l'Ufficio divino, Melchior chinò la testa e dolcemente si addormentò nel grembo di Dio, senza provare nessun dolore. Nella festa dell'Epifania, chinò il capo Balthasar: sei giorni dopo, Jaspar. Gli aiutanti li rivestirono con i loro sontuosi abiti regali e sacerdotali: poi li seppellirono nello stesso sepolcro; in piedi, l'uno accanto all' altro, come se percorressero ancora le strade di Palestina, mentre l'astro-angelo li guidava verso la più conosciuta e sconosciuta delle grotte.


Corriere della Sera, 20 dicembre 2011

26.2.14

Chi era davvero Giovanna d’Arco? (Isabella Bossi Fedrigotti)

La cattura di Giovanna d'Arco
Chi era davvero Giovanna d’Arco?
Una contadina guerriera, come racconta il mito, che ruppe l’assedio inglese davanti a Orléans facilitando la salita al trono di Francia del flebile Carlo di Valois, il quale poi non mosse un dito per salvarla dal rogo cui la condannò il terribile Cauchon, vescovo filoinglese di Beauvais?
Oppure, come suggerisce un filone storiografico, una bastarda di casa reale manovrata dalla corte francese tra i vari fronti della guerra dei cento anni e sfuggita al rogo grazie a una controfigura sacrificata al suo posto?
Per scrivere il suo nuovissimo libro, Il fuoco di Jeanne (Guanda), Marta Morazzoni si è mossa alla ricerca della pulzella, conscia, già alla partenza, di non poter trovare una vera verità. Quel «si è mossa» è da prendere alla lettera, perché, come uno scrupoloso inviato speciale, l’autrice è andata, più e più volte, sui luoghi «dove si sono svolti i fatti». Che non sono soltanto Domrémy, dove Giovanna nacque nel 1412, Orléans, la città che liberò dall’assedio e Rouen, luogo del rogo finale, ma tutte le altre località nelle quali la ragazza combatté, e cioè Jargeau, Meung sur Loire, Beaugency, Patay e Compiegne. Cui si aggiungono un’infinità di chiese e musei sparsi in tutta la Francia che conservano suoi ritratti e cimeli; senza escludere il castello di Jaulny, oggi trasformato in bed and breakfast, al tempo dimora di Robert d’Armoise, marito di quella Jeanne d’Arc che, secondo l’altro mito, nacque di sangue reale e si salvò dal fuoco.
Ma la ricerca comprende diversi luoghi ancora, tutti quelli, per esempio, che, in qualche modo, stanno in relazione con Carlo di Valois, lo schivo, tentennante sovrano miracolato dall’ardita giovane guerriera.
La ricerca, che porta l’autrice attraverso il cuore della Francia, oscilla tra il diario di viaggio, l’analisi storica, la riflessione filosofica e, naturalmente, la narrazione letteraria, poetica, che unifica il tutto e trasforma il libro dall’identità a prima vista incerta in lettura appassionante sulle tracce del mito. Una intellettualissima guida alle terre di Giovanna d’Arco si potrebbe, in fondo, definire il libro, e peccato - vien da pensare - che i grandi scrittori non si dedichino più spesso a suggerire la strada al viaggiatore.
Assieme al mito, meglio, alle tracce più o meno marcate che il mito ha lasciato, la lettura de Il fuoco di Jeanne rivela, come del resto quasi sempre succede, anche l’autore. Molto dell’autore, anzi, dell’autrice, in questo caso: perché Marta Morazzoni entra nel racconto in prima persona, fa sentire la sua voce e le sue riflessioni, parla, annota, descrive il viaggio, permettendo al lettore di partecipare alla sua ricerca. Ricerca che culmina, simbolicamente significando la sua sostanziale impossibilità, nella visita alla Bibliothèque Nationale in rue Richelieu a Parigi, dove sono conservati gli atti e le testimonianze del processo che condannò al rogo la pulzella. Sfogliare il prezioso volume con gli antichi documenti, solennemente portato in superficie dal montacarichi, sotto lo sguardo irritato dell’altero bibliotecario, già non deve essere stato facile; decisamente frustrante - confessa l’autrice - dover constatare di non riuscire a decifrare nemmeno una parola dell’antica grafia gotica, facendo comunque finta, per non dare troppa soddisfazione all’altezzoso custode dei luoghi, di soffermarsi su alcune pagine con particolare interesse.
Se non gli atti del processo, la scrittrice ha però letto un’infinità di parole riguardanti la santa protettrice di Francia: su iscrizioni, epigrafi, epitaffi e, naturalmente dentro gli innumerevoli libri consultati, di storici di tutte le epoche che le hanno dedicato i loro studi. E quel che inevitabilmente ella è costretta a cogliere da tutto il materiale esaminato è che non ci può in alcun modo essere un finale felice della storia; che la vicenda è comunque tristissima, perversa, anche se la pulzella in realtà fosse stata una principessa di sangue reale, con parenti importanti che in extremis la salvarono dal rogo.
In tal caso, infatti, un’altra donna o ragazza, un’altra «strega» fu sacrificata al suo posto, sfortunatissima controfigura, povera sventurata della quale non rimane neppure la memoria di un viso, di un nome.

