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31.8.19

Un compagno. Per Camilleri, intellettuale militante (Romano Luperini)



Quando viene meno una persona che ha lasciato una traccia profonda nella nostra vita, la mente corre sempre al primo incontro, quasi esso già contenga in nuce il rapporto successivo e la ragione di quella traccia.
Ho conosciuto Camilleri una dozzina di anni fa. In occasione non ricordo di quale importante ricorrenza dell’Università di Siena, dove insegnavo, il rettore aveva invitato me e un altro collega a una sorta di intervista in pubblico allo scrittore, cui egli si sarebbe sottoposto dopo aver fatto una breve introduzione. La sala era stracolma di studenti e di docenti che ridevano e applaudivano, elettrizzati dall’umorismo polemico di Camilleri, che parlò non da scrittore ma da intellettuale e da militante, soffermandosi con una ironia elegante, eppure per niente spocchiosa, sulla situazione politica allora egemonizzata da Berlusconi. Quando venne il proprio turno, il collega gli fece domande di carattere stilistico e sull’uso del dialetto siciliano, che poco avevano a che fare col contenuto politico della sua introduzione. Mi colpì che si rivolgesse a lui in modo cerimonioso, chiamandolo “maestro” e dandogli del lei. Poi toccò a me, e mi venne invece spontaneo dargli del tu e porgli domande di carattere politico. Camilleri mi rispose subito con un piglio assai più animato e vivace, dandomi a sua volta del tu. In un certo senso ci eravamo riconosciuti (sto per usare, lo so, una parola fuori corso) come compagni. Poi a cena volle sedere accanto a me e mi invitò a casa sua, a Roma, in via Asiago, vicino a una sede della RAI (quella del terzo programma, mi pare). Lo andai a trovare, conobbi la moglie e la segretaria, personaggio importante e decisivo anche per la sua vita di scrittore. Una volta gli portai il mio primo romanzo, L’età estrema, ancora inedito e lui volle pubblicarlo da Sellerio. Un’altra lo invitai a collaborare a un mio manuale, trascrivendo in italiano moderno e magari anche in siciliano un paio di novelle di Boccaccio, fra cui quella di Andreuccio da Perugia: cosa che fece con entusiasmo e senza alcun compenso. Ma per la scuola collaborò con me anche in altri modi: ebbi occasione, per esempio, di farlo partecipare a un dibattito a Roma alla fine di un seminario con gli insegnanti, e anche questa volta accettò con entusiasmo.
Perché questi dettagli autobiografici? Per una testimonianza anzitutto, ma poi anche perché tutti oggi parlano dell’autore di Montalbano, del brillante intrattenitore, sempre in testa alla lista dei best seller, ma nessuno dei suoi romanzi storici artisticamente e politicamente assai più impegnati (ricordo, soprattutto, Il re di Girgenti, in cui forte è l’influenza di Pirandello, di De Roberto e di Sciascia) e nessuno, ma proprio nessuno, del suo contributo alla politica, al mondo della scuola, alla causa degli immigrati, come militante non di un partito, ma di una sinistra intesa come possibilità di impegno e prospettiva ideale.
Camilleri non è stato solo un brillante intrattenitore, capace, grazie alle sue straordinarie doti inventive (nel linguaggio, ricco, vario, infiltrato sempre da una vena dialettale, e nelle trame delle sue storie, ricche di imprevisti), di catturare con abilità l’attenzione di ogni lettore: è stato anche un fine letterato, degno erede di una grande tradizione siciliana, e un intellettuale militante. Ha compiuto il prodigio di essere nel contempo uno scrittore autenticamente popolare, un artista vero e l’ultimo intellettuale, capace di parlare non solo di letteratura, ma del mondo, l’unico sopravvissuto dopo la morte di Sciascia e di Pasolini. E una cosa purtroppo è certa: con lui muore una possibilità di essere scrittori e intellettuali insieme, con lui il Novecento è davvero finito.

Dal sito “La letteratura e noi”, 18 Luglio 2019

30.8.19

Insulti di paese e pessime figure (S.L.L.)

Gianni Rivera

Non so oggi; con il grande movimento delle persone e con l'apporto di ogni forma di comunicazione moderna e postmoderna, moltissimo è cambiato; ma a mia memoria, al tempo della mia infanzia, quando vivevo in un paese sostanzialmente chiuso in se stesso, figliu di buttana si usava molto raramente nella sua accezione benevola, per indicare persona abile e spregiudicata, ma quasi sempre era insulto pesante, che feriva, anche se non sempre era riferito ai comportamenti della genitrice, quanto a quelli – considerati pessimi – del destinatario dell'insulto. Diverso era, se ben ricordo, l'uso di figliu di ba(g)ascia, la cui gravità era più collegata al contesto e di cui era più frequente un'utilizzazione giocosa, specie con l'aggiunta di un aggettivo enfatizzante: gran figliu di ba(g)ascia, grandissimu figliu di bag(a)scia. La g si sente e non si sente come quella di (g)arrusu, altro insulto temibile, che il contesto poteva rendere accettabile se non addirittura affettuoso: non valeva più “omosessuale”, ma “furbo”, specie se usato in forma alterata (g)arrusazzu o con l'aggettivo gran.
Gli insulti ai “figli di” avevano come variante il cambio di destinatario: si diceva to ma' buttana - o anche buttana di to ma'; to ma' bag(a)scia - o anche bagascia di to ma'.
In paese qualche decennio fa aveva aperto una trattoria popolare, molto frequentata, con sull'insegna il nome Tomasc, un mio vicino di casa e quasi coetaneo, oltre tutto milanista. È morto non molto tempo fa e m'è dispiaciuto, trattandosi di persona buona, onesta e affabile. La prima volta che vi andai a mangiare, chissà perché, m'era venuto in mente che quel locale vagamente si ispirasse al “Meo Patacca” di Roma, altrimenti detto “Alla parolaccia”. Così, in maniera assolutamente innocente, dissi all'oste: “Birbante! Che significa quel Tomàsc, to mà ba(g)asc?”. Si fece serissimo e mi guardo così male, che più non avrebbe potuto. Disse; “No, significa Totò, Maria, Silvia e Claudia”. Erano i nomi suo, della moglie, delle figlie.
Per alcune volte, quando ci tornai, mi salutava appena ed evitava di venire al tavolo. Riuscii a ritrovarne la cordialità e il sorriso parlandogli di Rivera.

27.8.19

La festa della Madonna e la “riétina” (S.L.L.)



