30.11.11

Anni Quaranta. Il Papa contro Rita Hayworth (Gerald Peary)

La caduta di Rita Hayworth ebbe luogo nel 1948, e fu improvvisa e rovinosa. Proprio lei, che era stata sempre considerata la più accomodante e la meno piantagrane delle attrici, rifiutò un soggetto che le era stato espressamente destinato, quello di Lola Hanson  e si fece sospendere dalla Columbia.
La stampa nazionale non sapeva nulla della sceneggiatura in questione, ma si schierò lo stesso unanime a fianco del datore di lavoro, largheggiando in storie lacrimose sul come il povero Harry Cohn, il tiranno in carica alla Columbia, avesse dovuto licenziare comprimari e personale per colpa di una diva capricciosa. Come giusta punizione il Women’s Press Club di Hollywood insignì la Hayworth del titolo di attrice meno disponibile del 1948.
Tutto ciò fu ancora poco rispetto alla successiva, monumentale, trasgressione. Rita Hayworth, l’istituzione americana per eccellenza, annunciò che intendeva sposare quello che da un po’ era il suo fedele accompagnatore, uno straniero, anzi un alieno: Alì Khan, il figlio dell’Aga Khan, uno dei capi spirituali dell’Islam.
I due lasciarono gli Stati Uniti, il cinema e Hollywood, e, mentre l’intrepida Luisella Parson non li perdeva d’occhio per un attimo e faceva la cronaca di tutto l’affaire in diretta, si sposarono nella Francia del Sud, il 27 maggio 1949, davanti a un sindaco comunista.
I novelli sposi non avevano aspettato che venissero formalmente espletate le pratiche del divorzio di Alì, che era in corsa proprio allora: le loro nozze, di conseguenza, vennero deplorate dal papa in persona. Il Vaticano, per di più, annunciò che Rita, che era cattolica, doveva considerarsi scomunicata e precisò che ogni figlio nato dall’unione sarebbe stato “concepito nel peccato”. La neo principessa rispose dando “prematuramente” alla luce una bambina, Yasmin, che nacque nel dicembre ’49, nei primi mesi del matrimonio.

Gerald Peary, Rita Hayworth. Storia illustrata del cinema, Rizzoli - Milano Libri

28.11.11

1936. Francis Scott Fitgerald alla figlia Scottie sull'arte del racconto.

Nel 2003 Rosellina Archinto pubblicò, per la prima volta in Italia, le Lettere a Scottie di Francis Scott Fitgerald per la cura di Massimo Bacigalupo. 
Il libro raccoglie le lettere che il celebre scrittore del Grande Gatsby scriveva alla figlia negli ultimi, per lui pesanti, anni 30, quando, pur emarginato e con redditi ridicoli, s'impegnava a mantenerla in uno dei più esclusivi college di New York. L'epistolario è interessante anche per le risposte della giovane figlia, talora fatua, ma spesso grintosa e combattiva. 
Una lettera di Francis del 20 ottobre 1936 discorre della vocazione letteraria di Scottie, che si cimentava nell'arte del racconto, e contiene, corta e sugosa, una vera e propria lezione.
"Non scoraggiarti più di tanto perché il tuo racconto non è perfetto. Allo stesso tempo, non ho intenzioni di incoraggiarti a riguardo, perché, dopo tutto, se vuoi fare sul serio ed avere successo, devi avere i tuoi ostacoli da superare e devi imparare dell'esperienza. Nessuno è mai diventato scrittore solo perché voleva diventarlo. se hai qualcosa da dire, qualcosa che senti che nessuno ha mai detto prima, devi sentirlo così disperatamente che troverai un modo per dirlo che nessuno ha mai trovato, così la cosa che devi dire e il modo di dirla si mescolano come una materia unica: indissolubili come se li avessi concepiti insieme".

La poesia del lunedì. Dario Bellezza (1944 - 1996)

Io relitto semiserio di un mondo
scomparso rivisito goloso ancora
Campo dei Fiori, per arrivare
al numero otto della storica piazza
al tuo studio melanconico
dove assiderato dalle mie angosce
mi rannicchio pensoso di altri martiri
più accecanti che un tempo
mi guardarono laggiù, fra partite
austere di pallone e grida oscene
e popolari di mercato!...

Da io, 1983

I seni delle fiabe per i bimbi (Ramòn Gomez de la Serna, Madrid 1891-1965)

Quella fanciulla di diciassette anni, dalle trecce fatte di sole, aveva perduto i suoi seni; e la poveretta piangeva a dirotto, poiché sebbene essi non avessero per lei utilità di sorta, in essi sospettava non si sa quale strana virtù, poiché i seni dirigono la donna, sono il suo timone.
- I miei seni! I miei poveri seni! Dove avrò perduto i miei seni? – diceva estenuata, seguitando a cercarli nel fosco del bosco.
E mentre ripeteva “I miei seni! I miei seni” le sue mani cercavano nel petto i borsellini gonfi dei suoi seni.
Allora incontrò una vecchierella, che le domandò le ragioni del suo pianto.
- Ho perduto i miei seni – rispose la fanciulla, con i gesti della donna derubata.
- Ah, bimba mia, i tuoi seni se li è presi il grosso uccello per metterseli lui. Egli soffriva di non aver seni come gli esseri superiori… Un uccello con seni affascinanti, invece, potrà bussare all’uscio degli angeli e tentare il cielo con i suoi seni terrestri.
Allora la fanciulla che aveva perduto i seni smise di cercarli e li considerò perduti per sempre e, durante la vita, ricordando l’accaduto, portava le mani al posto dei seni e così li evocava irresistibilmente…
Da Seni, Dall'Oglio, 1978 (prima edizione spagnola 1931) 

Hollywood 1915. "Purity", un nudo di successo.

Audrey Munson in "Purity"
Audrey Munson era stata scelta per posare per la moneta commemorativa della Fiera mondiale di San Francisco del 1915. La stampa sfruttò l’immagine presentando la ragazza come emblema di un corpo femminile ideale. La Munson fu subito scritturata dalla American Film Company e Clifford Howard (un soggettista e regista di cui si trovano tracce anche in Wikipedia) fu incaricato di scrivere una sceneggiatura che disarmasse i censori. Ecco la sua testimonianza ricavata da un vecchio libro sul cinema muto : “Escogitai il titolo Purity. Qualunque cosa si possa dire del risultato artistico raggiunto, il film corrispose alle aspettative della casa produttrice. Fu il film più costoso da essa prodotto, ma per la fine dell’anno aveva già dato un profitto di mezzo milione di dollari. Alcune città lo proibirono, altre lo accolsero bene. Certi critici lo stroncarono spietatamente, altri lo elogiarono entusiasticamente. Sul film si predicarono sermoni, pro e contro. Era la prima volta che collaboravo a un’opera a  sensazione, e dopo di allora non mi è più accaduto”.