Corriere della Sera, 18 gennaio 2014

In Maremma. Quando la cucina non buttava via nulla (Pietro Citati)

Questa, di Pietro Citati, mi è sembrata una pagina molto ispirata, non solo sulla Maremma, ma su una civiltà contadina, di cui quelli della mia generazione hanno conosciuto i bagliori del tramonto e che è poi quasi scomparsa.
Forse una nuova generazione di contadini si prepara. Forse essa, cercandone le orme, cercherà di recuperare quel che potrà da quel grande patrimonio di sapienza, tecnica ed etica, che fu la civiltà contadina in Italia. Chi vivrà vedrà. Intanto la bella e semplice prosa di questa pagina di Citati ecciterà la memoria di noi più vecchi e forse la curiosità di qualche giovane, anche per la ricetta dell’acqua cotta. (S.L.L.)
Anni 50 del Novecento. Massaia dell'Italia centrale
Fino a venticinque anni, ho passato le mie estati in un paese minimo: la Liguria occidentale. Tutto vi era minimo: le spiagge, gli scogli, gli uliveti, i pini sulle colline, le mimose, le serre di pomodori e di garofani, di carciofi e di orchidee, i paesi medioevali, i muretti a secco, i mazzi di lavanda e di rosmarino; e una mente egualmente molecolare vedeva nel mondo una moltitudine di forme quasi invisibili.
Dopo il 1955, passai le estati in Maremma: nei poderi immensi, di cinquecento o mille ettari, e poi nelle colline che salivano lentamente verso Siena. Non avevo mai conosciuto un paesaggio simile. Non ero abituato alle grandi proporzioni, e da principio esse mi fecero quasi terrore. Qui c'era spazio: un enorme spazio; i maremmani costruirono poco, agirono poco, comprendendo che la massima qualità dell'uomo, mentre s'affaccia al mondo, deve essere la discrezione. Non agire: lasciare che qualcosa accada, perché, comunque, accadrà. Non farsi vedere.
Guidavi la macchina per ottanta chilometri, e non incontravi nemmeno un essere umano: solo grandi boschi di lecci, di castagni e di sughere, foreste alla Altdorfer, miniere abbandonate, un piccolo lago azzurro e verde come in un quadro di Poussin, una chiesa cistercense scoperchiata, una chiesa di onice, una cappella quasi micenea, un paese con le torri e le case bianche di Giotto. E poi, all'improvviso, ai piedi di un castagno secolare, vedevi un alto pianoro: verdissimo, circondato da boschi. Pensavi all'«umile Italia» di Virgilio. Nulla era più antico di questo luogo: persino i confini tra i campi dovevano risalire al quarto secolo; e poi ti accorgevi che proprio qui, milleduecento anni fa, si accampò l'esercito di Carlo Magno, che scendeva verso Roma.
La fattoria della Maremma era un microcosmo. Vi si coltivava il grano, il granturco, l'ulivo, la vigna, la frutta: le grandi stalle nascondevano buoi, mucche e maiali. Il contadino maremmano era una specie di uomo universale: sapeva fare di tutto: conosceva ogni cultura; secondo le ore della giornata, era contadino, frutticultore, giardiniere, boscaiolo, idraulico, elettricista, fabbro, muratore, falegname. Quale deposito di sapienza agricola e umana, quale passione per la campagna, quale attenzione, quale scrupolo si siano raccolti nelle fattorie, oggi è quasi impossibile immaginare. La sapienza nel prevedere, l'amore per la realtà, l'attenzione per ogni particolare, lo scrupolo nel non sprecare nulla, la precisione dello sguardo, la fermezza delle linee, una fantasia tanto più ricca quanto più segreta, una passione che nulla limitava, una specie di nobile dilettantismo... Sembrava, a volte, che dalla precisione di una potatura dipendesse la salvezza della terra.
Era un mondo tragico, chiuso, concentratissimo: vi si raccoglieva una quasi intollerabile violenza di affetti, uno spaventoso senso del possesso, un odio verso ciò che era straniero. Non c'era un attimo di distensione. Pareva che un albero che non portasse un beneficio immediato, un gatto o un cane che si aggirassero liberamente nel giardino o nell' aia fossero nemici che bisognava abbattere a ogni costo. Fino a sessant'anni fa, la Maremma era una regione povera: talvolta poverissima. La festa del cibo avveniva a dicembre o a gennaio, quando si uccideva il maiale: era una specie di raptus dionisiaco, ma spesso un solo maiale apparteneva a più famiglie e doveva durare per un anno intero. Il simbolo della civiltà culinaria maremmana era invece una specie di minestra, che aveva un nome bellissimo: l'acqua cotta. Era il cibo dei poveri: non costava quasi niente: veniva fatta d'avanzi e di erbe trovate nei prati; e il suo suono giocoso faceva capire che non si trattava nemmeno di un cibo, ma di uno scherzo con l'acqua del mondo. La massaia preparava il pane una volta la settimana: lo custodiva in una grande madia; e, alla fine della settimana, il pane era secco, quasi raffermo. La mattina del settimo giorno la massaia raccoglieva le verdure e le erbe: soprattutto cipolla, sedano, radicchio di campo. Un poco d'olio li inumidiva. Poi c'era l'uovo: non costava molto, giacché qualche gallina razzolava sempre nell'orto dietro casa; eppure un uovo doveva bastare per sei porzioni. A questo punto, la massaia impugnava la padella, e soffriggeva la cipolla, il sedano e il radicchio. Pomodoro e acqua riempivano la padella fino all'orlo. Sotto la sorveglianza degli occhi svagati delle ragazze di casa, tutto bolliva e ribolliva per circa un'ora. Restava un ultimo gesto. La massaia tagliava meticolosamente il pane secco o raffermo in fette sottili: le disponeva nella zuppiera; e rovesciava cipolla, sedano, radicchio di campo, sale, pomodoro, acqua caldissima sopra le magre fette di pane. Raccomando l'acqua cotta a tutti coloro che coltivino le infinite forme della minestra. Non ne conosco una migliore: il giorno dopo, o due giorni dopo, è ancora più umida, sottile e profumata.