Al mio paese, Campobello di Licata, la festa della Patrona, la Madonna dell'Aiuto, si celebrava un tempo la prima domenica di settembre. La festa concludeva un momento importante della vita dei campi, per via dei numerosi mandorleti, di cui a fine agosto si raccoglieva il prodotto. 
Le offerte per la festa e per la Chiesa, in onore della Madonna, erano spesso in natura: frumento o, appunto, mandorle. Cavalli e muli bardati, talora trascinando un carretto variopinto giravano per i quartieri del paese accompagnati da gruppi di bandisti che suonavano allegre marcette come l'orecchiabile e richiestissima Lariana o canzonette di successo da Volare a Chella llà: numerosi contadini donavano  piccoli quantitativi del frutto della loro fatica; bisacce e carri si riempivano. Non ho mai saputo dove portassero il carico, se in sagrestia e in qualche locale annesso alla Matrice o in magazzini di raccolta o direttamente in quelli dei commercianti. 
Il lunedì era ancora giorno di festa; c'era la riétina, una sorta di sfilata di cavalli e carri bardati; ma non era allora il “clou” della festa, rappresentato piuttosto dalla processione della domenica, in cui la statua della Madonna, seguita dai devoti e dalla banda al gran completo, percorreva le vie del paese, mentre la sua veste veniva ricoperta da banconote da cinquecento o mille lire, appuntate dai rappresentanti del Comitato incaricati della fatica. Si diceva che ce ne fosse uno abilissimo nel fare scomparire nelle proprie tasche qualcuno dei biglietti di banca offerti dai fedeli: aveva il soprannome di spogliamadonni, ma nessuno si sognava di sollevarlo dall'incarico. 
Al termine della processione, sul grande palco davanti alla Matrice, l'arciprete comunivava i risultati della raccolta. Negli anni di più forte emigrazione, sul finire degli anni 50 e poi nei primi 60, ogni anno cresceva la somma complessiva, “sette milioni”, “dieci milioni”, “tredici milioni”, e considerevole era l'apporto degli emigrati. I più tra loro dovevano tornare al lavoro alcuni giorni prima della festa, ma lasciavano, secondo le loro possibilità, un'offerta in denaro, segno del loro legame con il paese natio, offerta più consistente in collegamento con la guarigione di un familiare, l'assunzione in un buon posto di lavoro, il matrimonio di una figlia o il diploma di un figlio o una qualunque altra “grazia ricevuta”. Anche l'elenco dei donatori veniva letto sul palco dall'arciprete, un vecchietto freddoloso soprannominato Patri Tancinu (“padre scaldino”). 
Seguiva la musica a parcu, generalmente il concerto della rinomata banda forestiera (più di una volta chiamarono quella di Acquaviva delle Fonti) che nel servizio musicale dei giorni di festa si alternava con quella municipale: un'opera lirica orchestrata per la banda e perciò dominata da fiati e percussioni, con il clarinetto a far da soprano, o un'antologia di arie d'opera. Il lunedì, oltre alla “riétina”, c'era un altro concerto bandistico e a notte uno spettacolo pirotecnico, lu castieddhu di fuocu, con lo stummi stummi finale. 
Negli ultimi anni della mia adolescenza al secondo concerto operistico, in genere assicurato dalla banda paesana, andava sostituendosi, nonostante la resistenza del vecchio arciprete, uno spettacolo di musica leggera in cui la cantante mostrava un po' di coscia. Un maestro elementare, uomo di chiesa democristianissimo, si cimentò con altri nella composizione e nel canto leggero: “A Campobello le ragazze son graziose / hanno il profumo delle fresche rose”. L'arciprete non diceva nulla, ma si capiva che non era contento e imperterrito continuava la sua guerra domenicale contro scollature e maniche corte femminili.
Oggi la festa è anticipata ad agosto e cuore della festa è diventata proprio la riétina: caretti e cavalli non provengono solo dal paese o dai centri più vicini, ma arrivano da tutta la Sicilia gruppi di “cavallari” con allestimenti di grande impegno organizzativo ed economico: non solo equini bardatissimi e carretti decoratissimi, ma anche gruppi musicali, danzatori e danzatrici in costume, su palchi mobili o a piedi. C'è in paese un'associazione di amici del cavallo e della riétina, o forse più d'una, e non mancano finanziamenti pubblici e private sponsorizzazioni. La sfilata dura ore e ore, con un chiasso enorme di voci, suoni, rimbombi, cigolìi di ruote, scampanellare di tamburelli e ciancianeddhi (i tipici sonagli di Sicilia). In alcuni posti strategici i gruppi si fermano, dando vita a un breve spettacolo. 
Ieri sera proprio sotto casa di mia madre su un camion, un tenorino dalla voce buona eseguiva Parla più piano, la canzone costruita sul tema musicale del Padrino. Subito dopo, accompagnato da fischietti e altri strumenti, circondato da saltellanti ragazze in costume, il coro eseguiva alla maniera siculo-americana C'è la luna 'mmienz'o mari / mamma mia m'a maritari. Era una vera e propria citazione dal film, senza alcuna presa di distanza: non c'era neanche un filo d'ironia. Non so dire donde il gruppo provenisse e non credo che quella citazione comportasse di necessità una qualche solidarietà di famiglia, ma una simpatia ideologica, per quanto vaga, sì. Ho forte il sospetto che tra i "cavallari" ci sia qua e là un'infiltrazione di fetentoni.

25.8.19

Leonardo Sciascia in morte di Girolamo Li Causi (“l'Unità”, 15 aprile 1977)

Girolamo Li Causi tra i contadini nell'occupazione delle terre incolte

“Anche se in questi ultimi anni si era ritirato dall'attività politica, senza retorica possiamo dire che la sua morte segna una perdita insostituibile, una pena che si ggiunge alla pena: quella per l'amico che non c'è più, quella per l'uomo che ci ha dato una delle più grandi e durevoli lezioni di vita morale”.

18.8.19

La Sicilia al centro dei commerci del Settecento. Un saggio sui traffici marini con l'Inghilterra (Luca Platania)