27.11.11

La cottura delle carni e l'evoluzione della specie. Caccia e cucina.

L’8 novembre 2011, con il titolo Quando la cucina cambiò la nostra evoluzione, il notiziario on line della rivista “Le Scienze” pubblicava un redazionale sui risultati di una ricerca di Harward, curiosa e suscitatrice di curiosità. Secondo i ricercatori, di varie discipline, la cottura delle carni avrebbe giocato un ruolo determinante nell’evoluzione della specie umana, favorendo una crescita importante delle dimensioni del corpo umano e del cervello, che avrebbe allora cominciato a specializzarsi nelle sue diverse parti e a perfezionarsi. Se l'ipotesi dovesse trovare piena conferma in successive ricerche, credo che sarebbe ipotizzabile che sia da rintracciare nella cottura e nella preparazione delle carni la base della divisione sessuale del lavoro e l'origine di significative differenziazioni tra chi caccia e chi cucina. (S.L.L.)
Anche se i nostri antenati mangiavano carne già 2,5 milioni di anni fa, non avevano la capacità di controllare il fuoco, e la consumavano cruda, probabilmente dopo averla pestata con strumenti in pietra. Circa 1,9 milioni di anni fa, tuttavia, si verificò un improvviso e drastico cambiamento. Il corpo dei primi umani divenne più grande, il cervello aumentò di dimensioni e complessità e si manifestò un adattamento a percorrere lunghe distanze.

Finora la teoria generalmente accettata ipotizzava che questi cambiamenti fossero dovuti a un deciso aumento della carne nella dieta. Alcuni anni fa, tuttavia, Richard Wrangham della Harvard University aveva avanzato l’ipotesi che un ruolo di primo piano l’avesse avuto l'innovazione rappresentata dalla cottura. Ora, questo nuovo lavoro ha fornito prove concrete a sostegno dell’ipotesi.

Anche se studi precedenti avevano esaminato gli aspetti specifici di ciò che accade durante il processo di cottura, ha detto Rachel Carmody, prima firmataria dell’articolo, "sorprendentemente, non esisteva alcuna ricerca che  ne avesse esaminato gli effetti netti: c’erano frammenti di studi che non si riusciva a integrare in modo uniforme. Sapevamo che diversi meccanismi potevano essere in gioco, ma non sapevamo come combinarli".

Per esaminare direttamente questi effetti, i ricercatori hanno nutrito per 40 giorni due gruppi di topi con una serie di diete a base di carne o patate dolci preparate in quattro modi: crudo e intero, crudo e pestato, cotto e intero, e cotto e pestato. Durante ciascuna dieta, i ricercatori hanno monitorato i cambiamenti di massa corporea di ogni topo e la quantità di esercizio che compiva. I risultati, ha detto le Carmody, hanno mostrato chiaramente che la carne cotta permette di ottenere una maggiore quantità di energia rispetto a quella cruda.

Il lavoro di Carmody non ha riflessi solamente sulla nostra conoscenza degli albori dell'evoluzione umana, ma mette in questione il ricorso alla mera indicazione delle calorie come strumento di valutazione del potere energetico di un cibo: "Questo sistema si basa su principi che non riflettono la disponibilità di energia in vivo", ha osservato la Carmody. "Anche se misura ciò che è stato ingerito, il sistema gastrointestinale umano comprende tutta una serie di batteri, che metabolizzano alcuni dei prodotti alimentari a proprio vantaggio. Il sistema non discrimina, cioè, tra il cibo che viene metabolizzato dall’uomo o dai batteri, e vi sono sempre più dati che suggeriscono che i batteri prelevano una porzione abbastanza signifiativa del cibo che mangiamo."

Revisionismo (per un pannelliano di Terni) (S.L.L.)