Corriere della Sera, 28 agosto 2011

Omaggio a Elio Vittorini (Bo, Crovi, Ferrata, Fortini)

Elio Vittorini con gatto

Dibattito radiofonico per il terzo programma RAI fra Carlo Bo, Raffaele Crovi, Giansiro Ferrata, Franco Fortini, 1966,
poi nella rivista “Terzo Programma”, 3, luglio-settembre 1966

BO
Alla notizia della morte di Vittorini tutta la cultura italiana e non soltanto italiana, ma anche quella francese – ha reagito in modo particolare. E questo perché Vittorini era, se possiamo dire così, una creatura di eccezione. Non è stato soltanto uno scrittore di grandissimo ingegno, come ne compaiono raramente in un secolo, ma egli è stato proprio per la gentilezza, per la particolarità della sua natura, una specie di guida nel senso buono; è stato una guida attiva. E sin dai primi anni della sua apparizione nella letteratura, vale a dire dagli anni fiorentini, il Vittorini ha esercitato una specie di fascino sui giovani e su quelli che erano, anzi, più vecchi di lui; possiamo citare ad esempio Montale, Loria e tutti gli amici di“ Solaria”.
È un po’ difficile in poche parole riassumere quello che è stato Vittorini per la letteratura, per la cultura italiana; diciamo pure, anche per la vita della nazione in questi ultimi 35-40 anni. Siamo qui, oggi, convenuti per un dibattito; e accanto a me c’è uno dei suoi più vecchi amici, Giansiro Ferrata che l’ha conosciuto, appunto, quando Vittorini è passato per la prima volta da Firenze; c’è Franco Fortini, che appartiene a un’altra generazione, ad una generazione più giovane, che ha avuto modo di conoscere Vittorini a Milano, negli anni della guerra, e di collaborare poi con lui a quella che è stata una rivista molto importante, “Il Politecnico”; e infine c’è anche Raffaele Crovi, che è il più giovane di tutti noi che siamo qui e che è stato vicino, giorno per giorno, a Vittorini, dal 1955 al 1966.
Io penso che convenga subito sentire da questi amici che cosa è stato Vittorini per queste tre generazioni. Siamo naturalmente una specie di campionario, intorno a questo tavolo infatti potrebbero sedersi moltissime altre persone, perché Vittorini è stato veramente un sollecitatore di tutta la gioventù italiana, possiamo dire, dal 1936 in poi. E scelgo appunto questa data, perché è l’anno della guerra di Spagna, quando Vittorini prende veramente coscienza della sua personalità, della sua figura, della sua forza. Ed ha, come dicevo prima, guidato, ha accompagnato tutti i giovani italiani con un senso di partecipazione, con quella sorta di ottimismo che aveva e quella fiducia nell’uomo che è stata una cosa rarissima, soprattutto nell’ambito della nostra cultura. E, cominciamo, appunto, con Giansiro Ferrata, perché egli ha assistito da vicino Vittorini, ha dialogato con lui. È partito per questa amicizia dal 1928-29.