Il porto e la città di Messina in una rappresentazione del 700

La storiografia ha dimostrato che l’immagine di un Mediterraneo immobile dopo la scoperta delle Americhe è falsa, con buona pace dei manuali ancora in uso nelle scuole. La Sicilia si trova, per tutta l’età moderna, in una posizione privilegiata per lo scambio tra Occidente ed Oriente nonché produttrice di merci ambite dai mercati europei: seta, agrumi, sale. Il nuovo libro di Salvatore Bottari (Nel Mediterraneo dal mare del Nord. La presenza commerciale inglese nella Sicilia del Settecento, Aracne, Roma, 2012), focalizza lo sguardo sulla partner privilegiata di questi commerci, ossia l’Inghilterra. Lo studio si concentra sui traffici nei porti di Messina, Palermo e Trapani, traendone inediti dati in appendice.
Il commercio inglese tocca la Sicilia già nel XV secolo con la diffusione di “pannilana” colorati; nel 1581 c'è l’istituzione della Levant Company da parte della regina Elisabetta I, ma è durante tutto il Seicento ed il Settecento che i mercanti britannici stabiliscono basi durature per il loro commercio, specialmente a Messina, e diventano privilegiati interlocutori con la Sicilia per il commercio della seta. La presenza mercantile inglese nella nostra isola non conosce interruzione, nonostante pause significative in coincidenza dello scontro cristiano-turco culminato nella battaglia di Lepanto, della dittatura di Cromwell, della guerra di Successione spagnola.
L’autore, pur criticando la definizione di un rapporto commerciale di stampo «colonialista», rileva comunque un trascorso non privo di ambiguità, specialmente nella interpretazione diplomatica data a questo rapporto dai consoli inglesi: “…in realtà, i consoli stranieri hanno come finalità precipua la difesa degli interessi della madrepatria ed in definitiva dei propri interessi: anche i consoli, infatti, sono quasi sempre mercanti e questo fine ispira qualunque loro iniziativa”; le iniziative in questione, va notato, annoverano anche il contrabbando.
Sullo sfondo le guerre e le alleanze tra Inghilterra e Francia, Spagna, Impero Austriaco, le scorrerie barbaresche, le nascenti rivalità tra gli inglesi e Carlo III di Borbone. Stupisce, infine, il numero registrato nel report del 1774 redatto dal console inglese Katenkamp sull’esportazione dei prodotti siciliani, che coinvolge circa 2000 navi all’anno. Solo 600 battono bandiera napoletana o siciliana, comunque navi per la maggior parte destinate alla navigazione di cabotaggio: le esportazioni (sale, vino, seta, frutta secca, manna, grano) sono di pertinenza francese, genovese, inglese, spagnola, veneziana, danese, olandese, svedese e l’elenco continua. Una Sicilia allora toccata da un flusso europeo, non solo di viaggiatori alla ricerca di vestigia classiche o distrazioni esotiche, ma da una sorprendente e dinamica rete commerciale.

La Sicilia, 23/04/2013

11.8.19

'Mpistari - 'Mpistatu - 'Ngiuria (S.L.L.)


"Mpistari" vale contaminare, appestare. Vi era però, almeno a Campobello, un uso particolare e, francamente, orribile del partIcipio. 'Mpistata era la ragazza nubile non più vergine. 'Mpistatu era il ragazzo che aveva subito sodomia. Per un mio coetaneo, nonostante la denuncia e la condanna del pedofilo (se non ricordo male un anno e mezzo di carcere senza sconti), rimase a lungo un marchio d'infamia che prolungava gli effetti del crimine subito. Lo chiamarono "lu 'mpistatu" per buona parte dell'adolescenza, poi prevalse la "ngiuria" (il soprannome) di famiglia, per cui non provò mai fastidio.

21.7.19

Na viddraneddra di gran cori. Da un sonetto di Giorgio Baffo (Venezia 1694 – 1768) nel mio dialetto campobellese

Giorgio Fattori, L'amore nei campi
Na viddraneddra all'erba a lu stinnicchiu
truvavu na iurnata, ca durmìa,
i' m'addunavu ca nenti sintìa
e duci duci tuccavu lu Sticchiu.

S'adduvigliaiu, ed arristà alluccuta,
ca lu strumentu 'mmanu iu tiniva,
e dumannà: “Chi è sta cosa viva?”.
Dicu: “ Na Minchia, pi fari 'na futtuta”.

Ladia nun fa la facci a stu' parlari
e, pigliannu lu lasu ca mi duna,
tutta la so vistina iu ci riju.

Na fimmina di cori era macari,
a panza allariu misa a mia si duna,
la minchia nni lu sticchiu ci trummìu.

Bontà d’una villana
Sull’erba una Villana zovenotta
Ho trovà sola un zorno, che dormiva;
Quando ho capìo, che gnente la sentiva,
E mi bel bello toccheghe la Potta.

La s’hà svegià, la xe restada in botta
Vedendome, che in man gavea la piva,
La dise, cosa xe sta robba viva,
E mi ghe digo, un Cazzo, che ve fotta.

No la fà brutto a sto parlar el muso,
E mi tiò l’occasion, che la me dona,
E tireghe le corrole ben suso;

Co ho visto, che la xe una bona Dona,
Che la se mette colla panza in suso,
E mi senz’altro mettighelo in Mona.

da Giorgio Baffo, Tutte le poesie in "Liber liber"

19.7.19

Camilleri. Un incontro (S.L.L.)



Non pochi compagni e amici delle mie parti, specialmente di Porto Empedocle ed Agrigento, hanno avuto rapporti di conoscenza e cordialità con Andrea Camilleri, che tornava di rado nelle terre in cui era nato. Lo scrittore, anche dopo il successo sempre più grande degli ultimi decenni, era persona di grande affabilità, curioso del mondo e disponibile alla conoscenza e alla conversazione, soprattutto con i compagni.
La fortuna di un incontro diretto io l'ho avuta altrove, occasionalmente, quando con Maurizio Mori lo trovammo a Palazzo Madama, nella biblioteca, per un convegno che commemorava Sergio Garavini a qualche mese dalla morte. Me lo presentò un vecchio compagno di FGCI che stava con lui, licatese di nascita ma trasferitosi ad Agrigento, l'estroso Tano Cavaleri. Fu una chiacchierata molto cordiale e molto breve quella che facemmo in attesa dell'inizio. Per un po' parlammo di Perugia e, quando gli dissi il mio paese d'origine e il mio nome, seppi ch'era stato compagno di studi di mio zio Pino, al Liceo Empedocle di Agrigento. Tutto qui.
Oggi, mentre al telefono condividevo questo ricordo con un vecchio compagno, ho appreso che anche Tano, già da qualche lustro, è morto. Ne ho provato grande dispiacere e ho ricordato le parole di Claudio Villa: "Morte, fai schifo". (Stato di fb – 17 luglio 2019)

16.7.19

Il buono il vecchio e il cattivo. Intervista ad Andrea Camilleri (Mario Cicala)


Una bella intervista al nostro amato Camilleri, in alcuni passaggi gustosissima, del mese scorso. Aspettiamo la prossima. (S.L.L.)