Nikita Krushev
Un paio di anni fa il pannelliano Francesco Pullia, con pezzi giornalistici che qualcuno pubblicò e qualcun altro respinse, intervenne a pro dell’avvocato ternano Marcellini, autore di un truculento romanzetto antipartigiano. Se la prese con “micropolis”, considerata addirittura la punta di diamante di un regime censorio e intimidatorio, accusandola di aver dato il via a una sorta di fucilazione del Marcellini. 
Chiunque segua le cose dell’Umbria e conosca anche superficialmente “micropolis” comprende che quelli di Pullia erano ideologismi senza rapporti con la realtà: che il mensile umbro fosse (e sia) schierato con i governi dei postcomunisti e degli amici di Paglia è cosa che non sta né in cielo né in terra.
Non credo, peraltro, che il Pullia propalasse il falso in malafede. La menzogna - per funzionare - ha bisogno di un minimo di credibilità e la malafede esige un po’ di ragionevolezza. Ciò che nell’occasione il ternano scriveva non era né credibile né ragionevole: l'uomo era – piuttosto - accecato dal fanatismo.
Tra l'altro contro la sinistra “inaffidabile” di cui “micropolis” sarebbe espressione Pullia scrisse: “Le accuse non sono difficili da immaginare: revisionismo (il comunismo sarà pure crollato, i comunisti saranno pure spariti, come almeno vorrebbero indurci a credere, sta di fatto che la loro bolsa terminologia resta, eccome)…”. E, a mo’ di chiusa, aggiunse: “Già, è vero, dimenticavamo, noi siamo sporchi revisionisti”.
Si potrebbe desumere che per l’esponente dei radicali revisionismo è un terribile epiteto, che i comunisti – nella loro “bolsa terminologia” - usano per dire del “nemico” tutto il male possibile.
Ma le cose non stanno così. 
Ed è per questo che proprio in blog diffusi una sorta di ricognizione sul termine revisionismo come appendice della polemica, quella che qui di seguito “posto”, lievemente ridotta, riveduta e corretta, perché può funzionare anche fuori dal contesto in cui nacque.
Pullia, se vorrà, potrà riconoscere che il “revisionismo” è concetto complesso, da maneggiare con cura, e che esso, neppure nella “bolsa terminologia” che egli attribuisce ai comunisti, ha avuto connotazioni sempre negative. Su tutto fanno premio gli aggettivi, le specificazioni, le sfumature, i contesti. 
Ma per muoversi dentro le storie, i concetti e le storie dei concetti bisogna studiare. E’ quello che suggeriamo al radicale ternano. “L’istruzione è obbligatoria, l’ignoranza è facoltativa” – credo che lo dicesse Celeste Negarville. O quello era uno “sporco” comunista? (S.L.L.)
Edward Bernstein
L’epiteto “revisionista”, intanto, non nasce in un contesto comunista, ma socialdemocratico. 
All’inizio del Novecento lo usò – con una accezione positiva - il socialista tedesco Eduard Bernstein, che lo utilizzò per proporre al movimento operaio l’abbandono dei principi marxisti che erano stati trasformati in dogmi. Per ottenere sempre nuove conquiste sociali e civili – egli diceva – bisogna essere revisionisti. 
Gli rivoltò il termine contro il suo compagno di partito Karl Kautsky, leader della tendenza ortodossa, il quale vi leggeva l’abbandono dei fondamenti classisti del partito. 
Nella polemica politica interna al socialismo tedesco si fece di conseguenza un uso ampio della parola fino alla prima guerra mondiale, quando, per uno dei paradossi della storia, nella socialdemocrazia tedesca il socialista “di destra” Bernstein fece una scelta pacifista come la socialista di sinistra Rosa Luxemburg, mentre i centristi di  Kautsky in sostanza accettarono di votare i crediti e di sostenere la guerra dal Kaiser.
Lenin, che da esule russo partecipava al dibattito teorico nella Seconda Internazionale, era stato compartecipe della battaglia contro il revisionismo di Bernstein, ma, con lo scoppio della guerra, il suo principale bersaglio nella polemica interna al socialismo diventò Kautsky, contro il quale mise in campo una forte aggressività verbale: tuttavia lo chiamava “rinnegato” e “socialtraditore”, non revisionista.
Nella Terza internazionale la categoria del “revisionismo” fu pochissimo usata. Stalin, che presto ne divenne la guida, pretendeva che il suo fosse un “marxismo creativo”. Nel catechismo terzinternazionalista esisteva la deviazione “revisionismo”, opposta a quella speculare del “dogmatismo”, l’una e l’altra ostili al marxismo creativo tipico di Stalin, ma non fu “revisionista” il termine preferito per stigmatizzare i nemici interni ed esterni. Per esempio contro la socialdemocrazia gli stalinisti arrivarono a parlare di “socialfascismo”; contro Bucharin e, ancor più, contro Trotzkij, capofila dell’opposizione bolscevica nel Pcus da destra e da sinistra, si adoperarono i termini infamanti di “traditore”, “rinnegato”, “spia”, “piccolo-borghese”, “nemico di classe” e, nel caso di Trotzkij, perfino “Giuda” e “giudeo”, mai quello di “revisionista”. Il termine fu semmai rispolverato da Suslov, nel secondo dopoguerra, contro la “cricca di Tito”.
Il ritorno di fiamma della categoria teorico-politica di “revisionismo” si ebbe con lo scoppio della polemica cino-sovietica nei primi anni 60 e il primo ad esserne segnato, seppure con cautela, fu Palmiro Togliatti in un opuscoletto del Pcc (che si ritiene ispirato più da Liu Shao-chi che da Mao): Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Le cautele scomparvero quando lo scontro con l’Urss si fece rovente e il “Quotidiano del Popolo” pubblicò una vera requisitoria contro il leader sovietico del tempo dal titolo Il falso comunismo di Khrushev e gli insegnamenti storici che dà al mondo
Da allora in poi i “revisionisti” per eccellenza – di quando in quando chiamati anche “sporchi” - divennero i capi del Cremlino e “revisionista” diventò l’accusa più infamante che comunisti cinesi e filocinesi rivolgessero ad altri (“sedicenti”) comunisti, giudicati falsi, sia in Cina che altrove. 
Il successo della parola nel mondo è legato al grande movimento di contestazione, specie giovanile, che scosse l’Occidente tra gli anni Sessanta e Settanta e che in Italia fu chiamato “Sessantotto”: nelle sue file c'erano molti simpatizzanti del maoismo e della Rivoluzione culturale.
Va detto che nel Pci, invece, il termine “revisionismo” non veniva affatto letto come offensivo: la reazione più frequente era che “se revisionismo significa un grande sforzo di rinnovamento del marxismo, siamo revisionisti”. Alla morte di Mao, Romano Ledda, un ottimo giornalista di fede ingraiana che faceva il vicedirettore di “Rinascita”, osò scrivere sul settimanale ideologico del Pci, senza che nessuno menasse scandalo, che Mao (come già Gramsci e Togliatti) era stato un “grande revisionista”.
Più recente è l’uso della categoria nel dibattito storiografico, affermatasi soprattutto in difesa della verità storica dell’“Olocausto” e delle sue dimensioni, negata da alcuni scrittori di storie, in vario modo legati alla destra estrema (Faurisson e altri) o all’integralismo islamista. Sono stati costoro, nell’uso corrente, i primi “revisionisti” della storia del Novecento, non so dire se sporchi o ripuliti.
Che la storia debba essere sottoposta a sistematiche revisioni è, in realtà, concetto che tanti accettano da gran tempo, non solo per l’ovvia considerazione che una nuova documentazione o un nuovo approccio può rivelare inesatta l’interpretazione consolidata, ma anche per la saggia costatazione di Benedetto Croce che “la storia è sempre storia contemporanea” e che cioè lo storico interroga il passato facendogli domande che vengono dal presente. 
In tempi recenti il “revisionismo storico”, lo sforzo di interpretare un evento del passato in maniera diversa da quella corrente si è esteso dall’Olocausto ad altri fatti e ha connotato talune riletture della storia contemporanea, che vedono nel fascismo e nel nazismo un "tentativo estremo, uguale e contrario, di reazione all'incedere del comunismo". Sulla scia della revisione di Nolte, quasi sempre senza il suo spessore, si sono poi avviate molte altre “revisioni” da destra della storia, spesso su basi clericali e sanfediste e/o con visioni complottistiche. In questa luce la Rivoluzione Francese, il Risorgimento italiano, la Resistenza ecc. diventano il prodotto di una congiura tra massoni ed ebrei, con l’aggiunta novecentesca dei comunisti.  
Io credo che, qui da noi, bisogna liberare il termine “revisionismo” dalla negatività proiettata dal furore “rovescista” più che revisionista della destra italiana, la quale tende a ribaltare sia il giudizio negativo sulla reazione clericale e assolutistica dell’Ottocento e sul fascismo del Novecento che il giudizio positivo sul Risorgimento e sulla Resistenza. “Revisionisti” si può e si deve essere. Tali, e per nulla cialtroni, erano gli storici della rivista francese "Annales", tanto per fare un esempio: deve essere possibile anche in Italia una seria storiografia revisionistica. Ma c’è revisionismo e revisionismo; e sotto questo nome si possono introdurre  innovazioni importanti o le teorie più folli e strampalate.
Con la storia e la storiografia, poi, ha poco a che spartire il “negazionismo” di cui sopra. Sostenere, come fanno alcuni, che le camere a gas e i forni crematori non sono mai esistiti non è un'interpretazione, ma un falso montato ad arte da una pattuglia di storiografi filonazisti. Il falso purtroppo trova facilmente qualcuno disposto a propagandarlo, e non manca quasi mai chi è disposto a crederci. Ma questo è un altro discorso...

