31.5.16

Scienza in tv. Il paese delle esternazioni (Edoardo Boncinelli)

Edoardo Boncinelli
Di recente ne abbiamo sentite di tutti i colori su temi vitali come quelli della salute e, più in generale, della scienza; dalle staminali ai vaccini, dagli antibiotici alle cure ormonali. E spesso a parlarne erano persone che non avevano alcun titolo per farlo. A volte poi si scusano, e nemmeno sempre, ma il danno può essere già stato fatto e risultare gravissimo.
Questo è il Paese delle «esternazioni». Uno si alza e dice la sua, a voce o per iscritto, sui mezzi di comunicazione più vari e sugli argomenti più vari. Nel suo privato ciascuno è padrone di farlo, ovviamente, ma nel pubblico non è così pacifico; tutto dipende dalla risonanza che si darà alle sue affermazioni. E se il mezzo attraverso il quale si esprime è molto seguito, la diffusione del messaggio sarà pressoché universale. Poiché oggi le maniere con le quali si può fare arrivare un messaggio a molta gente sono tante e diversificate, occorrerebbe un po’ di prudenza o, meglio, di controllo. È il caso di dire, come don Abbondio: «Ne va della vita!».
Sulla scienza, che in Italia significa quasi sempre medicina, non si dovrebbe scherzare e neppure, per dire la verità, essere troppo approssimativi. Perché la medicina è importantissima per le persone di oggi, e la scienza per quelle di oggi e di domani. Mi capita spessissimo di sentire cose inesatte su diversi argomenti scientifici, ma ciò fa parte in genere di quel fastidioso «rumore di fondo» che disturba la comunicazione interpersonale nei periodi in cui la comunicazione è molto intensa e affollata. In genere si tratta di peccati veniali.
Può capitare però che messaggi gravemente sbagliati raggiungano orecchie disinformate e indifese, e si generi un serio danno sociale, come nel caso delle mancate vaccinazioni dei bambini sulla base di un ipotetico pericolo di conseguenze secondarie, come l’insorgenza di un disturbo autistico. L’autismo, che può essere più o meno grave, è certamente un serio problema, ma non esiste alcuna evidenza che possa essere generato da procedimenti di immunizzazione come le vaccinazioni. Anzi, appare sempre più evidente che la malattia abbia cause genetiche, anche se molto complesse, e non c’è quindi nessuna ragione di credere che possa insorgere come conseguenza di una vaccinazione. E questo da decenni e decenni ormai, in tutte le parti del mondo.
Ovviamente ciò è stato detto e ridetto da diversi esperti in diverse sedi, ma se il parere di un esperto viene messo sullo stesso piano di quello di una persona qualsiasi, magari popolare perché opera nel campo dello spettacolo, si ha un doppio danno: si diffondono informazioni errate e si sminuisce senza motivo il prestigio e la credibilità della scienza. Il nostro, purtroppo, è un Paese che dà poca importanza alla scienza e che tende a «snobbare» il parere degli scienziati, rei per qualcuno di essere dei «pasticcioni» e al servizio, o magari al soldo, di fantomatiche multinazionali della realtà delle quali chi parla non conosce assolutamente niente.
Ho detto tante volte che non c’è peggior credulone di chi pensa sempre di saperla lunga e diffida di tutto. Chi diffida di tutto non viene ingannato di meno degli altri, ma spesso di più, molto di più. Diffidare è utile ovviamente, ma a due condizioni: o sei sicurissimo della tua fonte di informazione o sai per certo che chi ti dice certe cose non ha i titoli per farlo. E questo avviene molto di rado, perché l’italiano medio ha poca istruzione e non si aggiorna, soprattutto in campi complessi e in continua evoluzione. Molte fonti internazionali ci avvertono che siamo un popolo di impreparati, ma noi pensiamo sempre di sapere tutto. Ovviamente per superficialità e ignoranza. Il problema è molto più serio di quanto si potrebbe credere, per il moltiplicarsi di casi di disinformazione, e per la relativa indifferenza con la quale vengono accolte vicende del genere. Occorre fare un discorso serio e responsabile sulla scienza e sulla modernità.
Molte affermazioni scientifiche non possono e non devono essere discusse, soprattutto da chi non ne ha i titoli. Ci sono tante cose da discutere, per le quali è giusto e proficuo che ognuno abbia la sua opinione, ma ci sono dati di fatto indiscutibili. Mettere questi e quelli sullo stesso piano, produce un doppio danno: porta all’uniformarsi su posizioni che andrebbero discusse e, nello stesso tempo, mettere in discussione senza motivo conoscenze definitivamente acquisite su una base internazionale. Il sospetto è la forma malata del dubbio: il dubbio dà sapore alla vita, il sospetto l’avvelena.


Micromega on line, 17 maggio 2016

Vaccini. Se chi parla in tv non è competente (Marco Cattaneo)

«È assolutamente demenziale… Cioè, nel senso che è assurdo. Non puoi obbligare a vaccinare i bambini». Con queste parole giovedì sera, durante la trasmissione Virus in onda su Rai2, Gabriele Ansaloni – in arte Red Ronnie – rispondeva alla domanda di Nicola Porro: «È obbligatorio o no vaccinare i bambini?». E di seguito inanellava una serie di terrificanti sciocchezze, dalle morti bianche alla poliomielite, dal tetano all’allattamento materno fino al vaiolo.
E mentre Maria Antonietta Farina Coscioni cercava di arginare le affermazioni sgangherate di Red Ronnie, in collegamento da Milano era in attesa Roberto Burioni, professore di microbiologia e virologia all’Università Vita- Salute San Raffaele. Al quale Porro avrebbe dato la parola per pochi istanti solo verso la fine della trasmissione.
Giusto il tempo di smentire la correlazione tra vaccini e autismo che, pur essendo stata negata da un’infinità di studi, continua pericolosamente a fare proseliti. Pur mantenendo un notevole aplomb durante la trasmissione, il giorno dopo Burioni ha pubblicato un lungo, durissimo intervento sul suo frequentatissimo profilo Facebook in cui lamentava l’iniquità del tempo concesso, aggiungendo: «Mi chiedo come il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, possa permettere che, mentre da un lato lei spende dei denari pubblici per migliorare la salute degli italiani promuovendo la prevenzione, dall’altro consente che con gli stessi soldi pubblici si diffondano notizie false che porteranno i genitori a fare scelte che metteranno a rischio la salute dei cittadini».
Condiviso da oltre 45.000 persone, in tre giorni il post di Burioni ha avuto più di 5 milioni di visualizzazioni, e ha scatenato una mezza rivolta sui social network. Alla quale Red Ronnie ha risposto con il video di un noto antivaccinista, mentre Porro minimizzava dando dei talebani ai «sanitari » che non accettano opinioni diverse dalle loro.
Dal canto suo, il medico milanese ha scritto un’accorata lettera a Michele Anzaldi, segretario della commissione Vigilanza Rai, in cui segnala tra l’altro un caso di pochi mesi fa. «Qualche mese fa a Monza – scrive Burioni – un bimbo di 18 mesi, affetto da leucemia linfoblastica, è morto a causa del morbillo. Se tutti si fossero vaccinati il virus non sarebbe stato in circolazione e lui avrebbe potuto combattere la malattia con notevoli probabilità di sconfiggerla».
Anzaldi ha raccolto l’appello, annunciando un’interrogazione in Vigilanza per «verificare qualità e quantità degli spazi utilizzati per informare i cittadini su questo argomento». Precisando che «credenze al limite della stregoneria di persone famose possono mettere in pericolo la vita della gente». Ma ormai il danno è fatto.
Nel Paese dei casi Di Bella e Stamina, entrambi esplosi e alimentati dalla spettacolarizzazione televisiva della malattia, stiamo già assistendo a un crollo delle vaccinazioni che all’inizio del 2015 ha spinto l’Organizzazione mondiale della Sanità a richiedere un incontro urgente con il ministro Lorenzin. La copertura vaccinale è in calo anche per le vaccinazioni obbligatorie, ed è scesa nel 2014 sotto quel 95 per cento che, secondo le autorità sanitarie internazionali, garantisce l’immunità di gregge, ossia la copertura anche per chi, per ragioni immunologiche, non può essere vaccinato.
La vaccinazione trivalente, contro morbillo, parotite e rosolia, è precipitata all’86 per cento. E a farne le spese sono i bambini che non possono sottoporsi alla vaccinazione. Come Lia, la figlia di Corinna Verniani, che a Virus ha raccontato la storia dell’immunodeficienza della figlia, costretta a cambiare scuola a causa della presenza di numerosi bambini non vaccinati.
Dal dopoguerra in poi, i vaccini hanno salvato milioni di vite, permettendo di debellare nel mondo una malattia terribile come il vaiolo, contro la quale infatti non ci si vaccina più. Sarebbe una buona cosa se a parlarne, in tv, ci andasse solo chi è competente. E che l’informazione sul servizio pubblico non si prestasse a veicolare messaggi socialmente pericolosi. Ora la parola è alla Vigilanza.