ROMA.
Andrea Camilleri è nato nello stesso anno di Malcolm X, Bob Kennedy, Paul Newman, Pol Pot. Il prossimo 6 settembre compie 94 anni. Nel frattempo ha scritto un nuovo Montalbano, appena uscito da Sellerio, più un monologo di due ore e mezza, poi ridotte a una e mezza, sul mito di Caino, che interpreterà da solo sul palco delle Terme di Caracalla il 15 luglio. Se un infortunio domestico non l'avesse intralciato, a quest'ora non sarebbe qui davanti a me per l'intervista, ma probabilmente dal re di Svezia Carlo XVI Gustavo, che lo invita da tempo perché è fissato con Montalbano. Lui e la regina consorte Silvia hanno già visitato tutti i luoghi siciliani del Commissario. E il popolo svedese, a ruota. «Sono stati istituiti speciali voli charter Stoccolma-Comiso» mi comunica Camilleri. E aggiunge, fumando: «Se ce la faccio, prima o poi in Scandinavia ci vado».
Quest'ultimo Montalbano si intitola Il cuoco dell'Alcyon e l'Alcyon è una goletta dove un losco imprenditore orchestra strani traffici e festini con escort prima di finire accoppato.

Anche stavolta si è ispirato a qualche fatto di cronaca?
«Stavolta no. Il libro rielabora il soggetto di un film che si sarebbe dovuto fare con gli americani ma andò in fumo. Rimettendo mano alla storia, l'ho spinta un po' sopra le righe, ci ho infilato una vena parodistica».

Ormai Montalbano ha la pellaccia abbastanza dura da poter sopravvivere anche alla sua parodia.
«In questa indagine per la prima volta si traveste. Si tinge baffi e capelli e perfino Augello non lo riconosce, tanto che gli spara addosso. Però l'Alcyon, io l'ho visto davvero. Anni fa, passeggiavo con mia moglie lungo il molo del mio paese quando apparve una grande goletta, identica a quella di Agnelli. Un amico negoziante mi rivelò che il tre alberi si fermava a Porto Empedocle sempre per poche ore. Giusto il tempo di caricare a bordo viveri, whisky e ragazze. Doveva essere una di quelle bische galleggianti dove i miliardari se ne stanno a giocare in acque internazionali belli tranquilli. Nel romanzo immagino però che la barca venga utilizzata per oscuri summit».

Lei ha debuttato nel romanzo a 53 anni, era il 1978, con Il corso delle cose. Anche lì la trama ruotava intorno a un omicidio. Quasi tutta la sua traiettoria letteraria si snoda sotto il segno del delitto. Come ce e se lo spiega?
«A modo mio, mi sono sempre occupato del Male. Come lei sa, non sono scrittore di fantasia, parto sempre dalla realtà. E, quando ho cominciato con i romanzi, la realtà erano i morti di mafia, non si contavano più, non si parlava d'altro. A me questa cosa non andava giù».

In che senso?
«Nel senso che nei miei libri avrei voluto parlare anche d'altro. Così, in Il corso delle cose trovai una soluzione che in seguito non avrei più abbandonato. Accanto a quel macigno che è la mafia ho sempre cercato di mettere elementi di controcanto. Nel primo romanzo valorizzavo per esempio il senso dell'amicizia che c'è in Sicilia».

Mafioso o no, mi racconti un fattaccio siciliano che segnò l'immaginario del giovane Camilleri.
«Uuuh... Ce n'è un'infinità».

Ne scelga uno.
«A metà degli anni Cinquanta c'erano ad Avola due fratelli contadini che si odiavano a morte da sempre, per il possesso della terra. "La terra significa guerra" dice il proverbio. Beh, un giorno uno dei due sparisce. Nella stalla del fratello trovano tracce di sangue. I carabinieri raccolgono altre prove. Fino a decidere che l'omicidio è stato compiuto a pietrate e il corpo fatto sparire. La gente è inorridita. Sulla spinta dell'emozione, la Corte d'Assise condanna il contadino all'ergastolo».
Anche in assenza di cadavere.
«Proprio così. Il morto non si trova. Però qualche tempo dopo, in un paesino a una cinquantina di chilometri, un commissario di Pubblica Sicurezza riceve una mezza soffiata e si mette a battere un'altra pista. Indaga e scopre che nessuno è stato assassinato. Il contadino scomparso si è nascosto: aveva architettato una messinscena perfetta per mandare l'odiato fratello a marcire tutta la vita in galera».

A confronto. Caino e Abele erano due paciocconi. Ma ci arriveremo. Prima volevo chiederle se sul Camilleri giallista abbiano inciso, oltre alle letture, anche esperienze personali. Ed eventualmente quali.
«Non le ho mai raccontato di quando mi trovai in mezzo a quella strage di mafia?».

A me no.
«Ebbene, quando tornavo a Porto Empedocle andavo a farmi un whisky in un certo bar. Il proprietario era un tipo simpatico. Esordiva sempre dicendo: "Dottor Camilleri, il primo giro è offerto". Una sera di settembre aveva appena smesso di piovere e la gente era scesa tutta in strada. C'era un'atmosfera di festa. Andai al solito bar, ma lo trovai chiuso. Dopo un lungo giro, mi infilai nell'ultimo caffè del paese. Tra la folla, di spalle, c'era un uomo appoggiato al bancone. Quando ordinai il mio whisky il tizio si voltò e mi disse: "Lei stasera mi tradisce". Era il padrone del bar dove andavo di solito. Gli risposi: "Casomai è lei che tradisce sé stesso". Lui rise e mi disse: "Posso avere l'onore di averla al mio tavolo fuori? Vorrei presentarle mio padre e un amico". Mi precedette. Mentre mi apprestavo a seguirlo col whisky in mano tutte le bottiglie dietro al bancone esplosero. Il rumore era quello inconfondibile delle mitragliette. Un rumore osceno. Assomiglia a quello di certi cagnetti arrabbiati quando si mettono ad abbaiare».

Porto Empedocle come Chicago.
«Un massacro. Più che di paura, la mia reazione fu di rabbia. Chiesi al barista una pistola, volevo sparare. Lui mi disse: "Stasse calatu", stia giù. Mi abbassai, ma non più di tanto, perché c'era sangue dappertutto e non volevo sporcarmi il vestito. Alla fine, sei morti. E il bersaglio sa chi era?».

No, ma un sospetto ce l'ho.
«Il barista che mi aveva invitato al suo tavolo. Lui, suo padre e il guardaspalle erano mafiosi di pura razza. Ma io che tornavo in paese per tre giorni l'anno che potevo saperne? Era il momento nel quale i giovani, i cosiddetti stiddari, cercavano di sostituirsi alla vecchia mafia».