Per amore di Marina (da "micropolis" novembre 2011)

Dalla rubrica Il Piccasorci del numero appena uscito di "micropolis", riprendo un breve pezzo su una manifestazione di sincera gratitudine verso la figlia del Cavaliere. (S.L.L.)
Amici dei cani con villa
Si può dire tutto dell'onorevole Catia Polidori meno che manchi di riconoscenza. Dopo aver conosciuto i suoi cinque minuti di celebrità nel voto di fiducia, fu ricompensata con il Sottosegretariato allo Sviluppo economico e in seguito promossa a vice ministro del Commercio estero. Come sdebitarsi? La Polidori ordina un cappotto di cashmere rifinito a mano in una rinomata sartoria artigianale di Città di Castello. Costo: poco meno di mille euro. Destinataria Maria Elvira Berlusconi detta Marina, presidente della Mondadori, la donna più potente d'Italia per la rivista "Forbes". Regalare un cappotto alla rampolla del cavaliere può apparire una caduta di stile. No, non avete capito. Il morbido pelo della preziosa lana di capra hircus è destinato al di lei cane che potrà sfidare tranquillo l'inverno brianzolo.

Perugia. Un sindaco di destra (un commento da "micropolis" )

In una lunga - l’ennesima in verità - intervista al “Giornale dell’Umbria” (9 novembre) il sindaco di Perugia Wladimiro Boccali ha indossato, ormai senza più riserve, i panni del Rudolph Giuliani di turno: “Dare vita dannata a chi delinque” è lo slogan accolto con entusiasmo dal direttore Castellini, tra i più impegnati nel promuovere la “battaglia per la sicurezza” del capoluogo. Ora la questione del consumo e dello spaccio di droga e quella dell’abuso di alcolici, in grande crescita tra i giovani e i giovanissimi, è cosa troppo seria, per cui rinunceremo all’ironia. Tra le risposte di Boccali ce ne sono alcune senza dubbio condivisibili, anche se troppo tardive rispetto allo sviluppo del fenomeno, ad esempio quando si parla di un’azione di controllo nei confronti dell’affitto in nero delle abitazioni. Fin troppo facile ricordare al sindaco i suoi trascorsi da assessore all’urbanistica. Tuttavia non è questa la cosa che più disturba, quanto il fatto che la lotta - ammesso che dalle parole si sia veramente intenzionati a passare ai fatti - al mercato nero degli alloggi sia posta solo in rapporto allo spaccio di droga ed alla presenza di immigrati non regolari. Come a dire: fintanto che il tutto si riduceva alla spremitura degli studenti fuori sede, tutto bene. Vorremmo però segnalare due risposte tanto inaccettabili quanto, se ci è concesso, inquietanti, soprattutto se si tiene conto che sono state pronunciate da un esponente del centrosinistra e che, per di più, ha costruito la sua carriera politica nel sociale. La prima è quando Boccali attacca la magistratura rea di non avere tra le sue priorità la lotta alla microcriminalità: “I tribunali debbono essere pieni di questa gente alla sbarra”; la seconda è quando rivendica il merito di avere fatto pressione per la costituzione di un Centro di identificazione ed espulsione in loco: “Avere insistito per avere il Cie a Perugia ha portato, comunque, al fatto che, in altri Cie italiani, ci siano posti riservati a Perugia”. Abbiamo detto di voler rinunciare all’ironia e manterremo la promessa: Perugia ha un sindaco di destra, questo è quanto.

Commento redazionale da "micropolis" - 27 novembre 2011

26.11.11

Lelio Luttazzi. Gli inizi (di Marco Ranaldi)


Bonino... in un concerto tenuto a Trieste s'imbattè in Luttazzi e ne rimase folgorato tanto da commissionargli una canzone. Questa mitica canzone, Il giovanotto matto, fu scritta di getto sulle pagine del manuale su cui Luttazzi studiava legge. Come egli stesso amava raccontare, fu per caso che dopo la guerra gli arrivò un cospicuo assegno dalla Siae (sembra che fosse di 350 lire che all'epoca non erano mica poche) come compenso dei diritti scaturiti dalle esecuzioni della sua canzone. Fu una grande sorpresa e fu il primo vero contatto con i guadagni del successo. In breve tempo, dopo aver incontrato il suo collega e concittadino Ferruccio Merk Ricordi, in arte Teddy Reno, decide di trasferirsi con lui a Milano dove nel 1948, con l'impegno e la partecipazione del padre di Reno, fonda la Compagnia generale del disco, Cgd. Luttazzi diviene subito direttore artistico e al suo fianco chiama Gianni Ferrio che fresco di diploma in violino e composizione (aveva studiato con Amerigo Pedrollo) arriva da Vicenza con una grande voglia di scrivere e dirigere. In due si dividono i cantanti e lavorano, nel tempo, con le voci più importanti sia dell'etichetta che della canzone moderna: Jula De Palma e Johnny Dorelli. E' del 1951 una delle sue canzoni più raffinate che è poi il manifesto della sua scrittura: con Vecchia America Luttazzi riesce lì dove solo il suo "maestro" Kramer era riuscito, portare cioè nella composizione italiana la struttura del jazz, usando quindi gli accordi dalla settima in poi e soprattutto usando la voce come uno strumento dell'orchestra. Non a caso Vecchia America fu affidata al Quartetto Cetra...