“la Repubblica” 17 maggio 2016

Riflessioni alla luce della crisi brasiliana (Raúl Zibechi)

Rio de Janeiro, Praja de Ipanema
Le classi dominanti del mondo hanno deciso, in tempi relativamente recenti, di sferrare una guerra contro i popoli, al fine di rimanere al potere in un periodo di acuti cambiamenti.
Hanno deciso che, per scatenare questa guerra, le democrazie sono un ostacolo e hanno la necessità, qualunque sia il modo, di neutralizzarle, metterle al loro servizio, così come i governanti eletti. Su questo punto non ammettono il minimo impedimento.
Per ragionare sul pensiero strategico di quelli che stanno in alto bisogna mettersi al loro posto, visto che non sono soliti formularlo in maniera aperta. Dobbiamo chiederci cosa faremmo se facessimo parte dell’uno per cento che si è assicurato il dominio.
La prima risposta è che nel mondo ci sono troppe persone e che il pianeta non ammette tanta popolazione se tutti volessero vivere non già come quell’uno per cento, ma, per esempio, con un livello di reddito superiore del 20-30 per cento. Il mondo concepito per il dominio dell’uno per cento tollera a malapena la metà dell’attuale popolazione del pianeta. Il resto è di troppo e non serve più neanche per produrre plusvalore, perché il sistema accumula rubando. La questione è: quali politiche derivano da questa constatazione.
La seconda risposta è che l’uno per cento ha abbandonato lo stato sociale (o surrogati simili come quelli che abbiamo avuto in America Latina) e non rientra nei suoi piani farlo rivivere. Pertanto, le democrazie che conosciamo non sono più né necessarie né utili per il tipo di sistemi politici funzionali all’accumulazione per mezzo di esproprio/spoliazione/furto che stiamo subendo. Il loro posto viene occupato dalla crescente militarizzazione delle zone povere, come le periferie urbane, e da tutti quegli spazi che le grandi multinazionali colonizzano, cacciando intere popolazioni.
Naturalmente l’uno per cento giura fedeltà alla democrazia e a i suoi valori, perché ha bisogno di illudere una buona parte de los de abajo sull’importanza del voto e del sistema dei partiti. Tuttavia, esige innanzitutto un’accolita di persone che agiscano come rappresentanti e che fungano da intermediari tra loro e il resto della popolazione. Come sottolinea Immanuel Wallerstein, il dominio è stabile quando si basa su tre parti ed è instabile quando ce ne sono solo due. I settori intermedi sono elemento chiave, per il sistema: dalle classi medie fino al mondo accademico, passando per i politici e per i grandi mezzi di comunicazione.
Di conseguenza, occupare i gradini più alti dell’apparato statale presuppone la gestione dell’attuale modello di accumulazione/guerra contro i popoli. Per inciso, conviene ricordare che questo è uno dei principali insegnamenti che i governi progressisti ci lasciano: dato l’attuale rapporto di forze su scala mondiale, i governi si sono limitati a gestire l’estrattivismo, deviando (nel migliore dei casi) risorse verso i settori popolari senza intaccare le basi del modello stesso.
Il terzo grande obiettivo dell’uno per cento è quello di neutralizzare ogni movimento di resistenza che gli si opponga, dai partiti di sinistra e progressisti fino ai movimenti antisistemici. Anche se nei periodi precedenti dominava la contrattazione con i sindacati e si tollerava che le sinistre socialdemocratiche salissero al governo, nella nuova fase in cui viviamo [a quelli dell’uno per cento] pare necessario serrare le file ed evitare deviazioni dai suoi piani e progetti di tenere a bada quelli de abajo.
Quando arrivano al governo partiti o persone che – per il loro percorso o per gli obiettivi dichiarati – potrebbero uscire dal copione estrattivista, [quelli dell’uno per cento] creano le condizioni per neutralizzarli. Questo avviene in due modi. Uno è l’addomesticamento, mediante l’inserimento dei nuovi governanti nelle élites, cosa che non è molto difficile conseguire, visto che il sistema ha molti modi per cooptare/comprare quelli che gli oppongono resistenza. L’altro è la destituzione dei governanti, possibilmente senza far ricorso ai classici golpe, bensì ricorrendo a forme legali, quantunque illegittime.
In questi giorni, in Brasile, possiamo vedere una combinazione di entrambe le strategie. Prima si è addomesticato, poi si destituisce. Il PT ha governato per dodici anni, alleato con le multinazionali brasiliane impegnate in attività di super sfruttamento (come le grandi imprese di costruzione), che hanno finanziato le sue campagne elettorali, i viaggi dei suoi dirigenti e numerose prebende.
Verso i movimenti vengono applicate politiche sociali che cercano di rabbonire los de abajo con piccoli trasferimenti di denaro che incidono sulla povertà, ma non sulla disuguaglianza, ed evitano la realizzazione di riforme strutturali. Il PT ha distribuito ai contadini meno terre di quanto ha fatto il governo neoliberale di Fernando Henrique Cardoso perché ha dato priorità all’alleanza con l’agrobusiness che ora occupa il Ministero dell’Agricoltura.
Quali dovrebbero essere le strategie dei movimenti antisistemici, vista questa situazione e alla luce delle esperienze degli ultimi 15 anni?
In primo luogo, pensare a lungo termine. Le poche forze che abbiamo devono essere utilizzate in senso strategico, non per vantaggi momentanei e immediati. Se riteniamo che stiamo subendo una guerra contro los abajos, dobbiamo pensare a come logorare il sistema ed evitare che esso ci logori. È evidente che il ciclo progressista,ha indebolito i movimenti.
In secondo luogo, essere convinti che la peggiore strada che possiamo intraprendere è quella di gestire le difficoltà del sistema. Non ho alcun dubbio che a un certo punto bisognerà puntare allo Stato (per conquistarlo o distruggerlo, a seconda delle diverse posizioni esistenti in mezzo a noi), ma fintanto che il sistema è forte, il governo è sinonimo di gestione dell’accumulazione per esproprio o guerra contro i popoli.
Credo che l’urgenza strategica maggiore sia quella di comprendere il modello estrattivo per spoliazione. Su questo abbiamo commesso grossi errori (iniziando da chi scrive), poiché abbiamo evidenziato solo i problemi ambientali derivanti e lo abbiamo affrontato a partire dall’economia e non dalla politica. Se davvero siamo di fronte a una guerra, gestire alcuni aspetti del campo di concentramento non è la strada migliore, perché deve essere distrutto, giacché non è riformabile.

Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Reflexiones al hilo de la crisis brasileña
Traduzione per Comune: Daniela Cavallo


da “Sinistrainrete”, 23 maggio 2016

I geni che controllano la forma del naso

La forma del naso è una delle caratteristiche anatomiche del viso che più variano da un individuo a un altro. Questa variabilità è controllata da quattro geni, secondo i risultati di uno studio pubblicato su “Nature Communications” da ricercatori dell'Università della California a Livermore. Il risultato contribuisce a una migliore comprensione dell'evoluzione del viso umano e potrebbe trovare applicazione nelle tecnologie a DNA in grado di ricostruire l'identikit di un individuo sulla base del suo profilo genetico.
Gli autori hanno raccolto e analizzato campioni di DNA di 6630 volontari in Brasile, Colombia, Cile, Messico e Perù: si trattava per la metà di soggetti di origine europea, per il 45 per cento nativi americani e per il restante 5 per cento soggetti di origine africana. Hanno poi valutato 14 differenti caratteristiche facciali ed effettuato un'analisi sull'intero genoma per trovare la correlazione tra varianti genetiche e varianti somatiche.
Sono stati identificati cinque geni che rivestono un ruolo nel controllare la forma di specifiche caratteristiche facciali: GLI3, DCHS2 e PAX1 sono geni coinvolti nella crescita delle cartilagini: GLI3 e PAX1 controllano la larghezza delle narici e DCHS2 quanto è appuntito il naso; RUNX2 influenza la crescita delle ossa nasali, il gene EDAR è coinvolto nella protrusione del mento.
“Sono pochi gli studi che si sono concentrati sullo sviluppo delle caratteristiche facciali e quelli esistenti riguardavano solo le popolazioni europee, che mostrano minore variabilità somatica rispetto al gruppo che abbiamo studiato noi”, ha spiegato Kaustubh Adhikari, primo autore dello studio. “Quelli che abbiamo scoperto sono specifici geni che influiscono su forma e dimensioni delle caratteristiche individuali, il che non era mai stato osservato prima”.
Scoprire il ruolo di ciascun gene, secondo i ricercatori, è importante anche in una prospettiva evoluzionistica. Le caratteristiche del viso sono influenzate dall'ambiente: il naso è importante per la regolazione della temperatura corporea e dell'umidità dell'aria respirata, quindi può avere differenti forme nei climi caldi e in quelli climi freddi. Come scoperto da precedenti studi, i geni GLI3, DCHS2 e RUNX2 mostrano i segni di una recente evoluzione negli esseri umani moderni rispetto all'uomo di Neanderthal e all'uomo di Denisova.
“Per molto tempo si è ipotizzato che la forma del naso potesse riflettere l'ambiente in cui si sono evoluti gli esseri umani: per esempio il naso relativamente più stretto degli europei potrebbe essere il risultato dell'adattamento a un clima freddo e secco", ha concluso Andrés Ruiz-Linares, che ha guidato lo studio. "Identificare i geni che influenzano la forma del naso può anche aiutare a capire la connessione tra disturbi genetici e anomalie facciali”.


Dalla Newletter de “Le Scienze” - Wikimedia Commons, 20 maggio 2016

Un albero di sei metri finora ignorato


"Sirdavidia solannona" (Gabon)
Questo albero, alto fino a sei metri e con un diametro del tronco di appena dieci centimetri, è stato scoperto ad appena qualche metro di distanza dalla strada principale del Monts de Cristal National Park in Gabon, in una regione già ampiamente studiata. La struttura dei suoi fiori è talmente diversa dagli altri membri della famiglia Annonaceae da avergli meritato un nuovo genere a sé stante.

Da Buon compleanno, Linneo, nella newletter di “Le Scienze”, 23 maggio 2016

Pescatrice degli abissi

"Lasiognathus dinema " (Golfo del Messico).
Questo pesce abissale, imparentato con la più famosa rana pescatrice, è stato scoperto nel Golfo del Messico durante il monitoraggio successivo al disastro ambientale causato dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon. Lasiognathus dinema è lungo appena cinque centimetri e ha un'esca le cui caratteristiche sono inedite.


Da Buon compleanno, Linneo, nella newletter di “Le Scienze”, 23 maggio 2016

Superstizioni moderne. Le streghe e i vampiri (Marina Montesano)

La storia della stregoneria e della caccia alle streghe affascina e attrae numerosi lettori in Italia, pur non essendo molto praticata a livello scientifico nel nostro paese: nel mondo tedesco come in quello anglosassone le cose vanno diversamente e l’aggiornamento storiografico appare più avanzato. Da noi, per esempio, continua a circolare l’idea che la stregoneria sia un fenomeno scaturito dall’ignoranza dell’oscuro medioevo e non, com’è più corretto, dalla piena età moderna. Lo si evince anche dalla presentazione proposta per due opere recenti che pure presentano spunti di notevole interesse.
«Mentre in Occidente fiorivano Umanesimo e Rinascimento, nei Balcani e nei tenitori dell’Impero bizantino ormai al tramonto si diffondeva il timore dei morti che uscivano dai sepolcri per perseguitare i vivi»: così comincia la quarta di copertina di Prima di Dracula. Archeologia del vampiro di Tommaso Braccini (Il Mulino 2011, pp. 270, euro 18). «Un ricco affresco di microstoria, che illustra le contraddizioni tra il sorgere del pensiero moderno e le superstizioni medievali», commenta invece il «New Yorker» a proposito del libro dello statunitense Thomas Willard Robisheaux, ora tradotto in italiano con il titolo L'ultima strega (Bruno Mondadori 2011, pp. 346, euro 28).
Difficile pensare ad affermazioni più fuorvianti: proprio durante il fiorire del Rinascimento si elaborarono idee e strumenti atti a perseguire le streghe, e fu in piena età moderna che si registrarono in Europa le condanne più gravi e numerose; mentre intellettuali di prestigio, come il teorico dello stato assoluto Jean Bodin, scrivevano opere a sostegno della teologia «moderna» in tema di stregoneria: quella cioè nella quale si affermava la realtà del volo magico e del Sabba, dove invece la teologia medievale si era sempre mostrata estremamente scettica e prudente.