Di assassini ne avrà conosciuti.
«Questa domanda mi mette a disagio. Assassini... che dirle? Sono cresciuto assieme a un grosso mafioso che sarebbe stato condannato all'ergastolo. Ma come faccio a definirlo "assassino"? Me lo ricordo bambino... Giovanni era figlio di contadini, io di un proprietario terriero, andavamo a scuola, giocavamo assieme... Un giorno mio padre mi disse: "È sulla mala strada, cerca di non frequentarlo". Eppure con me continuava a essere affettuoso, quando arrivavo a Porto Empedocle da Roma mi faceva sempre trovare la ricotta fresca... Assassino? Sa, i rapporti mutano... Giovanni tentò di sfuggire alla morte scappandosene in Canada. Gli chiesi: perché te ne vai? E lui - sempre elegante, un bel ragazzo - rispose: "Nenè, parto perché questo Paese è diventato ingovernabile". S'era messo a parlare come un prefetto!».

Perché Camilleri torna a teatro?
«Perché sono un contastorie. In fondo non sono mai stato altro».

L'anno scorso il monologo sul greco Tiresia, adesso sul biblico Caino, il prototipo di tutti gli omicidi, un po' il patrono di voi giallisti. Lei lo riabilita.
«Nella tradizione ebraica, e in parte anche in quella musulmana, esistono una miriade di controstorie che ci raccontano un Caino molto diverso da quello della Bibbia. Su queste abbiamo lavorato».

Che dicono?
«Per esempio che né lui né Abele sarebbero figli di Adamo ed'Eva».

E di chi allora?
«Abele dell'unione tra la donna e un arcangelo, Caino di quella tra lei e un demonio. Se ne ricava che l'infedeltà coniugale nacque contestualmente alla prima e unica coppia del mondo».

Vatti a fidare.
«Non solo. In alcune di quelle antiche narrazioni lo scontro tra i due fratelli ne rovescia in qualche modo le posizioni rispetto al testo biblico. Quando vengono alle mani, Abele, che è il più grosso, sta per sopraffare Caino che per la prima volta nella storia dell'umanità legge negli occhi del fratello l'intenzione di uccidere».

Poi però avviene un ribaltamento.
«Sì, ma uccidendo Abele, è come se Caino dicesse: se l'avessi lasciato fare sarebbe stato lui e non io il primo assassino dell'umanità».

Facendolo fuori lo salva dall'empietà dell'omicidio.
«E lascia aperto un dubbio: forse non ero io quello condannato al Male in quanto figlio del demonio e lui quello destinato al Bene perché generato da un angelo. Viene fuori così la visione di un Male che non è legato alle nostre origini come una maledizione, ma è una nostra scelta».

Pure Caino è stato un grande incompreso. Il processo va rifatto.
«C'è tutta una parte del mito che è affascinante, ma totalmente ignorata. È quella del Caino fondatore di città, inventore dei pesi e delle misure, della lavorazione del ferro... Ma soprattutto quella di Caino inventore della musica. Il Caino che dice: "Ecco io so, ne sono sicuro, che davanti a Dio l'avere inventato la musica è valso più di ogni sincero pentimento"».

Però una volta lei ha detto: «Sono convinto che gli assassini e in genere i delinquenti siano sostanzialmente degli imbecilli». Ribadisce?
«Assolutamente. Chi crede al delitto perfetto che cos'è se non un imbecille? Una minima cretinata lo tradirà. E del resto a che cosa porta il delitto? A nulla. Hai solo momentaneamente eliminato un ostacolo. A meno di non adottare il principio staliniano secondo il quale ogni uomo è un problema ed eliminato lui, eliminato il problema. Era un'idea a suo modo visionaria (risata). Solo che comporta morti a milioni».

Da regista, lei ha lasciato il teatro negli anni 70. Che effetto le fa tornarci adesso da attore?
«Sono in tensione, ma relativa. È tale e tanto l'afflusso dell'adrenalina che non soffro più né il caldo né il freddo».

Ho letto che Strehler non apprezzava granché le sue regie.
«Non le apprezzava per niente. Che vuole, non ci prendevamo...».

Con chi altri non s'è mai preso?
«Con Cesare Garboli. Dei miei versi scrisse: "Le poesie di Camilleri non resistono a una seconda lettura". Alé!».

Torniamo a Montalbano. Quest'anno il commissario compie un quarto di secolo. Ma è vero che l'autentico modello del personaggio fu un suo parente?
«Allude a Carmelo Camilleri, il cugino di mio padre?».

Lui. Chi era?
«Un commissario della questura di Milano. Capo della squadra politica. Fascista brutale. Ma la sua vita cambiò il 12 aprile del '28, quando durante una visita di Re Vittorio Emanuele III scoppiò una bomba che fece venti morti. Negli ambienti anarchici e comunisti vennero arrestate sei persone e condannate a morte. Però, indagando, mio "zio" scoprì che all'origine dell'attentato c'erano faide tra fascisti. E da ligio funzionario mandò il rapporto ai suoi superiori che lo trasmisero a Mussolini. Il quale, dopo averlo letto, scrisse a margine: "Liquidate Camilleri", siglando il documento con la famosa Emme puntata. Carmelo Camilleri fu costretto a dimettersi dalla polizia, ma riuscì a far arrivare in Francia la sua relazione con gli atti probatori, che vennero pubblicati dal giornale comunista “L'Humanité”. Grazie al movimento d'opinione che ne scaturì la pena di morte fu commutata in ergastolo».

Il whistleblower del Ventennio.
«Sì, ma le autorità fasciste scoprirono subito che la fuga di documenti era partita da lui. Fu arrestato e spedito al confino. Lì conobbe dissidenti comunisti come Umberto Terracini. Scontata la pena tornò a casa, però nessuno voleva dargli lavoro e si ridusse a vendere sputacchiere. Dopo la Liberazione fu riabilitato. Sì, almeno inconsciamente, è stato lui il modello di Montalbano».

A 93 anni di che cosa ha paura?
«Mi prenderà per vanitoso, e non è escluso che io lo sia, ma mi crede se le dico che in vita mia non ho mai avuto paura di niente?».

E certo.
«Mi correggo. Di un solo tipo umano ho sempre avuto paura: 'o fesso. Come diceva Eduardo. Mi terrorizza l'ignorante supponente che ha solo certezze. Io scrivo libri perché sono un cultore del dubbio».

Però qualche anno fa confessò che essere diventato un romanziere di successo le aveva tolto la felicità originaria della scrittura. "Era un piacere, adesso è un lavoro" disse. E oggi che le sue storie è costretto a dettarle perché la vista le è volata via, come si sente?
«All'epoca attraversavo una fase di logoramento. Mi crede se le dico che invece oggi mi sento di nuovo felice?».

E certo.

“Il Venerdì di Repubblica”, 7 giugno 2019

13.7.19

Solidarietà in largo Aosta, a Canicattì. Un raccontino in versi, dal vero (S.L.L.)