Da Lelio, il senso leggero del suono, in "alias" 17 luglio 2010.    

Mio figlio. Una poesia di Rudyard Kipling (1865 - 1936)

Mio figlio morì ridendo, per qualche scherzo
Vorrei tanto sapere di che scherzo si trattava
Potrebbe servirmi adesso, che ho così poco da ridere.

Come nascevano le canzoni di Totò (di Liliana de Curtis)

Papà si dedicava alle poesie e alle canzoni principalmente a notte fonda. la sua giornata era ricca di impegni e si ritagliava qualcuna tra le ore più buie per improvvisare al pianoforte un accenno di melodia e trovare le liriche adatte. Altre volte gli venivano fuori all'improvviso, in una pausa tra una scena e l'altra o mentre stava a casa, e cominciava a ripetere e precisare il suo motivo.
Il suo primo test era il suo inseparabile autista, Salvatore Cafiero. Gli recitava la canzone, fischiettando il ritornello, e aspettava il suo parere. uno dei ricordi più belli e strani della mia adolescenza sono le passeggiate in macchina che facevo con papà e l'autista. Mentre ci dirigevamo verso il mare, Totò recitava i versi più recenti e Cafiero, intonato come la maggior parte dei napoletani, li ripeteva canticchiando in modo piacevolissimo. 

Da Il principe della mòseca di Flaviano De Luca in "alias", 20 marzo 1999

Irpinia 31 anni dopo. Il 23 novembre del 1980 un tremendo terremoto...

Raffaele Cutolo
Il 23 novembre del 1980 un tremendo terremoto colpì l’Irpinia, provocando quasi 3000 vittime e miriadi di feriti e sfollati.
Fu un gran giorno per i camorristi e per i politici locali, che fino ad allora si erano chiesti come potessero diventare in breve tempo oscenamente ricchi a scapito della collettività.
Colapesce

25.11.11

Facevamo servizio pubblico (di Gianni Montieri)

Un po’ fuori posto (ma non troppo), nel sito “La poesia e lo spirito”, trovo questo magnifico pezzo sul pubblico impiego. Spero di contribuire a farlo circolare un po’ di più. Lo merita (S.L.L.)

Fu strano per un ragazzo di ventiquattro anni arrivare dalla provincia di Napoli a Milano. Arrivarci in gennaio con la nebbia, il freddo e tutti gli stereotipi piazzati lì davanti agli occhi e ai giacconi mai abbastanza pesanti.
Era il 1996. L’anno, per me, delle prime sciarpe, la prima volta dei guanti. Arrivai il sabato e il lunedì si cominciava, in Comune. Un ente gigante e gigantesco, ventimila dipendenti, allora. Oscillavo tra paura del nuovo, contentezza per averla scampata e voglia di dimostrare che noi del Sud lavoravamo e che non era vero ciò che si diceva. Ma poi realmente cosa si diceva? A dirla tutta non l’ho mai saputo. I primi mesi furono strani: uffici e archivi troppo grandi e sporchi, computer che non arrivavano, colleghi che non ti parlavano. La confidenza da non dare a uno col contratto al termine e, per giunta, terrone. ‘Na munnezza’.
Una cosa mi piacque da quasi subito: i colleghi più anziani. Quelli che del lavoro in Comune, del “servizio per il pubblico”, ne avevano fatto una ragione di vita. Una morale. Arrivavano con le scartoffie in mano, con la loro pratica da farti inserire nel database, e dicevano frasi così: Ragazzo, ricorda che noi dobbiamo delle risposte alle persone, e quelle risposte gliele dobbiamo, che i computer ci siano o no, che le fotocopiatrici funzionino o meno.
Quello che mi ha insegnato tutto si chiama Antonio (ora in pensione, beato lui). Antonio mi diceva: «Ragazzo, per prima cosa mandiamo a casa la gente, risolviamo il loro problema, il resto “burocratico” lo mettiamo a posto dopo, a sportelli chiusi». Lui ci credeva e ci ho creduto io. Quella lezione l’ho imparata a memoria e la applico a tutto, pure al resto della vita.
Negli anni sono cambiate molte amministrazioni, governi, modi di intendere l’attività degli uffici pubblici. La dinamica dei costi e ricavi, del profitto, del privato, è entrata di prepotenza. L’efficienza della pubblica amministrazione (che è necessaria) è stata mischiata e confusa all’idea che questa debba rendere profitto, questo ha fatto sì che si perdesse di vista l’interesse pubblico.
Non è così, il pubblico resta il pubblico, anche con le mail, la firma elettronica, i certificati on-line. Gli amministratori, ma anche noi impiegati, l’abbiamo dimenticato. Tutti, a un certo punto, abbiamo confuso il raggiungimento dell’efficienza, l’abbattimento dei costi, le nostre delusioni personali con la quasi totale dimenticanza del cittadino. La persona è diventata utente. Utente uguale seccatura. Allora: ridurre l’orario di accesso al pubblico, non sprecare troppo tempo al telefono, sbuffare per una perdita di tempo dovuta a una lamentela. Come se il tempo impiegato a risolvere un problema, a essere gentili, fosse sprecato. O fossimo sprecati noi.
La cosa più bella di questo lavoro era (ma dovrebbe esserlo ancora) la signora che ti diceva: grazie, lei è così gentile. Bastava quello a fare una giornata, a farci pensare: ne vale la pena. Questa bellezza, questa idea di “servizio pubblico”, l’abbiamo persa, ce la siamo giocata in cambio di “obiettivi” da raggiungere entro l’anno. Obiettivi sconosciuti alla maggior parte dei dipendenti. Quindi l’obiettivo strategico (risultati, budget, immagine, qualità) sostituisce l’obiettivo primario: servizio pubblico. Il fatto è che non guadagniamo molti soldi (eccetto i dirigenti). Non li guadagnavamo allora, non li guadagniamo adesso. Prima ti sentivi, però, parte di qualcosa e, certe sere, mica sempre, tornavi a casa contento. Di questi tempi non vedi l’ora di andartene. Ovunque purché fuori di qui.