FERRATA
Dal ’29. Nel 1929, quando incontrai Elio per la prima volta, “Solaria” svolgeva il suo lavoro da due o tre anni. Egli aveva collaborato a “Solaria” già con alcuni racconti. Noi lo vedemmo passare nei primi mesi del 1929, Vittorini, che allora aveva 21 anni soltanto, ed era ammogliato con la sorella di Salvatore Quasimodo ed aveva un figlio, Giusto, che aveva un anno, credo. Era lui stesso, Vittorini, quasi un ragazzino, nel fisico; estremamente magro, sottile, già con una grazia, già con un fascino, come diceva appunto Bo. Un carattere del tutto singolare, che nasceva, insieme, dalla sua grande forza intellettuale, dalla sua libertà, in tutti i sensi, dal suo ingegno letterario, dal suo impegno civile, nel senso in cui poteva sin da allora sentirlo, e da tutto un insieme di cose che ne facevano, oltre che uno scrittore tra i più interessanti, subito, nella sua generazione, uno tra gli uomini di più singolari attrattive.
E noi rimpiangemmo – dico noi dicendo Montale, Bonsanti, Loria, Gadda, eccetera; quelli che erano più legati, come me, all’ambiente di “ Solaria” – che questa specie di enfant prodige estremamente simpatico ed estremamente semplice, non potesse fermarsi con noi a vivere e a lavorare nel nostro stesso ambiente, perché stava, appunto, andando a Gorizia, dove gli era stato offerto un posto di assistente ai lavori pubblici. E lui, per spirito di avventura, in parte, e in parte perché aveva pochissime fonti di guadagno, andava lassù a svolgere questo lavoro.
Lui siracusano, figlio di ferroviere, uomo di estrazione piuttosto modesta, che aveva stentato sempre moltissimo a vivere, come i suoi fratelli. Vittorini arrivò, dunque, a Gorizia, e poco dopo ci scrisse lettere desolate, dalle quali appariva chiaro che gli era stato giocato un brutto tiro, perché lui che era andato appunto dall’estremo Sud d’Italia all’estremo Nord per occupare questo posto di lavoro, trovò invece lassù che il posto di lavoro non era a sua disposizione. Poté svolgere una parte, così, di questa attività, e dopo non sapeva più come fare, anche perché per le proteste dei lettori meno intelligenti de “La Stampa”, allora, nel 1929, in piena epoca fascista, contro gli articoli che Vittorini scriveva su Stendhal, su Proust, sul sinistro De La Chambre, come allora diceva Elio, e che erano articoli in parte a chiave, il direttore di allora della “Stampa”, Curzio Malaparte, che era amico di Vittorini, e lo aveva anche in alcune occasioni protetto, essendo divenuto anche lui, forse in quel momento, inviso a parecchi fascisti (poco dopo dovette lasciare, infatti, il posto di direttore), scrisse un letterino rapido a Vittorini, in cui gli comunicava che la sua collaborazione a “La Stampa” doveva ritenersi troncata.
Vittorini si trovava, quindi, nella situazione più tragica, nella quale possa trovarsi un uomo giovane al quale fanno già capo delle persone che devono vivere di lui. Poté però ottenere, grazie ad alcuni amici, un appoggio per vivere
a Firenze; s’impiegò come correttore di bozze a “La Nazione” in un primo tempo; poi in un settimanale fiorentino svolse un lavoro critico e cominciò, soprattutto, quel lavoro di traduzione, che gli venne trovato in particolare da Montale e da alcuni amici di Montale, quel lavoro di traduzione dall’inglese che lui intanto stava studiando, e che gli permise di diventare in breve uno dei più attivi importatori di cultura nuova, giovane, che si sia avuto in Italia. Ed io ricordo subito il suo ingresso in “Solaria” come un intervento animatore, nel senso, appunto, di una cultura internazionale. Mentre “Solaria” era una rivista già aperta, ma piuttosto portata a guardare, semmai, verso Parigi, oltre che verso Firenze e Roma, Elio – che guardava moltissimo a Parigi e guardava moltissimo a Firenze, a Roma, a Milano, – portò anche subito qualcosa di più ricco, cioè un guardare non soltanto a Parigi, ma un cercare semmai a Parigi anche quello che confluiva da altre zone, anche lontane.
E tutto il suo occuparsi di cultura, non soltanto in senso letterario, ma anche per i più vari problemi – subito si vide che in lui c’era un elemento culturale ricco, complesso, che gli interessava quanto la letteratura, nella quale cominciava già a segnalarsi con forza – diede indubbiamente alla rivista una spinta fondamentale.
Io vidi poi nascere, nel periodo “solariano”, essendo molto amico a Elio, le sue prime opere, i suoi primi libri, da quella Piccola Borghesia ancora così piena di freschezza, a quello che è il suo primo libro compiuto, Il garofano rosso, romanzo al quale lui premise, poi, una prefazione nuova, dopo l’ultima guerra, e che quindi lui sostenne ancora come un’opera importante della sua adolescenza, della sua giovinezza; e poi, infine, il libro che forse per primo segna il passaggio al Vittorini maturo, Il viaggio in Sardegna. Dal Viaggio in Sardegna in poi venne veramente, circa nel 1935, come accennava Bo poco fa, il periodo fondamentale per lo sviluppo letterario di Elio. E fu il periodo della guerra di Spagna; periodo in cui “Solaria” aveva già cessato le sue pubblicazioni, da poco tempo, e cominciava a venire sostituita, come lo sarebbe stata poi nel ’37, dalla nuova rivista “Letteratura”, che continua su una scala più vasta quello che era stato, in parte, il lavoro di “ Solaria”, prima.
Vittorini pubblicò proprio in “Letteratura” l’opera che secondo me, secondo moltissimi, rimane ancora la sua maggiore, il suo capolavoro si può ben dire, cioè quella Conversazione in Sicilia che riguarda, per una parte vivissima, la stessa Sicilia, come riguarda l’Italia in genere; ma che riguarda certamente, per una parte altrettanto viva, la Spagna. Perché è molto facile leggere, come attraverso l’inchiostro simpatico, attraverso un foglio trasparente, in molte delle notizie che si danno in quel libro – che non è soltanto un libro di alta poesia narrativa, ma è anche un libro di dialogo, e di profonda ricerca spirituale – quale era veramente il tema che turbava anche Vittorini : e cioè il suo “ sinistrismo”; e non ho nessun falso pudore nel dire che si trattava anche di un fascismo di sinistra, allora, per il giovanissimo Vittorini. Vittorini aveva portato da Siracusa una sua polemica antiliberalistica, anticonservatrice, che, in determinate circostanze, lo aveva reso ancora vicino a certi ambienti fascisti di sinistra. E fu appunto, come poi per parecchi altri, quello, il periodo della guerra di Spagna, che fece maturare in lui una rottura netta. E tutto il libro, tutta la Conversazione in Sicilia, è in funzione di quel dibattito.