Uno sviluppo in tre fasi
In linea generale, per la caccia alle streghe si può schematicamente delineare uno sviluppo in tre fasi differenti: un diffondersi sporadico di processi e condanne capitali che terminò intorno al 1550-1560; un incremento notevole tra quest’epoca e il 1660, fase che costituì l’apice della caccia in Europa; dopo questa data e fino alla metà del XVIII secolo si ebbe una diminuzione generalizzata dei processi, ma anche il loro arrivo in aree precedentemente risparmiate. Se è ovviamente impossibile una stima precisa del numero di vittime in Europa, ormai la storiografia è in grado di propone dati probabili: nell’intero periodo tra metà Quattrocento e metà Settecento le condanne alla pena capitale oscillano tra le 40mila e le 60mila, nonostante la pubblicistica in materia dia spesso cifre palesamente assurde, che arrivano addirittura a parlare di milioni di vittime.
Lo studio di Robisheaux prende in considerazione la regione del Langenburg e propone un’analisi dettagliata, condotta alla luce della ricca documentazione processuale, dell’ultimo processo celebratovi e terminato nel 1672 con due condanne al rogo. Siamo dunque all’inizio della fase calante, ma in un’area, quella tedesca del Sacro Romano Impero, comprendente territori cattolici quanto protestanti, in cui la caccia alle streghe mietè il numero maggiore di vittime. È una disparità che colpiva anche i contemporanei, se il gesuita Friedrich Spee poteva scrivere, nella serrata critica alle modalità dei processi tedeschi espressa nella Cautio criminalis del 1631, che la Germania sembrava essere «tot sagarum mater»: «madre di così tante streghe». Circa la metà delle condanne capitali europee furono comminate in Germania.
Sono soprattutto due i fattori che pesarono maggiormente sulla storia della stregoneria nella Germania del Sacro Romano Impero: la Riforma - con il conseguente conflitto tra cattolici e protestanti - e l’estrema frammentazione del potere politico. Entrambe queste situazioni, seppur in modo diverso, finirono per incrementare e aggravare il fenomeno. Lutero e Calvino non sembrano aver dato molto peso alla stregoneria e nessuno dei due riformatori elaborò una forma di demonologia innovativa, ma il Diavolo esercitava a loro avviso un potere reale nel mondo; i riformatori facevano dunque dell’impegno contro Satana quasi un’ossessione.
È indubbio che, essendo le streghe emissarie del diavolo e complici nei suoi misfatti, nel mondo riformato si ponevano le premesse per una «caccia» intensa e determinata. Inoltre la frequente compresenza in molte aree di gruppi cattolici e riformati creava gravi situazioni di tensione, e l’accusa di stregoneria poteva esser la conseguenza - cosciente o meno - di tali situazioni, spingendo membri di una comunità a scagliare accuse contro gli esponenti dell’altra.

L'influenza del clima
Tuttavia, non è il caso di stabilire un nesso troppo rigido tra l’affermarsi della Riforma, con i conseguenti conflitti, e l’incremento della caccia alle streghe. Per esempio, nella Germania meridionale cattolica il fenomeno fu più intenso rispetto all’area settentrionale protestante; bisogna quindi considerare il secondo fattore, e cioè l’estrema frammentazione politico-amministrativa, per l’appunto più presente a Sud che a Nord.
La scarsa concentrazione del potere ne causava la debolezza, e questo faceva sì che ogni città potesse comportarsi verso il problema con un certo grado di autonomia, e soprattutto con la quasi assoluta certezza di non dover poi render conto del proprio operato, dando luogo ad abusi e all’uso di procedure di coercizione e di tortura sovente smodate, tali da non consentire altro se non confessioni e denunce a catena. Inoltre, un incremento dei processi si avverte in occasione di peggioramenti climatici e cattivi raccolti o carestie come quelli della cosiddetta «piccola era glaciale» del Seicento: per esempio in molte aree in cui la viticultura era un elemento importante per l’economia, ma era allo stesso tempo praticata in condizioni di difficoltà climatica, grandinate e gelate improvvise portavano alla ricerca di capri espiatori, e streghe e stregoni accusati di magia tempestaria ne facevano le spese.
Il caso studiato da Robisheaux presenta molte di queste caratteristiche standard: la crisi economica che colpiva l’area, un uso della coercizione fisica molto pesante, la marginalità dell’imputata emergono quali fattori essenziali per comprendere come si potesse passare da un’accusa iniziale di avvelenamento alla costruzione di un’accusa di stregoneria con il suo corollario di patti con Satana e di volo magico.
Il paragone tra la Germania e la Spagna è istruttivo: nella penisola iberica, vittima di ima secolare «leggenda nera», si ebbe in realtà un uso giudiziario della tortura assai moderato e un numero di vittime molto basso, se paragonato all’Europa centro-settentrionale; i tribunali erano infatti restii a comminare la pena capitale, preferendo generalmente condanne più blande. Inoltre, le accuse erano più simili a quelle tradizionali di magia, piuttosto che di stregoneria per così dire «moderna», doè corredata di patti e omaggi demoniaci, volo magico, infanticidi e via dicendo.
Nel 1526 un concilio svoltosi a Granada dichiarò impossibile il volo magico e affermò che secondo la maggior parte dei giuristi le streghe non esistono. Quando a Barcellona, nel 1549, l’inquisizione locale e le autorità civili condannarono al rogo alcune streghe, la Suprema (ossia il supremo concilio dell’Inquisizione, che dipendeva dalla Corona) reagì punendo i giudici. La Catalogna, tuttavia, in diversi periodi mostrò un’attitudine indipendente e pronunciò condanne alla pena capitale: una recrudescenza si ebbe tra 1618 e 1622, in concomitanza con una sequenza di cattivi raccolti. Quante furono le streghe condannate a morte in Spagna? Non è possibile una stima complessiva; più di cento in Catalogna nei soli anni 1610-1625, ma venti-trenta sotto l’Inquisizione negli oltre cento tra 1498 e 1610. In totale le condanne a morte dovrebbero aggirarsi intorno alle 300.

Linciaggi e ordalie
La presenza di un’autorità centralizzata e in grado di incidere sulle realtà locali sembra essere stata spesso, come si è detto, il deterrente al proliferare di persecuzioni antistregoniche. Tribunali e comunità locali chiedevano sovente a gran voce la messa a morte di streghe e stregoni, e quando l’autorità si mostrava tenera, succedeva che provvedessero da soli.
In Danimarca, dopo un periodo di tumulti politici e di guerre civili, a partire dal 1540 diversi testimoni danno notizia di violente persecuzioni organizzate dai contadini, impegnati a cacciare le streghe «come se fossero lupi», secondo le parole di un consigliere del sovrano; nello Jutland, nel solo anno 1543, i contadini linciarono 52 donne per la stessa ragione; tre anni dopo, in seguito ad altri casi, il sovrano decise di intervenire per porre fine alla mattanza. Quando il Parlamento di Parigi rifiutava di approvare le condanne a morte, capitava che nelle campagne i linciaggi ponessero fine al dibattito. Nell’Olanda che dal 1608 non celebrava più processi per stregoneria, linciaggi di streghe sono segnalati persino nelle città. Nell’Ungheria sotto il dominio ottomano, che non prevedeva processi per stregoneria, i linciaggi ovviavano al problema. Senza contare che alcune pratiche come l’ordalia, comune in diverse regioni europee, che consisteva nell’immergere le presunte streghe nell’acqua (se colpevoli, l’elemento le avrebbe rifiutate, se innocenti sarebbero rimaste sott’acqua), erano generalmente ritenute illegali dalle autorità, ma attestate a livello popolare.

Sete di sangue
Le credenze popolari hanno dunque avuto un ruolo importante, non solo per quanto concerne le persecuzioni, ma anche perché ad esse ci si deve volgere per comprendere alcune fra le tradizioni che tra tardo medioevo ed età moderna confluirono nell’elaborazione del fenomeno stregonico. È a queste che guarda Prima di Dracula di Tommaso Braccini: più che di una Archeologia del vampiro, però, si tratta di un ricco assemblaggio di notizie inerenti un tema molto più ampio, quello dei revenants, ossia dei nonmorti, che si intreccia spesso con la questione stregonica.
C’è infatti un curioso errore di logica nel chiamare «vampiri» tutte queste creature, dal momento che, come lo stesso Braccini nota, a esse manca la caratteristica fondamentale del vampiro «letterario»: l’ematofagia, che deriva proprio da una commistione con le tradizioni stregoniche, nelle quali il dissanguamento delle vittime e in particolar modo dei bambini era invece tratto comune. Ulteriore conferma di quanto il tema della stregoneria sia stato importante nell’immaginario e nella storia europei.