1897, Oscar Wilde a Napoli. "Con un sorriso da orco soddisfatto"

Wilde e Douglas
Uscito dal carcere di Reading ove aveva scontato la condanna per omosessualità, dopo qualche mese trascorso in Francia, Oscar Wilde giunse a Napoli alla fine dell’estate del 1897. Era insieme al giovane amico Alfred Douglas, detto Bosie, con cui intratteneva una complicata relazione e di cui, pur nella povertà, manteneva qualche vizio. Il soggiorno durò diversi mesi, fino alla primavera del 98. Al periodo napoletano tuttavia anche i biografi più amanti dei particolari dedicano pochissimo spazio. Nel 1981 Renato Miracco tentò di colmare in un libretto dal titolo Verso il sole (Colonnese) utilizzando cronache giornalistiche, lettere di Wilde fino ad allora inedite e private testimonianze. Ne riprendo qui le curiosità, qualcuna delle quali davvero emblematica.

L’oro in bocca
Pare che la prima cosa a notarsi in Wilde fosse un bagliore nella sua bocca, determinato dai denti d’oro. Il cronista di un giornale inglese, Gideon Spillet, scrive: “Quando ride, e ride spesso con un riso da orco soddisfatto, i suoi denti appaiono formidabili, lunghi, luccicanti d’oro”. In un’altra, anonima, cronaca inglese da Napoli si legge: “Lo strano di quell’uomo è quando egli dirige la parola. Uno dei denti superiori è un sol pezzo d’oro assicurato nella gengiva: quando l’esteta apre la bocca, quel metallo luccica stranamente”.

Il falso nome
Wilde, al suo arrivo a Napoli, si faceva chiamare Sebastian Melmoth: Sebastian come il santo martire trafitto dalle frecce, Melmoth come il diabolico protagonista di uno dei primi romanzi dell’orrore, dell’inglese Maturin.

L’orrenda Matilde
La Serao, che aveva una rubrica mondana sul quotidiano “Il mattino” e usava Gibus come nom de plume, quando comincia a circolare la voce della presenza di Wilde a Napoli, pubblica un pezzo dal titolo C’è o non c’è?. Così scrive: “Qualcuno ha annunziato che in Napoli si trovi Oscar Wilde, il ‘decadente’ inglese che diede così larga copia di argomenti ai cronisti a proposito di un processo ripugnante. Questo annunzio ha messo molte persone, tra le quali l’umile sottoscritto, in una certa trepidazione confinante col panico”. La giornalista-scrittrice greco-partenopea prosegue col “ringraziare i giudici inglesi per la loro severità in fatto d’infliggere pene agli odiosamente pervertiti” e lancia un allarme sul possibile contagio del “flagello wildiano”: “Io protesto, in nome della gente perbene, che vuole rimanere tranquilla”.

Lo sconforto di Wilde
Il diffuso pregiudizio omofobo, aggravato dalla scandalosa convivenza con il giovane Douglas e dalla mancanza di denaro, rende difficile il soggiorno napoletano dello scrittore inglese, che è un concentrato di disavventure. La fuga dal Grand Hotel per la difficoltà di pagare il conto, la casa presa in affitto a Posillipo invasa dai topi che neanche l’intervento di una maga riesce a cacciare, una gita a Capri in cui la protesta degli inglesi fa cacciare la coppia dal celebre Quisisana, dove tuttavia un cameriere riesce a fregare a Wilde abiti e manoscritti. Lo scrittore si lamenta dei giornali: “I giornali sono stati piuttosto offensivi. Voglio, anche qui, essere considerato un artista. Se ciò avvenisse credo che dopo mi lascerebbero in pace”. Il fatto è che la situazione alimenta la crisi di creatività: “Non credo che scriverò mai più, la joie de vivre se n’è andata ed è quella la base dell’arte. La gente di Napoli è molto sleale a maltrattarmi per strada”. Il bisogno di sole lo fa resistere per qualche mese, giunge perfino a separarsi da “Bosie” Douglas per rendersi più accettabile, ma l’angosciosa scoperta, mentre siede al caffè Gambrinus, che le guide portano i turisti inglesi a guardarlo quasi fosse un fenomeno da baraccone, lo induce alla partenza. Per Parigi, ove morrà in solitudine un paio d’anni più tardi.

Moralismo e omofobia. Una lettera di Oscar Wilde (1897)

Nel 1897 Oscar Wilde uscì di prigione di Reading, ove era stato rinchiuso per la sua scandalosa omosessualità. Dopo un soggiorno francese si trasferì a Napoli con il suo giovane amico Douglas, ma si sentiva circondato dalla generale ostilità per questa convivenza. E’ il tempo, durissimo, che prelude alla morte dell’autore di Dorian Gray. Ecco un brano della lettera indirizzata all’editore Leonard Smithers il 28 novembre. L’ho tratta da Verso il sole, un libretto di Renato Miracco edito nel 1981 da Colonnese che rievoca l’infelice permanenza partenopea dello scrittore. (S.L.L)
Spero che tu voglia fondare una Società per la Difesa delle Persone Oppresse. Ai nostri giorni c’è un grosso sodalizio europeo diretto da selvaggi e da avvocati contro di noi.
E’ veramente ridicolo che, dopo che la mia intera vita è stata rovinata dalla società, la gente intenda ancora esercitare la sua tirannia sociale su di me e cerchi di costringermi a vivere da solo, cioè nell’unica condizione in cui io non posso vivere.
Non credevo che alla mia liberazione mia moglie, i miei amministratori, i miei pochi amici (perché sono pochi) e la miriade dei miei nemici si sarebbero uniti per costringermi con la fame a tornare a vivere nel silenzio e nella solitudine.
E’ stato proposto di lasciarmi morire di fame o di gettare il mio cervello in un pisciatoio pubblico a Napoli.
Le persone morali, come vengono chiamate, sono bestie. Vorrei avere cinquanta vizi innaturali piuttosto che una virtù.

Kipling e la letteratura.

Rudyard Kipling
Rudyard Kipling nacque a Bombay nel 1865, figlio di un archeologo, che lavorava per conto del governo di Sua Maestà britannica. A sei anni fu mandato in Inghilterra a studiare. Alloggiava in una pensione destinata ai figli di funzionari governativi all'estero. I titolari della pensione, la signora Holloway e suo figlio, usavano verso i bambini un rigore estremo, obbligandoli a mandare a memoria lunghi brani della Bibbia ed assoggettandoli a punizioni corporali.
Scrisse poi Kipling: "Se interrogate un bimbo di sei-sette anni su quello che ha fatto durante il giorno, è facile coglierlo in contraddizione, soprattutto se ha molto sonno. Se ogni sua incertezza è valutata come una menzogna e gli viene rinfacciata l'indomani mattina a colazione, la sua diventa una vita difficile. Sono stato maltrattato altre volte in seguito, ma mai come allora: era una vera tortura. Mi costringevano a inventare frottole per salvarmi. Questa, credo, fu la mia iniziazione alla letteratura".