BO
Se permetti, ti vorrei interrompere, appunto per dire che se si prendesse la collezione di un giornale fascista, che era il giornale della Federazione di Firenze, “II Bargello”, lì si potrebbe vedere come è avvenuta questa trasformazione dall’interno, di Vittorini. Mancavano infatti notizie sull’atteggiamento ufficiale dell’Italia, cioè nei primi tempi non si sapeva da che parte si era schierata l’Italia; e Vittorini e i suoi amici – mi pare che ci fosse anche Pasolini, allora – hanno avuto, quindi, mano libera, almeno per due mesi, per i mesi del luglio e dell’agosto del ’36. Appunto, se si andasse andasse a tirare fuori questo giornale dimenticato, si vedrebbe come Vittorini ha preso coscienza dell’importanza della guerra di Spagna. E a questo proposito vorrei aggiungere un’altra cosa. Io avevo tradotto due o tre poesie di Lorca, le avevo tradotte da letterato, non essendo informato della situazione reale della Spagna e della posizione che aveva assunto Lorca; ed è stato appunto Vittorini, al tempo di “Letteratura”, a farmi incontrare con un inglese che aveva portato dalla Spagna, dove aveva combattuto, delle poesie di Lorca. Sono, appunto, le poesie che ho tradotto in maggior numero per la rivista “Letteratura”. È questo un debito che voglio riconoscere qui, pubblicamente, a Vittorini.
Negli stessi anni era avvenuto il passaggio, se non sbaglio, da Firenze a Milano dove Vittorini aveva preso a tradurre per una casa editrice e dove a un certo punto si era trasferito, anche perché aveva una forte simpatia per Milano, che è sempre poi rimasta la sua città. Tante volte ha dichiarato, appunto, che Milano era l’unica città italiana che avesse un carattere europeo. Giunto a Milano, non solo ha continuato a tradurre, ma ha iniziato quell’altra sua attività di consigliere, di suggeritore della vita editoriale.
Ecco, ora io penso che Ferrata potrebbe dire...

FERRATA
Molto in breve, per passare la parola a Franco Fortini, che ci parlerà di un’altra fase... Io vidi Vittorini venire a Milano, allora; anzi, stavamo facendo, allora, un libro insieme, che è La tragica vicenda di Carlo III, un libro storico. E voglio dire che allora tutti gli studi storici importavano a Vittorini moltissimo; Michele Amari, e altri storici, anche viventi, lo interessavano per i suoi studi personali e poi entrarono a far parte di questa prima collezione che lui diresse per la casa Bompiani, la collezione “Corona”, che fu, tra le sue attività editoriali, una delle passioni di Vittorini. Uno dei motivi della nostra amicizia iniziale anzi fu il ricordo che tutti e due avevamo della piccola Collezione Universale Sonzogno... E Vittorini ebbe subito questa passione di realizzare una nuova Collezione Universale Sonzogno, dandole però, come lui faceva sempre, un carattere del tutto nuovo.
E qui vorrei dire solo due cose, per poter poi concludere: la prima è che “Corona” si inizia proprio con degli scritti di Carlo Cattaneo: India, Messico,Cina. E l’interesse per Cattaneo che fin da allora, per Vittorini e per me, era stato anche uno dei motivi del nostro dialogo continuo, stabiliva già il passaggio, in un certo senso, verso il “Politecnico”, perché, come tutti sanno, il “Politecnico”, il vecchio “Politecnico” del Secolo XIX, era stato creato da Cattaneo.
Un’altra cosa che voglio dire su un altro piano – e qui la metto come ipotesi, girandola appunto a Fortini – è che contribuirono enormemente allo sviluppo delle idee di Vittorini verso il “Politecnico”, così come lo realizzò subito dopo il ’45, cioè subito dopo la Liberazione, due altre persone che purtroppo morirono durante la guerra in circostanze, tutte e due, estremamente tragiche, Giaime Pintor ed Eugenio Curiel. Giaime Pintor amicissimo a Vittorini già prima della guerra e che gli era vicino in tutti i sensi, anche per la collaborazione a riviste letterarie, per il modo con cui appunto cultura, letteratura, politica per loro si incrociavano, sarebbe stato certamente, se fosse sopravvissuto al salto su una mina mentre andava dal Nord al Sud durante la guerra, da partigiano, uno dei fondatori, e tra i più autorevoli, del “Politecnico” . E poi l’altro, Eugenio Curiel, la cui importanza sta proprio nell’essere stato il primo ad orientare Vittorini, che già vi si era portato in un modo però forse un po’ patetico e letterario, verso le scienze. E qui vorrei che Fortini, che fu redattore del “Politecnico”, ci parlasse, appunto, di questa esperienza alla quale io stesso ho partecipato.