“il manifesto”, 31 dicembre 2011

30.5.16

La poesia del lunedì. Jacques Prévert

Quando la vita è una collana
ogni giorno è una perla
Quando la vita è una gabbia
ogni giorno è una lacrima
Quando la vita è una foresta
ogni giornata è un albero
Quando la vita è un albero
ogni giorno è un ramo
Quando la vita è un ramo
ogni giorno è una foglia

Quando la vita è il mare
ogni giorno è un’ondata
ogni ondata una pianta
una canzone un fremito
Quando la vita è un gioco
ogni giorno è una carta
i quadri o i fiori
le picche la sfortuna
E quando c'è la fortuna
le carte dell’amore
sono il culo e il cuore.

Quand la vie est un collier
chaque jour est une perle
Quand la vie est une cage
chaque jour est une larme
Quand la vie est une forêt
chaque jour est un arbre
Quand la vie est un arbre
chaque jour est une branche
Quand la vie est une branche
chaque jour est une feuille

Quand la vie c’est la mer
chaque jour est une vague
chaque vague une plainte
une chanson un frisson
Quand la vie est un jeu
chaque jour est une carte
le carreau ou le trèfle
le pique le malheur
Et quand c’est le bonheur
les cartes de l’amour
c’est le cul et le cœur.


Fatras, Gallimard, 1966 - Traduzione Salvatore Lo Leggio

29.5.16

Di profilo e di fronte. Il Primo Levi di Belpoliti (Mario Porro)

Ritratto dello scrittore da ragazzo
Nel fondamentale saggio che Alberto Asor Rosa dedicò alla letteratura dell’Italia contemporanea nella Storia d’Italia (Einaudi, 1975), l’autore di Cristo si è fermato a Eboli compare solo con il cognome, Levi. A distanza di quarant’anni può accadere di sentire in un programma televisivo che a scrivere quel romanzo fu Primo, e non Carlo, Levi; lapsus (o colpevole ignoranza?) che testimonia come lo scrittore di Se questo è un uomo sia ormai riconosciuto fra i «classici», a conferma della definizione di Giuseppe Pontiggia: «i classici sono i contemporanei del futuro». Capita alla critica, letteraria e no, quel che Primo Levi diceva di se stesso: la risposta giusta spesso gli veniva «quand'era sulle scale», cioè a cose fatte e in ritardo.
Nel 1947 la Einaudi rifiutò di pubblicare Se questo è un uomo. L'amica Natalia Ginzburg accolse il suggerimento dell'altro lettore del testo, Cesare Pavese: «non è ancora il momento»; meglio aspettare per non rischiare che il libro finisca disperso fra le tante testimonianze di reduci e deportati. Lo stesso Levi avrebbe riconosciuto che allora tutti avevano altro cui pensare: case, lavoro; si aveva voglia di ballare e di fare festa. «Un libro come questo mio era quasi uno sgarbo, una festa guastata». E così la testimonianza più alta della sorte disumana patita ad Auschwitz uscì per la piccola casa editrice De Silva; l’attenzione fu scarsa (Calvino fu tra i pochi a recensirlo), poche furono le copie vendute (le restanti sarebbero finite, forse, sommerse nell’alluvione di Firenze nel ’66). Venne ristampato nel ’58 da Einaudi, ma solo con La tregua - uscito nel ’63 - si riconobbe a Primo Levi dignità letteraria. E furono le traduzioni negli Stati Uniti, in particolare di quella lettura obbligata per tutti i chimici che è la sua autobiografia, Il sistema periodico, a sancirne il riconoscimento internazionale.
Ma oggi a Levi non attribuiamo soltanto la grandezza del «testimone»; ne apprezziamo la puntuale e dolente riflessione sul «male», culminata nell'opera che doveva divenire testamentaria, cioè I sommersi e i salvati; riconosciamo la ricchezza immaginifica delle invenzioni fanta-tecnologiche dei suoi racconti, l’etica del lavoro affidata alla Chiave a stella, la vastità delle incursioni in quasi tutte le regioni dell’Enciclopedia (come accade nell’Altrui mestiere), con l’obiettivo di gettare ponti fra le due culture, perché «i ponti sono il contrario delle frontiere». E di tutto questo si deve certo rendere merito alla «lunga fedeltà» che Marco Belpoliti ha dimostrato verso gli scritti e il pensare di Levi; ne ha curato i due volumi delle Opere presso Einaudi nel 1997, ha promosso nello stesso anno il numero monografico della rivista «Riga», e ora pubblica Primo Levi Di fronte e di
profilo (Guanda, pp. 734, € 38,00), una sorta di corposo dizionario, una summa imprescindibile dove la storia delle vicende editoriali dei libri e dell’accoglienza della critica si alterna a lemmi dedicati ai temi più significativi degli scritti di Levi (cinquanta pagine ne ripercorrono il «bestiario», le presenze di animali), una bibliografia ragionata imponente.
Quello che emerge dal lavoro di Belpoliti è il volto di «un autore necessario e decisivo», unico e straordinario anche sul piano della lingua letteraria. Una lingua che oggi ci appare la più consona a narrare l’orrore del Lager, ma che nel dopoguerra doveva suonare stonata a quanti sperimentavano le forme del neorealismo. È una lingua che trae origine dalla narrazione orale, dai tanti racconti fatti ad amici; sulle pagine del «manifesto», in occasione della pubblicazione di Lilìt, Domenico Starnone osservò che Levi è «uno di quelli che scrivono lasciando dentro la scrittura un po' di voce». Ma il tono alto, la classicità degli stilemi, una certa retorica mutuata dai classici latini, l'icasticità della narrazione lasciavano l’impressione - nota Belpoliti - di un impostazione aulica, da studente di liceo classico, che non aveva preso definitiva distanza dalla retorica fascista.
Levi ha messo il raccontare al servizio della testimonianza; se è grande testimone lo è perché è un grande scrittore, perché la finzione letteraria assolve alla funzione della verità: conservare memoria dell'esperienza del campo di annientamento. La scrittura di Levi si è formata anche sul suo primo mestiere, il chimico: un racconto si costruisce come un apparecchio in laboratorio, richiede simmetria e precisione, non concede nulla al superfluo. Soprattutto la scrittura testimoniale impone di comunicare in modo diretto, sul modello del rapportino settimanale di fabbrica, come lui diceva.