24.11.11

"La giovinezza dice..." (da Rudyard Kipling - "Il libro della giungla")

La giovinezza dice: "Nessuno mi vale".
Lo dice nell'orgoglio della prima caccia.
Ma la giungla è grande e il giovane è piccolo -
Il giovane deve tacere e meditare.

L'isola di Stevenson (Guido Almansi)

L’8 gennaio 1991 in occasione della nuova edizione Adelphi dell' Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, tradotta e curata da Ludovico Terzi, e di altri libri di o su Stevenson, “la Repubblica” pubblicava un ampio articolo di Guido Almansi da cui ho estratto un brano sul libro che io e molti altri più amiamo. (S.L.L.)
L'Isola del tesoro in preparazione per Principi & Principi
(probabile uscita marzo 2012).
Le illustrazioni sono di Roberto Innocenti
(che bellezza!)

Quanto al giudizio sull'Isola del tesoro espresso nell' appendice da Terzi, non sono certo di poter accettare quella che lui chiama la cristallina purezza di romanzo d'avventura. Lo so, questa opinione è suffragata da molti: dal giudizio di Sciascia nel Cavaliere e la morte (L' isola del tesoro è uno di quei libri che assomigliano alla felicità), al Manganelli nell' introduzione della Bur, ad altri critici; ma io continuo a credere che il fascino del romanzo consista semmai nella sua impurità, nella mancanza di cristallinità.
Qui vorrei rifarmi a un vecchio giudizio di Guido Fink espresso in una trasmissione radiofonica e forse mai pubblicato: “La bellezza dell' isola è una bellezza malata, vicina ai canoni estetici della fine del secolo”. L' isola è così descritta da Stevenson: “Il tratto di costa aveva una lucentezza malsana ... c' è un caratteristico odore di acque stagnanti, (...) di foglie putride e tronchi d' albero marci”. Il dottore scommette la sua parrucca che “lì c' è la malaria”.
L' isola per Stevenson non è un miraggio della salute, ma un passaggio da una malattia a un' altra malattia. Alla fine dell' avventura Jim non rimpiange certo quell'“isola maledetta”; il suo incubo non è più “il marinaio con una gamba sola” bensì il suono della “risacca lungo le coste”. L' isola del tesoro è un testo molto più complesso di quanto appaia a prima vista.

Da Guido Almansi, I tesori di Stevenson, “la Repubblica”, 8 gennaio 1991

La nobiltà in De Roberto e Tomasi di Lampedusa (Roberto Faenza)

Nel 2007 Roberto Faenza, oltre a dirigere I Vicerè per il cinema, scrisse una prefazione al romanzo di Federico De Roberto per le edizioni e/o, nella quale si legge come «Tomasi di Lampedusa, egli stesso nobile, vedesse nella nobiltà un baluardo contro il decadimento morale e materiale dell'Italia unita, mentre De Roberto coglieva in essa i germi del corrompimento in fieri». (S.L.L.)

23.11.11

Lode della lingua italiana (di George Byron - da "Beppo")

Ritratto di Lord Byron
Mi piace poi la lingua, quel bastardo
latino molle, fuso come il bacio
di una donna, e frusciante come il raso,
le sillabe alitanti del Mezzogiorno,
le liquide che scorrono gentili,
felicemente, senza mai incepparsi
in suoni rozzi simili alle nostre
nordiche gutturali, brontolate
e fischiate, che ci obbligano a sibili,
a barbugli e a sputacchi ad ogni verbo.

La traduzione è di Ludovica Koch

Le alternative della "sicilitudine" (di Giorgio Ficara)

In occasione della trasposizione per il cinema dei I Vicerè da parte di Roberto Faenza (in occasione) su “tuttolibri” de “La Stampa” il 24-11-2007 un articolo di Giorgio Ficara, dal titolo a mio avviso incongruo L'Italia vista dalla Sicilia, ragiona di “sicilitudine”. Con molta pertinenza mi pare. (S.L.L.)

Ma questi siciliani, raccontano tutti la stessa storia? E la sicilitudine, questa mitica malattia morale di cui ha parlato Sciascia (a proposito di Brancati) colpisce proprio tutti i siciliani, anche quelli più refrattari al virus, cioè al «mito» stesso dell'Isola? In effetti, un tratto comune, da Verga a De Roberto a Brancati a Tomasi a Sciascia, è un certo dispetto, se non rancore, verso l'immobilismo irrazionalistico dei siciliani e un'opposta infatuazione per l'attivismo razionale dei nordici. Come se «troppa» Sicilia, con le sue canicole e i suoi assopimenti e la sua dolcissima uva insòlia, fosse insostenibile per i siciliani stessi, che dunque spesso fuggono via, a Parigi, a Londra, a Torino, dove i «limiti» del luogo coincidono con l'eccellenza delle soluzioni produttive.

Una sconfinata amarezza
In un «notturno» magistrale e straziante del Mastro don Gesualdo, Verga ci parla dell'«amarezza» del paesaggio siciliano: «Uno struggimento, un'amarezza sconfinata venivano dall'ampia distesa dell'Alìa, dirimpetto, al di là delle case dei Barresi, dalle vigne e gli oliveti di Giolio, che si indovinavano confusamente, oltre la via del Rosario ancora formicolante di lumi, dal cielo profondo, ricamato di stelle...». Su questa stessa nota si modulano le successive arie siciliane di De Roberto e Tomasi e di tutti gli altri, come se «struggimento» e «amarezza» fossero i termini esatti con cui riferirsi non solo al cielo ma alla mentalità dei siciliani (così astratta, peraltro, così poco psicologica). Non uno dei grandi personaggi siciliani, da quelli di Verga a quelli di Sciascia, è immune dalla sconfinata amarezza che sta, prima di tutto, nelle cose intorno, nella vastità stessa dell'arido suolo isolano, nel sole a picco sui sassi o sulle macchie di sugheri e tamerici. Quando, nel Gattopardo, a mezzodì, i due cacciatori don Fabrizio e don Ciccio vi giungono, la cima del monte rivela «l'aspetto della vera Sicilia, quello nei cui riguardi citta' barocche e aranceti non sono che fronzoli trascurabili: l'aspetto di un'aridità ondulante all'infinito in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali, delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in un momento delirante della creazione». Il luogo stesso, in cui i due amici riposano, bevendo vino dalle borracce di legno e mangiando «soavissimi muffoletti», è dunque «sconfortato» e «irrazionale». Un elemento di sconnessione e di demenza agita e blocca le onde di quel mare di pietra.