FORTINI
Ho conosciuto Vittorini a Firenze sulle pagine di “Letteratura”, dove compariva Conversazione in Sicilia, ma non ho avuto occasione di incontrarlo di persona fino al ’43, proprio nei giorni di Badoglio; in uniforme da sottotenente di fanteria mi recai nella sede, sconquassata dalle bombe, della casa editrice Bompiani, per parlargli di una traduzione che volevo fare per la collezione “Corona” che egli curava per Bompiani. In occasione di questo primo incontro, rammento benissimo che Elio mi parlò della possibilità, una volta finita la guerra (e la fine sembrava imminente) di creare una rivista, una pubblicazione culturale destinata a giovani di tutte le classi sociali ma che si rivolgesse anche e soprattutto ai giovani lavoratori in quell’età (diceva) nella quale tutti sono intellettuali.
Era il primo germe del “ Politecnico”. Dovevano passare quei venti mesi e dovevamo venire nell’estate del ’45, perché incontrassi di nuovo Vittorini. Nei miei confronti Vittorini è stato quello che poi è stato per moltissimi altri; ha aiutato la mia nascita d’autore. Perché proprio durante quell’estate feci leggere a Elio i miei primi versi che Elio poi mi aiutò a pubblicare presso l’editore Einaudi.
Dopo la breve permanenza sua come direttore, e mia come redattore, a un giornale (“Milano Sera”) che comparve quell’estate, dovevamo ritrovarci ancora, agli inizi del settembre ’45, presso una sede Einaudi, in viale Tunisia, dove – con modi che a me sembravano misteriosi, perché Elio era riservato – si stava preparando la pubblicazione settimanale che si sarebbe chiamata “Il Politecnico”.
Quello che è stato “Il Politecnico” è oggi difficile a dirsi, perché bisogna ricollocarlo nell’atmosfera estremamente tesa, drammatica, convulsa, di quei mesi. Certo è stato, per Elio e per noi che gli eravamo vicini, un impegno totale. Il “Politecnico” era un foglio settimanale che non soltanto si rivolgeva ai ceti intellettuali, ma ai nuovi italiani. Non posso dimenticare l’emozione che dava il vedere “Il Politecnico” affisso, impastato, sui muri di Milano come uno dei tanti manifesti politici di allora; vedere, dicevo, nell’aria aperta, pubblica, di quell’inverno di miseria e di speranza, una pagina con i testi di poeti e di scrittori che avevamo considerato fino ad allora riservati a pochi e che per molti anni ci avevano accompagnato in una condizione di semiclandestinità. Era qualcosa – lo sapevamo – che era successo solo nella Russia della guerra civile e nella Spagna rivoluzionaria.
Elio era circondato da un affetto e da una fama che non teneva soltanto alla sua arte di scrittore, ma anche alla figura assunta nel corso della Resistenza; e al libro che di quella Resistenza parlava – Uomini e no – pubblicato proprio in quel periodo. Quindi ci accadeva spesso di vedere Elio circondato da quei “non addetti ai lavori” che allora egli preferiva certamente agli “addetti”. Fin da allora si poteva notare quella energica insofferenza di Vittorini nei confronti del letterato propriamente detto che lo ha accompagnato per tutta la vita. Non è qui il caso di rifare la storia interna della rivista “II Politecnico”, delle sue contraddizioni, delle tensioni che essa determinava. E la testimonianza dell’importanza del lavoro svolto da Elio (e, in una minore misura, da noi) sta nel fatto che tutta una generazione di italiani, si può dire, ha scoperto verità sulle pagine di quel settimanale.
C’era, naturalmente, l’aspetto propriamente politico della rivista, che a persone come me, per esempio, rimaneva in penombra, in quanto Vittorini non ne parlava gran che. Solo quando, nel 1947, si determinò la crisi con il Partito Comunista, in occasione della famosa polemica con Togliatti, la redazione prese aperta posizione a favore di Vittorini.
Il lavoro si svolgeva in condizioni molto dure. L’inverno 1945-46 è stato in tutta Europa un inverno particolarmente terribile. La lotta – ché si trattava veramente di lotta – per fare uscire quella rivista e per farla come noi volevamo si fondava su una visione della situazione europea che potremmo oggi dire apocalittica. Era l’anno zero non solo della Germania, in quel momento. Si aveva l’impressione che gli strumenti tradizionali della cultura fossero distrutti; che tutti dovessero far tutto, in una certa misura. Questo era anche uno dei significati della parola “Politecnico”. Quindi c’era una sorta di volontariato culturale che oggi può essere incomprensibile a molti giovani che quell’esperienza non abbiano vissuta.
Sono stati due anni nei quali ho avuto contatto quotidiano e continuo con Vittorini. È molto importante notare che Vittorini non era solo. C’era una evidente diffidenza da una parte, la più tradizionalista, delle nostre lettere. Ma egli ricevette subito, a partire dal primo numero del “Politecnico”, l’appoggio di alcuni uomini di cultura che noi, più giovani o meno scaltriti di lui, potevamo ritenere abbastanza lontani allora dalle posizioni di una rivista come “Il Politecnico”. Penso in particolare a Carlo Bo, che fin dal secondo numero della rivista è intervenuto in quella che è stata la discussione sul tema stesso del “Politecnico”, sulla “ nuova cultura”. In quella occasione Bo è intervenuto in modo che ha animato tutto il primo periodo del “ Politecnico”, fino alla sua trasformazione in mensile. Forse Bo ce ne può dire qualcosa.