Mentre aspettavo il bus per Agrigento
nel Largo Aosta di Canicattì,
l'altro ieri nel tardo pomeriggio
chiedeva l'elemosina un barbuto
con la stampella, forse era un asiatico
di fede musulmana, forse afgano,
o forse pakistano o bengalese.
Tale appariva per il colorito
e il modo di vestire.

Ed anche a me, che non avevo spicci,
tese la mano libera; gli dissi:
“Non posso, amico”, e ci rimase male.
Tra sé si lamentava, ad alta voce,
e dovevano essere improperi
o addirittura maledizïoni,
in una lingua che non comprendevo.

Credo che fosse solidarietà
quella di un uomo coi capelli bianchi,
mio coetaneo o forse più attempato,
che mi disse: “L'avissiru ammazzari
chiddri di lu partitu comunista
ca li ficiru trasiri”. Ignorante
era di tante cose ed ignorava
che anche lui mi augurava una disgrazia.

Documenti. Per la coerente difesa degli interessi della Sicilia. Risoluzione unitaria dei Comitati Regionali del PCI e del PSI (Febbraio '55)

Quello che segue, il documento finale di una riunione congiunta dei Comitati Regionali del PCI e del PSI siciliani, non è tanto esemplificativo del periodo "frontista" nella storia della sinistra italiana e siciliana, quanto piuttosto del suo esaurimento. Alle precedenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana i due partiti si erano presentati uniti nelle stesse liste del Blocco del Popolo, sotto il simbolo di Garibaldi; alle imminenti elezioni della primavera 1955 si preparano a presentarsi in liste separate. 
E c'è di più: il segretario regionale del PSI, Raniero Panzieri, aveva già rilasciato a "L'Ora" un'intervista in cui preannunciava una proposta politica nuova, quella di un accordo fra Democrazia cristiana e Partito socialista per un governo di svolta in Sicilia, e anticipava l'apertura delle liste socialiste a candidati indipendenti dell'area liberaldemocratica, in particolare quelli legati al Movimento di Unità Popolare fondato, contro la legge elettorale maggioritaria (la cosiddetta legge-truffa) da Piero Calamandrei e Ferruccio Parri. 
Ribadire l'importanza delle lotte condotte insieme e le rinnovate convergenze programmatiche serve più che altro a sottolineare il carattere consensuale della separazione e ad impedire contraccolpi nelle amministrazioni locali governate insieme e nella CGIL. (S.L.L.)

Girolamo Li Causi e Raniero Panzieri
I caposaldi del programma del P.C.I. e del P.S.I.: 
«Uniti nella lotta e nell'azione, ciascuno dietro le proprie bandiere»

Martedì 8 febbraio si sono riuniti in seduta comune i Comitati regionali siciliani del Partito socialista italiano e del Partito comunista italiano, sotto la presidenza dei loro segretari regionali, compagni Girolamo Li Causi e Raniero Panzieri, membri rispettivamente detta Direzione del P.C.I. e del P.S.I. La riunione è stata dedicata a un approfondito esame della situazione politica in Sicilia. Il dibattito si è protratto per tutta la giornata, con interventi di numerosi dirigenti delle federazioni dei due partiti e dei deputati regionali ed è servito ad approfondire e precisare con grande chiarezza gli obiettivi e i compiti, con particolare riferimento alle elezioni per il rinnovamento dell’Assemblea regionale, che stanno dinanzi ai due partiti della classe operaia e dei lavoratori siciliani, nell’attuale fase della lotta per la pace e la difesa e lo sviluppo dell’autonomia.
In questo momento drammatico per le sorti di tutta l’umanità, il compito primo è quello di impegnare nel modo più largo e vivete tutte le organizzazioni del P.C.I. e del P.S.L nella lotta per la pace. La pace è esigenza vitale del popolo siciliano, che già in passati ha manifestato la sua decisa volontà di lottare per essa, segnatamente con le grandi manifestazioni popolari in occasione della venuta in Italia del generale Eisenhower e con il plebiscito contro la bomba atomica, suggellato da un solenne voto del Parlamento siciliano.
La Sicilia, che ha sempre pagato col sangue dei suoi figli e con una maggiore miseria le avventure di guerra decise dalle classi dominanti italiane con l’appoggio degli agrari siciliani, che continua ancor oggi a soffrire fame e miseria, retaggio, al tempo stesso, della guerra passata ed effetto dell’accelerata preparazione di un nuovo conflitto da parte degli attuali governanti al servizio degli imperialisti, non può oggi permettere che la sua vita e il suo avvenire vengano minacciati per la follia di avventurieri internazionali, che mettono in pericolo l’esistenza stessa di tutta l’umanità. Il popolo siciliano ha il diritto di esigere che sia per sempre chiuso il periodo storico durante il quale, di fronte ai suoi problemi angosciosi, le classi dominanti non hanno saputo offrire altro che emigrazione e guerre, scatenate nell’interesse di pochi privilegiati: esso si è conquistato, attraverso dure lotte, la sua autonomia per poter far valere i suoi diritti e le sue aspirazioni alla pace e al benessere, e tanto più è deciso oggi a difendere questi diritti e queste aspirazioni, quando è stata sfatata definitivamente la leggenda della Sicilia zona fatalmente arretrata.
Il popolo siciliano ha lottato e lotta per la riforma agraria, per una riforma amministrativa che sollevi i comuni dall’oppressione dei prefetti e dall’impotenza finanziaria e promuova la libertà, per impedire che siano sfruttate a vantaggio dei monopoli e dello straniero le risorse di energia, delle quali si è scoperta la ricchezza: il petrolio, l’energia elettrica, le miniere. In tal modo ha aperto una strada, in fondo alla quale non vi è più la miseria c la disperazione, ma un avvenire radioso. Non solo una guerra distruggerebbe definitivamente il frutto delle sue lotte eroiche, dei suoi sacrifici, del suo lavoro, ma già oggi il solo fatto che si continui una politica, che dà la prevalenza alle spese militari su quelle pacifiche, compromette o ritarda di anni gli obiettivi di rinnovamento e di progresso.
Per chiedere una politica di pace, per proclamare la loro volontà contraria ai piani forsennati degli imperialisti diretti allo scatenamento di un terzo conflitto mondiale, nel quale l’uso delle bombe atomiche e termonucleari moltiplicherebbe a dismisura i lutti e le rovine delle guerre passate, i socialisti e i comunisti siciliani hanno preso solenne impegno di appoggiare con tutte le loro forze la lotta per la pace e, in particolare di mobilitare tutte le loro energie per far conoscere, per far sottoscrivere a tutti i siciliani l’appello contro l’uso delle armi atomiche, lanciato dal Consiglio mondiale della pace nella sua recente sessione dì Vienna. La lotta per una politica di pace del popolo siciliano assume particolare valore oggi, quando alla direzione del governo italiano, nei maggiori posti di responsabilità, alla presidenza del Consiglio e al ministero degli Esteri, seggono proprio due ministri siciliani.
Per fare sì che ogni cittadino, che ogni gruppo sociale, che ogni tendenza politica e ideale possano esprimersi e farsi valere sul piano politico parlamentare e si sviluppi al massimo il libero giuoco democratico, contro il monopolio politico perseguito con tutti i mezzi dalla Democrazia cristiana e contro il ricostituirsi del blocco di destra, che ha mortificato e mira a soffocare il Parlamento, i comunisti c i socialisti siciliani chiedono che sia assicurato, per le prossime elezioni dell’Assemblea regionale siciliana, il sistema più democratico, che è quello della proporzionale pura.
Il P.C.I. c il P.S.I. prendono atto del cammino percorso da forze, che sono oggi arrivate a comprendere la necessità di una lotta unitaria per gli interessi della Sicilia e fanno appello a tutti i cittadini e a tutti i gruppi politici, che effettivamente vogliono la rinascita della Sicilia, perché, contro le forze del passato, che hanno tentato più volte di affossare l’autonomia siciliana, contro l’oppressione del governo centrale, si schierino nella lotta, accanto alle classi lavoratrici e ai loro partiti. Ceti medi produttori, piccoli industriali, commercianti, hanno compreso in quesri anni la necessità, per lo sviluppo economico e civile della Sicilia, della riforma agraria, dando il loro appoggio alla lotta per una giusta soluzione del problema contadino; hanno compreso la giustezza delle lotte condotte dai sindacati dei lavoratori, per l’adcguamento dei salari degli operai siciliani a quelli degli operai del Nord e per la difesa e lo sviluppo della nostra industria contro il soffocamento da parte dei monopoli e dello straniero. Essi nella lotta per la pace e il progresso della Sicilia possono trovare il loro posto, in uno schieramento articolato c differenziato, n cui ciascuno esprima la propria personalità c difenda gli interessi del proprio ceto e della propria categoria, lottando per quelli più generali.
Oggi gli interessi della Sicilia si difendono lottando per la pace, per la difesa c lo sviluppo dell’industria siciliana, per l'utilizzazione piena di tutte le fonti dì energia, per la riforma agraria, per la riforma amministrativa, per la ferma rivendicazione di tutti i diritti costituzionali della Sicilia nei confronti dello Stato e in particolare per il rispetto dell’art.38 dello Statuto e per la difesa delle funzioni e della strettura dell'Alta Corte per la Sicilia, suprema garanzia dell’antonomia. Questi sono i capisaldi del programma che il Partito socialista e il Partito comunista propongono a tutte le forze politiche oneste, democratiche e autonomiste e alle masse dei popolo siciliano.
L’unità dei due partiti, rinsaldata dalle lotte, dal lavoro di ogni giorno, dai sacrifici e dal sangue di tanti militanti e combattenti eroici, le lotte sostenute con successo dal Blocco del Popolo nel paese e nel Parlamento, la loro forza, il programma che nanne proposto ai popolo siciliano ed al quale hanno sempre tenuto tede, sono garanzia per tutti di poter portare avanti le proprie istanze, di poter difendere i propri interessi senza bisogno di piegarsi ai ricatti, per finire poi soffocati dal pesante abbraccio della Democrazia cristiana. Accanto ad essi, uniti nel programma e nell’azione avranno modo di esprimersi altre forze libere, che vogliono la pace, l’autonomia, il progresso della Sicilia. Uniti nella lotta e nell’azione, ciascuno dietro la propria bandiera e i propri simboli, tutti gli uomini onesti, gli amici della Sicilia, coloro che lottano per la pace ed il progresso potranno ancora una volta spingere indietro le forze reazionarie locali, i fautori di guerra, gli imperialisti stranieri, portando avanti la Sicilia verso un avvenire luminoso, per il quale il suo popolo ha lottato, ed al quale sente di avere finalmente diritto.