In fondo, la letteratura di Levi non fa che perseguire l'intento della scienza con altri mezzi: scrivere è un modo per mettere ordine («il migliore che io conosca», aggiungeva), mentre la poesia, a cui si dedicò a intervalli, è un modo per scandagliare il disordine. La lingua «marmorea» di Levi, con il gusto della brevitas, la tendenza alla concisione e all'esattezza, affonda le sue radici nella consuetudine ai testi scientifici e tecnici (in questo, il suo sodale più prossimo è, paradossalmente, il «barocco» Gadda). È l'habitus dello scienziato a predisporre lo sguardo «naturalista» di Levi mentre osserva l'esperimento condotto sull'animale-uomo nel crudele laboratorio di Auschwitz. La vittima, cavia riportata alla condizione bestiale è al tempo stesso il ricercatore che si sforza di comprendere, nei modi dell'etologo e dell'etnologo, quanto sta subendo. È anche lo «sguardo da lontano» (Levi tradurrà negli anni Ottanta l’opera così titolata di Lévi-Strauss) a fare di Se questo è un uomo la massima testimonianza dei meccanismi dello sterminio. È l'ibridazione, il meticciato fra il sapere del chimico e la tradizione che diciamo umanistica, a rendere ineguagliate le sue pagine.
Nel «centauro» Levi, la parte chiara, il «tecnico» di formazione positivista, assertore di un laico illuminismo al pari dell’amico Calvino, convive con un lato oscuro, come lui stesso riconosce nella Ricerca delle radici, l’antologia personale degli autori che lo hanno formato. «Si vede che, per quanto ami negarlo, uno straccio di Es ce l'ho anch'io. Insomma, mentre la scrittura in prima persona è per me, almeno nelle intenzioni, un lavoro lucido, consapevole e diurno, mi sono accorto che la scelta delle proprie radici è invece opera notturna, viscerale e in gran parte inconscia». Restiamo animali-uomini, ibridi impasti di argilla e di spirito: i due profili formano - sostiene Belpoliti - due metà simmetriche, o meglio enantiomorfe, come le nostre mani che dobbiamo far ruotare per sovrapporre. Ma per Levi il fondo magmatico, dove si avverte la voce dell'inquilino del piano di sotto, deve essere filtrato per poter accedere alla solarità della superficie, al piano razionale.
Certo, non si dà una scrittura perfettamente lucida e consapevole, ma scrivere resta per Levi lo sforzo continuato per compiere «un trapasso dall'oscuro al chiaro». Lo stesso sforzo che ci è imposto per separarci dalle nostre radici animalesche, quelle in cui possiamo ricadere quando veniamo «bestializzati», come è accaduto alla Germania hitleriana, quando rinunciamo alla responsabilità che è propria degli umani per divenire grigi esecutori di ordini altrui, ordinari burocrati del male. Nell'intento pedagogico di Levi, nei suoi toni «da buon maestro del tempo che fu», si rivela - osserva Belpoliti - la «genialità dell’uomo comune», l'esatto rovescio della banalità del male. È per questo che possiamo condividere il giudizio formulato da Sergio Luzzatto in Partigia, puntuale ricostruzione della breve esperienza resistenziale di Levi: «l'interprete più alto, nel paesaggio italiano del Novecento, di una civiltà dell'intelligenza e di una dignità della memoria».

Alias domenica “il manifesto”, 27 settembre 2015


Costantino imperatore trasformista (Amedeo Feniello)

Bisogna superare l’immagine di un convertito che abbraccia la fede cristiana senza ripensamenti. Dall’indagine di Alessandro Barbero emerge il percorso mutevole di un monarca mai simile a se stesso che persegue a lungo forme di sincretismo religioso
Riparlare oggi della figura di Costantino può apparire anacronistico. C’è qualcosa ancora da dire su un personaggio su cui sono stati scritti fiumi di parole? Alessandro Barbero, invece, nel suo ultimo, importante lavoro intitolato Costantino il vincitore (Salerno) sostiene il contrario. Che su Costantino c’è ancora tanto da scavare e da raccontare. Basta non essere pedissequi e seguire una prospettiva originale e metodologicamente avvincente. Così Barbero accantona la storiografia sedimentata nel tempo, spesso caotica e fuorviante, ricca di episodi che fanno ormai parte della vulgata (ricordate la visione della Croce con la scritta in hoc signo vinces?), ma spesso fondati su «un mero montaggio di congetture». E sceglie, da par suo, un’altra strada. Irta di insidie, ma filologicamente corretta, che è quella di riprendere le fonti originarie, convinto che «ogni testimone coevo ha una sua versione degli avvenimenti che non dipende solo dalle informazioni fattuali di cui dispone, ma anche e soprattutto dal suo orientamento culturale e ideologico».
Barbero riprende le testimonianze più varie, da quelle letterarie — dei panegiristi come degli ideologi, tra cui emerge Eusebio di Cesarea — a quelle materiali della propaganda costantiniana, al corpus delle leggi promulgate durante il suo regno, alle lettere e agli editti imperiali relativi alla vita della Chiesa e alle sue controversie interne, riportati dai polemisti cristiani del IV secolo, fino alle orazioni e ai manuali di storia composti nei decenni successivi alla sua morte, prima che il mito sovrastasse il ricordo dei contemporanei.
Più che da biografo, Barbero lavora da investigatore. Con una domanda di fondo: le fonti su Costantino, cosa raccontano? Sostanzialmente, parlano di quattro momenti. Il primo, di ascesa, come figlio di Costanzo, tetrarca di un Impero romano diviso in quattro, il meno accanito nella persecuzione dei cristiani, che lo portò a raggiungere il titolo di Augusto e a scontrarsi con Massenzio, fino alla fatidica battaglia di Ponte Milvio (312), momento che si ammanta di un alone leggendario, con un comandante assistito dalle potenze celesti. Il secondo è di ripartizione del potere con gli altri due Augusti, Licinio e Massimino, con l’alleanza stretta tra Costantino e il primo dei due; finché Licinio non liquida Massimino e l’impero è, ormai, affare loro, di Costantino e Licinio, che regnano beneficando largamente i cristiani, cui si spalanca un’epoca nuova, di prosperità. Il terzo è l’epoca dello scontro con Licinio, che termina con la vittoria di Costantino solo dominus dell’impero ormai unificato, che associa al potere il figlio, Crispo. Il quarto è il tempo dell’assestamento e della politica dinastica e religiosa, con l’eliminazione del figlio Crispo e della moglie Fausta; la definizione di una successione (Costantino jr., Costanzo e Costante); l’attenzione crescente verso le comunità cristiane; e l’impegno per ricucire le violente spaccature che dividono le Chiese d’Africa e d’Egitto con la convocazione del Concilio di Nicea (325); fino al suo battesimo e alla morte come membro della Chiesa.
Narrata così, la storia di Costantino non presenterebbe novità e si offrirebbe al lettore quasi priva di fascino, secondo una direttrice che parte dall’ascesa politica e arriva fino alla sua adesione al cristianesimo. Però, avverte Barbero, il percorso fu tutt’altro che lineare, con continui andirivieni, scompensi, cambiamenti che solo la tradizione e la vulgata hanno appiattito, fino a regalarci un’immagine, uniforme e incontrovertibile, di un sovrano che abbraccia la fede senza ripensamenti.
Riprendo un solo esempio nell’enorme mole di materiale presente nel libro e relativo alla numismatica. Le innumerevoli monete coniate durante il regno di Costantino costituiscono una fonte importante «per costruire il flusso della comunicazione politica indirizzata dall’imperatore ai sudditi». Cosa rivelano? La fortissima comunicazione simbolica e l’assoluta autorappresentazione. Con delle prospettive inattese. Ci si aspetterebbe, ad esempio, dopo la battaglia di Ponte Milvio, svolta della nuova epoca, l’utilizzo dei simboli cristiani. E invece sulle monete non c’è la Croce, ma il dio Sole. Più di metà di tutte le monete messe in circolazione a nome di Costantino fra la vittoria di Ponte Milvio e il decennio successivo sono insomma dedicate al Sole che è, parole di Barbero, «l’invincibile compagno dell’imperatore, segno inequivocabile di una scelta religiosa clamorosamente ostentata e certo popolare».
Verrebbe da dire: e le visioni cristiane? E il signum raccontato da Lattanzio a Ponte Milvio? E la cristianizzazione dell’imperatore? La cartina di tornasole monetaria è in definitiva l’indizio forte di una complessa, se non tormentata, vicenda politico-religiosa, dove convivono a lungo ai vertici del potere decise forme di sincretismo, visto che monete d’oro con rappresentazioni del Sole riportate in un programma iconografico impegnativo (il Sole che incorona Costantino o gli dona la vittoria) sono pervenute ancora per il biennio 324-325, quasi nella fase cruciale del Concilio di Nicea.
Questo è solo un esempio, ma nel volume se ne possono enumerare tanti altri, come quello relativo all’Arco romano di Costantino sul quale, chiosa Barbero, «vista la proliferazione degli studi si ha l’impressione che, su di esso, anziché saperne di più ne sappiamo di meno». Testimonianze da cui scaturisce in definitiva un personaggio impossibile da ricomporre in maniera unitaria. Un Costantino mai simile a se stesso, abilissimo a manovrare la propaganda, prima tollerante e quasi alla ricerca di una prospettiva religiosa sincretica poi persuaso, negli ultimi anni di vita, di essere stato accompagnato e protetto dal Dio cristiano.
Una memoria (e una propaganda) imperiale che non si cristallizza con la sua morte, ma tende a plasmarsi ulteriormente. Col rafforzarsi delle leggende su apparizioni celesti e in hoc signo vinces. Mentre il ricordo di tanti contemporanei — pagani come cristiani — di un tiranno dispotico, autocratico, violento nel linguaggio e nei fatti, evapora e sfuma nel mito della lebbra che colpì l’imperatore, guarito dall’intervento salvifico di papa Silvestro. Leggenda che è il palinsesto su cui si elabora la costruzione della Donazione di Costantino e della Respublica cristiana medioevale.