BO
Beh, insomma, sì, io ero intervenuto soltanto sulla polemica... Mi pare che Vittorini avesse incluso tra i rappresentanti della cultura anche Cristo; e allora io avevo risposto in modo, così, un po’ risentito, ma sempre affettuoso. Per me Cristo non era cultura. Ma questo mi serve per tratteggiare nuovamente quello che per me era il fondo religioso dell’anima di Vittorini. Aveva questa curiosa aspirazione all’ottimismo. Lui credeva veramente nel Progresso dell’uomo, nella possibilità che l’uomo fosse suscettibile di correzione e di miglioramento. E, quindi, veniva a scontrarsi, caso mai, con la mia visione pessimistica che derivava dal cattolicesimo; ma Vittorini mi aveva insegnato, allora, anche questo, che è un punto molto importante: voglio dire che anche la fede deve essere verificata nell’ambito stesso della vita e deve cominciare dalla partecipazione alla vita degli uomini, a quello che è il riconoscimento della vita quotidiana, degli sforzi dell’uomo della strada.
E vorrei chiudere questa parentesi invitando Fortini a dire quello che ha rappresentato per la cultura italiana, per la vita dell’intelligenza italiana, “Il Politecnico”, prima di passare la parola al Crovi, il quale ha assistito quotidianamente all’evoluzione dell’ultimo Vittorini.

FORTINI
Quello che Bo ha detto sulla “fede” di Vittorini mi sembra verissimo. Mi è accaduto anni fa di scrivere di lui che “credeva alla giovinezza come ad una giustizia”. Era uno dei suoi modi di credere nella giustizia, come una partecipazione immediata e diretta alle cose. “Il Politecnico” ha avuto, a mio avviso, una doppia funzione. Per un verso, la funzione che ci proponevamo, cioè di svegliare a un certo ordine di problemi un largo numero di persone che, più tardi, avrebbero avuto altri strumenti per accedere ad altre nozioni, ad altri elementi di cultura. Per un altro verso ha avuto certamente una notevole importanza – penso soprattutto al secondo “ Politecnico”, a quello mensile – nei confronti degli uomini di cultura italiani. In questo senso: che se oggi noi scorriamo l’indice del “Politecnico” mensile, vi troviamo trattati o toccati quasi tutti gli argomenti` che sono stati oggetto di discussione nei quindici anni seguenti, una gamma vastissima di problemi, che non sono soltanto quelli del rapporto fra politica e cultura, ma che si estendono ai campi più diversi.
Se si guardano gli autori che sono stati pubblicati in quelle pagine, spesso ci stupiamo di vedere che per la prima volta certi nomi, certi autori – penso a Lukács, ad esempio – compaiono per la prima volta in Italia sul “Politecnico”. Ma non si tratta solo di autori e nomi; si tratta di problemi. Ed è interessante notare come nel “Politecnico” mensile si iniziasse (forse sulla scorta di quel programma iniziale del settimanale, che è stato recentemente pubblicato e che fu elaborato da Vittorini e probabilmente da Eugenio Curiel) una collaborazione di tipo scientifico e filosofico che necessariamente era stata assente o quasi dalla fase del settimanale.
Non bruscamente ma attraverso una serie di sussulti e di successi, nel 1947, si chiudeva “ Il Politecnico”.

BO
Ecco, sentiamo un po’ che cosa ne pensa Ferrata; potrà dirci qualche cosa.

FERRATA
Apprezzo molto che Bo e Fortini abbiano insistito su questo elemento religioso che io chiamerei anche elemento morale; in proposito vorrei ricordare come quelli fossero gli anni in cui si veniva scoprendo Gramsci, che fu una scoperta fondamentale per lo sviluppo del “Politecnico”. Antonio Gramsci, uomo che considerava il rapporto tra elementi politici, culturali, letterari, come legato sempre ad un concetto, anche per lui essenziale, quello di attività etico-politica, era stato, in questo senso, estremamente vicino a tutti noi; e fu a un certo momento il nucleo ordinatore di un certo spirito del “Politecnico”, anche nel senso scientifico. Perché, a un certo momento, il “Politecnico” trovò proprio nei comunisti una difficoltà fondamentale al proprio sviluppo? Si è molto insistito sulla parte che avrebbe svolto Togliatti in questo senso; io posso dire nel modo più fermo ed assoluto che Vittorini avrebbe continuato a fare, nel “Politecnico”, la sua polemica con Palmiro Togliatti, perché non la sentì mai come una polemica contraddittoria con l’essenza del “Politecnico”; si trattava sempre di una polemica che avrebbe potuto riportarsi a Gramsci, come a un termine di riferimento e di possibile discussione. A un certo momento, invece, vennero internamente al Partito Comunista altre forze, le quali svolgevano un’azione polemica, che credevano in parte benevola verso “Il Politecnico” stesso; lo volevano insomma correggere, lo volevano migliorare, sembravano voler dire: “ Si, voi siete dei bravi ragazzi ingenui, ma non vi siete accorti che il marxismo è un’altra cosa...”. A questo Vittorini si ribellò. Si ribellò come si ribellava sempre ad ogni attività educativa nei suoi riguardi; quando aveva il senso che fosse un’attività falsamente educativa e pedagogica nel senso peggiore dei termini.

FORTINI
Ne so qualcosa io.

FERRATA
Lo sa Fortini... Ed io posso dire nel modo più modesto e occasionale di aver assistito, in una casa di amici, all’ultimo atto, in un certo senso, della vita del “ Politecnico”, che fu il tentativo in buona fede, da parte di una personalità comunista, di dimostrare a Vittorini che se lui fosse stato presente nella prima fase del “Politecnico”, certi errori non sarebbero stati commessi. La discussione che avvenne in quel momento rese Vittorini così malcontento di certe situazioni che erano venute formandosi (e unendosi a ragioni economiche, editoriali e altre molte difficoltà, e alla sua volontà di lavorare più direttamente come scrittore) da indurlo a chiudere il “Politecnico”.