Fare è un peccato imperdonabile
La grandezza dei siciliani è davvero in questo a tu per tu con la creazione. Anche la storia, e lo strozzarsi della storia nell'ingiustizia, - argomento dei Vicerè di Federico De Roberto - ha a che fare, in Sicilia, con una specie di continuata istanza metafisica e con un'arcana fede: che la creazione non abbia senso e nessuna opera umana, nessuna intelligenza, nessuna diligenza, nessun disegno, nessuna umana cura possa restituire mai ciò che, forse per pura distrazione, originariamente non è stato previsto. L'atroce cupidigia degli Uzeda, nei Vicerè, la stupefacente follia imprenditoriale di Mastro don Gesualdo, il disincanto del principe di Salina, nel Gattopardo, non sono, in effetti, che reazioni, più o meno paradossali, allo stesso male. E quando illustra a Chevalley, nel celebre dialogo, l'«irredimibile» paesaggio insulare - mai distensivo, «come dovrebbe essere un paese fatto per esseri razionali» - il principe Salina allude precisamente a quel male: «Il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare». Di fronte al non senso della creazione, e alla sua tangibile evidenza nelle linee irrazionali del paesaggio siciliano, fare o mutare alcunché, è stupido. D'altra parte, è proprio da questo cerchio vizioso - nichilismo, irrazionalismo, immobilismo - che il siciliano, contravvenendo alla sua stessa «intelligenza», vuole uscire: il Nord amatissimo è una specie di retroguardia dello spirito insulare, un campanello d'allarme, una scossa nel delirio d'immobilità.
Le lezioni di Letteratura inglese, dettate al giovane Francesco Orlando, sono il vero capolavoro di Tomasi, benché a tutt'oggi quasi ignorato: l'autore si muove tra Elisabettiani e puritani, tra Wordsworth e Jane Austen, come nelle stanze di casa, tra i più cari amici, con la stessa suprema gentilezza, con la stessa arguzia e lo stesso genio dell'ospitalità. E ancora: nelle lettere scritte dall'Inghilterra (raccolte ora in Viaggio in Europa, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Salvatore Silvano Nigro), «l'incredibile serenità» delle campagne inglesi, i «prati con armenti», i fiumi pigri e «ricolmi», le colline «fastose» come in una pastorale di Sydney sono precisamente all'opposto delle sconfortate e sghembe macchie di carrubi di Donnafugata.

Sempre esitare tra il no e il sì
Ma la mera esistenza di un altro paesaggio, sereno e razionale, non è sufficiente, anche per un siciliano, a postulare addirittura la possibilità d'un altro universo, su cui il non senso del primo si spunti? La sicilitudine, dopotutto, non è un'alta e sempiterna esitazione tra il no e il sì?

Mark Twain e Voltaire. Da una lettera di George Bernard Shaw.

George Bernard Shaw
Da un articolo di Enzo Siciliano sulle Avventure di Tom Sawyer su un "Espresso" dell'estate 76, recupero il frammento di una lettera che George Bernard Shaw indirizzò a Mark Twain. (S.L.L.)
Mark Twain
"Sono persuaso che lo storico americano, in futuro, troverà che le vostre opere gli sono indispensabili, come oggi allo storico francese sono indispensabili i volumi di Voltaire". 

Vieni avanti Fassino (S.L.L.)

Ieri sera ho visto che c’era Fassino a “Ballarò”. Non l’ho sentito, perché quelli di Ballarò non li tollero, ma so che c’era e so anche della strana equivalenza che “Cicogna” ha stabilito tra Ici e Patrimoniale per difendere la prima probabile carognata del governo Monti.
So anche che più di una voce riconduce al partito di cui era segretario, nel tempo in cui era segretario il grosso delle tangenti che avrebbe incassato Penati.
Il gioioso urlatore di “Abbiamo una banca!” non è indagato e – forse – non lo sarà mai. Magari non c’entra niente, perché la cosa non è vera, perché lui è integerrimo o perché erano altri nel partito a occuparsi di queste cose in piena autonomia.
E tuttavia il buonsenso dovrebbe spingerlo non al “passo indietro” che nessuno fa mai (anche se il Cavaliere si vanta, a sproposito, di averlo fatto), ma almeno a starsene tranquillo, nella sua Torino, per svolgere il ruolo di Sindaco cui è stato eletto ed anche, se vuole, a reclamare le risorse che agli Enti locali mancano.
Ma sarebbe bene che non si faccia troppo vedere in giro mentre s’organizza la grande rapina contro i ceti popolari e medi a vantaggio di chi detiene i grandi patrimoni.

"L'incisciature" (I languori). Una poesia di Giuseppe Gioachino Belli

L'incisciature - Incisione per Belli di Renzo Vespignani (part.)
Che sscenufreggi[1], ssciupi, strusci[2]  e ssciatti[3]!
Che ssonajjera[4] d’inzeppate a ssecco!
Iggni bbotta peccrisse[5] annava ar lecco:
soffiamio[6] tutt’e dua come ddu’ gatti.
            
L’occhi invetriti peggio de li matti:
sempre pelo co ppelo, e bbecc’a bbecco.
Viè e nun viení, fà e ppijja, ecco e nnun ecco;
e ddajje, e spiggne, e incarca, e strigni e sbatti.
             
 Un po’ piú che ddurava stamio grassi[7];
ché ddoppo avé ffinito er giucarello
restassimo intontiti com’e ssassi.
             
È un gran gusto er fregà! ma ppe ggodello
più a cciccio[8], ce voria che ddiventassi
Giartruda tutta sorca, io tutt’uscello.


Morrovalle, 17 settembre 1831



[1] Sfracelli
[2] Stropicciamenti
[3] Lamenti
[4] Sonagliera
[5] “per cristo”
[6] Soffiavamo
[7] Come dire “stavamo freschi”
[8] A dovere

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