IL COMITATO REGIONALE DEL PCI
IL COMITATO REGIONALE DEL PSI

l'Unità, 15 febbraio 1955

11.7.19

1954. Il re di Montecarlo in un mare di guai. La clamorosa vicenda del miliardario Onassis (Emanuele Alberti)


Onassis prima delle storie d'amore più celebrate, con la Callas e la vedova Kennedy, ma già passato attraverso un interessante matrimonio (con la figlia dell'altro grande armatore greco, Livanos) e soprattutto sistematicamente al centro di grandissimi affari. Un articolo da "l'Unità" del 54 che parte da alcuni dati di cronaca del tempo, per costruire un intrigante ritratto dello spregiudicato affarista. (S.L.L.) 


Uno tra gli uomini più ricchi del mondo — La controversia con gli Stati Uniti e quella col Perù — Affari d'oro durante la guerra —- Come si è impadronito del famoso Casinò

Aristotele Onassis, uno degli uomini più ricchi del mondo, il padrone del Casino di Montecarlo, il vero sovrano del Principato di Monaco, è in mezzo ai guai. Un guaio lo sta passando negli Stati Uniti, un guaio in Perù. Negli Stati Uniti il governo ha iniziato un procedimento in virtù del quale chiede all'armatore Onassis di pagare venti milioni di dollari per avere acquistato fraudolentementc sedici navi mercantili considerate residuati di guerra, sebbene queste navi (oggi sequestrate nei porti statunitensi) non potessero essere vendute che a cittadini americani. In Perù la sua flotta baleniera è stata sequestrata dal governo del generale Odria, per aver quelle navi violato le acque territoriali il cui limite le autorità peruviane avevano esteso da cinque a ben trecentoquaranta chilometri. Onassis però non si scompone. Tutto gli è sempre andato bene. Greco di origine ma cittadino argentino, Onassis cominciò dal nulla: egli stesso racconta di essere scappato nel 1912 da Smirne mentre i turchi incendiavano e radevano al suolo la città. Aveva sedici anni allora ed era solo. I suoi parenti erano morti nel disastro.
Il ragazzo possedeva tuttavia abbastanza denaro per trasferirsi in Argentina: divenne fattorino di una società telefonica, poi si impiegò in una casa di importazioni e qui s'accorse di essere nato uomo d'affari. In sette anni mise in banca qualcosa come 180 mila dollari e a 24 anni divenne console greco in Argentina.
Pochi anni più tardi fu in grado di comperare in Canada sei petroliere a prezzo di liquidarionc. In quel periodo — intorno al 1930 — le cose non andavano troppo bene per gli armatori: metà della flotta mercantile mondiale era ferma nei porti. paralizzata dalla crisi.
Onassis fece navigare i suoi bastimenti, cercando di rimettcrci il meno possibile; poi, quando, verso il 1935, la crisi passò, quelle sei vecchie petroliere valevano dieci volte il prezzo al quale egli le aveva comperate.
Nel 1936 acquistò un'altra nave, la prima unità della sua seconda flotta. Al momento del conflitto Aristotele Onassis si presentò spontaneamente al Pentagono, e offrì ai governi alleati di noleggiare le sue navi. Certo c'erano dei rischi, ma il pericolo era compensato dall'alto nolo.