BO
Ringrazio Ferrata della sua precisazione e chiudiamo pregando l’amico Crovi di dirci che cosa è stato l’ultimo Vittorini, il Vittorini degli ultimi dieci anni.

CROVI
Prima di coinvolgermi nel racconto sul Vittorini degli ultimi anni, in quanto gli sono stato vicino come collaboratore, vorrei dire, a proposito di “Politecnico”, che una delle ragioni che può averne determinato la crisi, che è stata personale di Vittorini ma anche dell’ equipe della rivista, una crisi della cultura italiana che aveva espresso, nell’immediato dopoguerra, “Il Politecnico”, può essere rintracciata nella congiuntura politica di quel momento; Vittorini diceva che “ Il Politecnico” è stato una delle prime vittime della guerra fredda.
Vittorini io l’ho conosciuto da studente universitario. Ero matricola all’Università Cattolica e andai da lui per intervistarlo. Avevamo in progetto di fare un giornale di ateneo, che si chiamò “Dialoghi”, e per il primo numero avevamo pensato di fare un articolo su Vittorini; un articolo su Vittorini e i giovani. Andai da lui per intervistarlo e il discorso si sviluppò, in una serie di incontri, in ufficio e a casa sua : diventò amicizia e l’inizio di un rapporto di collaborazione su cui si è fondata la mia educazione professionale. Anche l’inizio dei nostri rapporti, episodio minimo di una ricerca culturale intesa come dialogo, è indicativo, credo, per giudicare Vittorini. Mi diceva suo fratello Ugo, due giorni dopo la sua morte: “Se Elio avesse vissuto ai tempi di Francesco d’Assisi non sarebbe stato uno scrittore, sarebbe stato un predicatore ed avrebbe espresso il suo slancio etico-politico in quelle forme di educazione. Io sono stato vicino a Vittorini dal ’55 al ’66, nel periodo in cui Vittorini è stato, per sua scelta, più che uno scrittore un animatore culturale. Credo che come scrittore Vittorini si sottovalutasse: era portato ad accentuare il proprio impegno di animatore culturale che lo portava a partecipare agli altri una sua idea della cultura come un fatto collettivo. Delle esperienze vittoriniane di “Solaria” e di “Politecnico” la mia conoscenza è indiretta. Le prime volte che ci incontravamo, Vittorini, nella conversazione che pur riguardava abitualmente problemi semplici, familiari, suggerendomi lo studio di scrittori come Gadda, Montale, Landolfi, Palazzeschi, Svevo, Proust, Faulkner, Joyce, mi proponeva la prospettiva di cultura europea che era stata di “ Solaria” e che fu di “Politecnico”.
È questa la strada di ricerca verso la quale mi ha indirizzato ed è in questa prospettiva che ha cercato di animare il discorso tra lui e i giovani, anche mediante l’esperienza editoriale della collana “Gettoni” in cui ha rivelato tanti giovani scrittori: scrittori come Lalla Romano, Fenoglio, Lucentini, Calvino. Si dice che Vittorini abbia instaurato, nell’ambito delle ricerche della giovane letteratura, la pratica dell’editing, impostando il lavoro di certi narratori, aiutandoli a correggere i propri testi, a tagliarli, ecc. Questo non è esatto. Il suo era un intervento di analisi critica. Non ha mai imposto tagli di testi. Preciso il fatto, per ribadire quale discrezione e umiltà abbia avuto nel suo lavoro di animatore culturale.
Uno scrupolo che lo portava a pubblicare testi di autori in cui, sotto il profilo etico – morale, sotto il profilo ideologico, non credeva con perfetta convinzione. Pubblicava opere, magari discutendole negli stessi testi con cui le presentava.
Era un altro modo per stabilire il dialogo, per renderlo necessario, per provocarne l’inevitabilità: amava definirsi un rompiscatole. Ha svolto un’attività culturale polemica, provocatoria, ma sempre profondamente onesta: la sua poetica, ad esempio, non è mai stata prevaricante nelle sue scelte di giovani autori.
Questo tipo di onestà è, mi pare, ciò che contraddistingue anche l’esperienza successiva, alla quale ho partecipato, cioè quella della rivista “Il Menabò”, dove il lavoro di analisi e di ricerca letteraria, indirizzato soprattutto verso la giovanissima letteratura, è continuato fino a ieri. Quello che Vittorini mi ha insegnato è, quindi, che la cultura non è un fatto didascalico, né un fatto celebrativo, ma un atto di conoscenza: la cultura non è mai, non deve mai essere, cultura nazionalistica, sciovinistica, settoriale, altrimenti non è cultura; la cultura è democratica e quindi un lavoro collettivo.

BO

Con questo intervento di Crovi chiudiamo il nostro dibattito. Ma è inutile dire che si tratta di un dibattito campione. Abbiamo toccato solo alcuni punti della personalità di Vittorini. Eravamo oggi in quattro ma, come ho detto prima, potremmo essere stati in cento, in mille, tutti quelli che pensano e che scrivono e che porteranno nei loro discorsi, nei loro dibattiti, nelle loro preoccupazioni, l’immagine di quel che Vittorini è stato, di quello che ha voluto e ha rappresentato.

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