© «Corriere della Sera» - “La lettura” - 22 maggio 2016

28.5.16

Il dentifricio. Una poesia di Apuleio (Traduzione S.L.L.)

O Calpurniano, con veloci versi,
io ti saluto e mando, come chiedi,
la pulizia dei denti, lo splendore
della bocca che viene dalle messi
d'Arabia, una sottile, candeggiante,
nobile polverina che ti sgonfia
la tenera gengiva e spazza via
i rimasugli d'ieri. Non vedranno
brutture di sporcizia, se per caso
a labbra spalancate riderai.

Calpurniane, salve properis versibus.
misi, ut petisti, tibi munditias dentium,
nitelas oris ex Arabicis frugibus,
tenuem, candificum, nobilem pulvisculum,
complanatorem tumidulae gingivulae,
converritorem pridianae reliquiae,
ne qua visatur tetra labes sordium,
restrictis forte si labellis riseris.


De Magia, cap. VI

I libri sibillini (Aulo Gellio)

Bacoli, Scavi archeologici di Cuma, L'accesso all'antro della Sibilla
La seguente storia sui libri Sibillini si trova registrata negli antichi annali.
Una vecchia, straniera e sconosciuta, si presentò al re Tarquinio Superbo con nove libri in mano: diceva che erano oracoli divini e che li voleva vendere. Tarquinio s’informò del prezzo. La donna chiese una cifra enorme, spropositata; il re la prese in giro, come vecchia rimbambita.
Allora essa, sotto i suoi occhi, apparecchia un fornello, fa fuoco, ci brucia tre dei nove libri; poi chiede al re se era disposto a comprare allo stesso prezzo i sei rimasti.
Tarquinio a quella vista rise ancora di più e disse che la vecchia senza dubbio ormai sragionava.
La donna, lì sui due piedi, bruciò altri tre libri; poi con tutta calma torna a chiedergli di comprare i tre rimasti, sempre a quel prezzo.
Tarquinio a questo punto si fece serio in viso e ci pensò su bene; si convinse che una costanza e una fermezza di quel genere non era da prendersi alla leggera e acquistò i tre libri residui all'identico prezzo richiesto per tutt’e nove.
Riferiscono che quella donna, una volta allontanatasi da Tarquinio, poi non fu vista in nessun luogo. I tre libri furono riposti in un santuario e chiamati «sibillini»; a essi, come a un oracolo, si rivolgono i quindecenviri quando bisogna consultare nell’interesse pubblico gli dei immortali.


Noctes Atticae, Libro I, Cap. 19

Canzone del danno e della beffa. Una poesia di Giovanni Raboni (1932-2004)

Stillicidio di delitti, terribile:
si distruggono vite,
si distruggono posti di lavoro,
si distrugge la giustizia, il decoro
della convivenza civile.
E intanto l'imprenditore del nulla,
il venditore d'aria fritta,
forte coi miserabili
delle sue inindagabili ricchezze,
sorride a tutto schermo
negando ogni evidenza, promettendo
il già invano promesso e l'impossibile,
spacciando per paterno
il suo osceno frasario da piazzista.
Mai così in basso, così simile
(non solo dirlo, anche pensarlo duole)
alle odiose caricature
che da sempre ci infangano e sfigurano...
Anche altrove, lo so,
si santifica il crimine, anche altrove
si celebrano i riti
del privilegio e dell'impunità
trasformati in dottrina dello Stato.
Ma solo a noi, già fradici
di antiche colpe e remissioni,
a noi prima untori e poi vittime
della peste del secolo
è toccata, con il danno, la beffa,
una farsa in aggiunta alla sventura.

Da Ultimi versi, Garzanti 2009

Postilla
Si tratta, probabilmente, dell'ultima poesia composta da Raboni, nel 2004.

Raboni, quando la poesia è civile (Folco Portinari)

Raccogliere in una collana prestigiosa come i Meridiani Mondadori i poeti della generazione tra gli Anni Venti (di Zanzotto o Giudici) e i Trenta (di Sanguineti e Porta) non è impresa facile, perché la compagnia alla fine è ridotta, a differenza di quanto accaduto per la generazione degli Anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento, quando come i funghi sbocciarono i poeti che avrebbero reso glorioso il Novecento, da Saba a Ungaretti a Montale, da Gozzano a Palazzeschi a Govoni, da Campana a Rebora a Soffici... Se c'è però una cosa di cui si può essere certi è che il milanese Giovanni Raboni il suo posto nel pantheon se l’è ben meritato, con un volume di quasi duemila pagine, (Giovanni Raboni L'opera poetica, i Meridiani, Mondadori 2006) curato con acribica attenzione e introdotto da Rodolfo Zucco, con una seconda prefazione di Andrea Zanzotto. Giusto riconoscimento, dunque, nel senso che in quelle poesie ognuno si riconoscerà, per sincronia di voce, per accento di sentimenti (quando dico voce intendo proprio una voce per lo più sommessa e non un canto alto spiegato, un gusto riflessivo e non un'esibizione tenorile).
Raboni nasce nell'aprile del 1932 in via San Gregorio, nel centro della città. Con una patente di milanesità, quindi, incontrovertibile. Perché questo dettaglio indicativo? Per mettere avanti innanzitutto l'evidenza, la quale vuole davvero che la città, la sua struttura allergica all'idillio agreste, sia il paesaggio naturale di Raboni fin da subito (la romanità delle Gesta romanorum, il primo libro, rimasto inedito, del poeta non ancora ventenne, si rivela un abile inganno storico-geografico, oltre che ideologico). Subito significa Le case della Vetra, che è un titolo toponomastico inequivocabile. Non a caso in esergo vi troviamo una citazione della manzoniana Colonna infame, una storia che infatti ebbe la Vetra quale scenario degli avvenimenti. Un autore ben specifico, come specifico, per i suoi contenuti ideologici, il testo di riferimento. Il che mi offre una chiave di lettura non azzardata né peregrina, ma sostanziale.
La chiave Manzoni ci consente di avviare in primis un albero genealogico abbastanza organico retrodatabile a Parini (non dimentico che una plaquette del '63 si intitolava L'insalubrità dell'aria) e a Carlo Porta (sepolto alla sua morte nel cimitero di San Gregorio) e che attraverso appunto Manzoni arriverà a Rebora, e poi a Sereni e a Raboni. Il connettivo che li tiene assieme non è quello, se non parzialmente, che attorno agli Anni Cinquanta si formulerà in una «linea lombarda» (dando vita a un'antologia nella quale il Nostro non compare non solo perché il suo libro d'esordio uscì fuori tempo massimo, ma perché «credo in qualcosa di sostanzialmente diverso da quella che la storiografia del Novecento intende come linea lombarda, che non ho mai capito cosa sia»).
Questa esplicita testimonianza di debito manzoniano, a un testo che ha come tema il problema dell'ingiustizia dei giudici (una variante laica della teodicea) ci fa comprendere come Raboni abbia scelto sin dal debutto la disagevole via della moralità, della poesia civile. Non è un percorso rettilineo, comunque, perché rettilineo non è il tempo delle età. Ma coerente sì. C'è una qualche complessità, almeno apparente, nei suoi transiti o nelle sue contaminazioni reciprocamente integrative di Cristo e Marx, in un negarsi e affermarsi continuo.
Opportunamente ricorda e documenta Zucco l'incontro giovanile con Betocchi e Ungaretti, un po' i suoi scopritori, non senza conseguenze. Guai a noi, però, se ci mettiamo a controllare il dare-avere, quando non c'è mai stato un poeta che non fosse debitore a qualcuno di qualcosa, d'essere quel che è. D'accordo, il poeta può aver pagato dazio a Montale e, più, al secondo Sereni, ma c'è pure di mezzo il lungo lavoro di traduzione del «cattolico» Baudelaire. Dove Sereni vuole dire una sua certa prosaicità così come, per le ultime raccolte in cui si evolve in un ordine prosodico evidente, non uscirà di casa, poiché mi sembra di riconoscere un'influenza palpabile nel suo sodalizio amoroso e culturale con l'ottima compagna Patrizia Valduga.
Fin qui mi sono preoccupato di segnalare all'eventuale lettore alcuni punti fermi o alcune direttrici, incominciando dal paesaggio, credo unico nella nostra poesia e perciò di singolare importanza: è un paesaggio riconducibile alla toponomastica milanese, con la Vetra, il Mulino delle armi, il corso di Porta Ticinese e i Navigli, ma anche i lavori di scavo per la metropolitana, e con i suoi personaggi, che vanno dai frequentatori delle visioni pomeridiane nei cinematografi a un Baggio eroe interista. E' chiaro, il suo è un linguaggio che mira alle cose, senza distinzioni gerarchiche, e che parte dall'occhio. Lo sguardo e il «parlato», con tanto di personaggi e di storie... Mi pare che si tratti di teatro, un teatro di cui si potrebbe fare l'elenco degli elementi (parole) costitutivi, il perno sul quale ruota il discorso: simulazioni e dissimulazioni, astuzie e imitazioni, falso e tendenzioso e vero, e su tutto la morte e le morti.
C'è pure una poesia erotica, specie nell’anziano Raboni (mi viene in mente la produzione del vecchio Picasso) che non è saggezza ma ilare follia, un trasferimento del sangue in immagine. La linea portante rimane in ogni modo la rappresentazione di un degrado che si configura nel degrado urbano, metafora infine del degrado morale, che da sempre muove la sua santa indignazione, in toni aspri e mai ambigui, espliciti. Mica si può dimenticare che la sua ultima, estrema poesia è un ritratto inequivocabile, nel 2004, di Silvio Berlusconi: «Stillicidio di delitti, terribile: / si distruggono vite, / si distruggono posti di lavoro, / si distrugge la giustizia, il decoro / della convivenza civile / [.. .] E intanto l'imprenditore del nulla, / il venditore d'aria fritta, / forte coi miserabili / delle sue inindagabili ricchezze / […] sorride a tutto schermo / negando ogni evidenza, promettendo / il già promesso e l'impossibile, / spacciando per pragmatico / il suo osceno frasario da piazzista», ecc.
Io la leggo, questa poesia, come il testamento di Raboni o la sua lezione indignata, per noi rimasti, per dimostrarci che la poesia può servire, serve.


Tuttolibri “la Stampa”, ritaglio senza data, probabilmente 2006

Il Gioco della Cuccagna (John Dickie)

I giochi da tavola divennero popolari nel XVII secolo. Nei territori dello Stato Pontificio, di cui Bologna era entrata a far parte nel 1506, la ragione di questo successo era dovuta anche al fatto che i dadi e i giochi di carte erano diventati una fonte di introiti fiscali ed erano sottoposti a censura da parte della legge. Un decreto emesso a Roma nel 1588 dichiarava: «Vedendosi per antica esperienza quanto sia pernicioso il gioco, dal quale nascono per lo più la perdita delle facultà private et la rovina delle famiglie intiere». La legge escludeva esplicitamente dai suoi provvedimenti i giochi da tavola.
Alcuni di questi passatempi inventati per sostituire le carte e i dadi consistevano in percorsi disseminati di trabocchetti, un po’ come il gioco dell’oca, mentre altri prevedevano penalità e ricompense in base al risultato dei dadi: i giocatori dovevano seguire le istruzioni riportate sulla casella del tabellone corrispondente al numero uscito con i dadi. Alcuni numeri consentivano di guadagnare soldi, altri li facevano perdere; alcuni numeri imponevano imbarazzanti penitenze, come fare la pernacchia a tutti quelli presenti nella stanza, altri autorizzavano chi vi capitava a imporre penitenze agli altri giocatori.
Giuseppe Maria Mitelli fu il più grande disegnatore di giochi da tavola della Bologna del Seicento. Era nato nella città felsinea nel 1634, secondo figlio di un pittore di successo. Con sua grande frustrazione, i suoi sforzi in campo artistico non incontrarono lo stesso successo conosciuto dal padre, e in mancanza di meglio si dedicò all’incisione, arte minore e più a buon mercato, raggiungendo in questo settore una certa notorietà. Le stampe si rivolgevano a un pubblico più ampio di quello dei dipinti a olio e degli affreschi: anche gli ignoranti potevano apprezzarle. Mitelli realizzava stampe satiriche, ma senza mai discostarsi dai canoni della moralità ufficiale (il fratello, d’altronde, era un gesuita).

Realizzò trentatré giochi da tavola, tra cui, nel 1691, il Gioco della Cucagna. Le caselle illustrate corrispondono ognuna a una specialità delle diverse città italiane: tira un quindici e avrai pane di Padova; tira un undici e avrai la gatafura genovese (la torta di formaggio già menzionata da Scappi); tira un nove e avrai i cantuchij pisani (i cantucci che oggi ritroviamo come dessert nel menù tipico toscano proposto dal ristorante La Vecchia Macina, quello del «Mulino Bianco»); tira un diciassette e vincerai un altro prodotto tipico in circolazione ancora oggi, il «turone» di Cremona (questo però sei autorizzato solo a succhiarlo). I premi più squisiti sono destinati a quei giocatori che riescono a tirare lo stesso numero con tre dadi: con un triplo due, vinci la busecha (trippa) milanese, con un triplo quattro ti porti a casa le provature romane, e il premio più grande di tutti, non c’è bisogno di dirlo, lo conquisti tirando un triplo sei, la raffa maggiore. Nella casella centrale del tabellone è raffigurato un uomo in piedi fra due salsiccioni appesi, grandi quanto la sua testa: «W le mortadelle di Bologna», recita la didascalia della casella, «tira tutti» (hai vinto tutto).
Il Gioco della Cucagna affondava le sue radici nel patriottismo cittadino bolognese e nella diffusa concezione dell’Italia come terra di specialità gastronomiche locali, ma esibiva lo stesso moralismo allegro di altre incisioni del Mitelli. «Il Gioco della Cucagna, che mai si perde e sempre si guadagna», recitava il titolo per esteso riportato sul tabellone: ma Mitelli doveva essere ben consapevole che solo in un gioco o in una festa cittadina la terra dell’abbondanza dell’Italia urbana, la sua Cuccagna di piatti tipici, poteva essere accessibile senza sforzo a chiunque.


Da Con gusto. Storia degli italiani a tavola, Laterza, 2009 (I ed. inglese 2007)

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