Petrolio e balene
Ebbe anche fortuna, perchè i sottomarini tedeschi non gli inflissero molte perdite. Alla fine della guerra ordinò sei petroliere da 28 mila tonnellate, pagando in contanti la bella cifra di 34 milioni di dollari. L'anno scorso i cantieri americani e norvegesi impostarono altre ventitre petroliere per la flotta mercantile di Aristotele Onassis. Contemporaneamente, ad Amburgo, una gigantesca petroliera da 45.000 tonnellate scendeva in mare per unirsi alle unità della sua flotta.
Quattro anni fa Onassis impiegò altri milioni di dollari per costruire una terza flotta: quella destinata alla pesca delle balene: sedici baleniere da 1000 tonnellate e una nave-officina a bordo della quale i giganteschi cetacei vengono scuoiati e sezionati e dove si procede al raffinamento dell'olio di ba-lena. Una petroliera segue sempre questa flotta per i rifornimenti Con le navi che gli saranno consegnate nel corso dell'anno. Aristotele Onassis sarà proprietario di un milione e 250 mila tonnellate di naviglio. tra petroliere e baleniere.
Di tutte le sue attività quella che sembra piacergli di più è proprio la pesca delle balene. Egli è orgoglioso della sua flotta supermoderna. munita di elicotteri per individuare i cetacei, di radar per evitare gli icebergs. Ma la caccia alle balene gli piace sopratutto per mi altro motivo: perchè è l'affare commerciale più lucroso, anche se comporta notevoli rischi.
È un gigantesco gioco d'azzardo. «Spendete 5000 dollari al giorno per sei mesi di seguito» raccontò ad un amico Onassis «per pescare balene. E anche quando siete riusciti a catturarle non avete vinto che la prima mano, perché nessuno può sapere quale sarà, nell'annata, il prezzo dell'olio di balena sul mercato».
Onassis, giocatore d'azzardo, non si è mai avvicinato ad un tavolo da gioco. Anche per questo i suoi amici, gli armatori suoi concorrenti, quando egli acquistò il Casinò di Montecarlo, pensarono fosse improvvisamente impazzito.
Fu il colpo più clamoroso della sua vita di avventuriero. Egli non fece saltare il banco di Montecarlo, ma divenne proprietario di ogni banco del Casinò. E tutto, all'apparenza, per una ripicca: tutto perchà la «Societé des bains de mer», allora proprietaria del Casinò e di molti edifici turistici del Principato, aveva deciso di non cedergli in affitto i locali del suo Sporting Club.

Le tasse di Monaco
Al rifiuto Onassis rimase un po' contrariato, quindi decise di vendicarsi. Chiamò al telefono i suoi agenti in ogni parte del mondo e dette loro ordine di acquistare, a qualsiasi prezzo, quante azioni della «Societé des bains de mer» vi fossero sul mercato.
Queste erano distribuite fra trentunmila azionisti. Non fu un lavoro facile rintracciarle, ma gli uomini di Onassis riuscirono nel loro compito.
Possedere la maggioranza delle azioni della Società significa essere di fatto il padrone del Casinò; dell'edificio dello Sporting Club; di cinque grandi alberghi di Monaco e dei relativi campi di tennis, piscine, campi di golf. Significa però ben altro ancora.
Il principato di Monaco vive quasi esclusivamente dei proventi del Casinò: Onassis è quindi il vero «signore» del celebre territorio. Per giunta ha persuaso il Principe Ranieri III a cedergli il controllo della «Societé» per un milione di dollari. Questo ultimo atto ha praticamente legato mani e piedi Ranieri III ai capricci del furbo armatore.
Ai lati di tutta la vicenda, ci sono, poi, i cittadini monegaschi, i quali hanno però, come suol dirsi, voce in rapitolo per un solo motivo, perché, grazie alle formidabili entrate del Casinò, essi non hanno attualmente bisogno di pagare le tasse.
Montecarlo non deve vivere — secondo Onassis — del solo Casinò. Egli ha piani ben precisi al riguardo. Queste innovazioni stava attuando quando gli è giunto il mandato di comparizione del tribunale di Washington, che l'accusava di illecite manovre nell'acquisto dei surplus della guerra. Montecarlo deve diventare — stando al suo piano — un centro di affari marittimi, un centro cultu-rale, una spiaggia alla moda. Il Casinò rimarrà parzialmente in funzione. Se dimostrerà di fruttare, resterà aperto, se le sue entrate diminuiranno, verrà chiuso. Intanto, Onassis ha abolito l'obbligo dell'abito da sera per i frequentatori del locale.
Poi ha rimodernato ogni cosa, dal mobilio alle roulettes.
I monegaschi sono però ancora preoccupati. Essi sono convinti che Onassis afferma il vero, quando dice che il Casinò non rende più come una volta. Essi sanno oggi che non potranno più basarsi su quell'unica fonte di guadagno. Quello che non sanno e se potranno continuare a vivere senza pagare le tasse.
Onassis non si è ancora espresso al riguardo. Certo la sua influenza sul Principe Ranieri III avrà un peso dominante anche in questo campo, e non è affatto escluso che i poveri monegaschi debbano rinunciare per sempre al loro privilegio.
Proprio mentre Onassis studiava nuovi progetti per Montecarlo, la «sua città», gli è capitata fra capo e collo la grana di Washington. Subito dopo, quella del Perù.
Lui è tranquillo, dice che «non è nulla», che se la caverà. Per la faccenda peruviana è probabile che egli trovi l'appoggio dei Lloyds di Londra, presso i quali ha assicurato la sua flotta per una somma che si aggira sui dieci miliardi di lire italiane. Considerato questo, e considerati i suoi precedenti, è in effetti probabile che il potente individuo si tiri fuori dagli impicci anche questa volta.

l'Unità, 12 gennaio 1954

10.7.19

Mussomeli (Pietro Nenni - Mondo Operaio 1954)

Pietro Nenni
La pagina di grande giornalismo politico che qui posto è due cose insieme: ricordo di una tragedia siciliana e di una storia eroica di emancipazione e di riscatto che trova il suo apice nei Fasci dei Lavoratori, memoria di un combattente per la libertà e la giustizia sociale che seppe trovare una grande sintonia con il popolo, con le persone più povere e sfruttate. Su "Mondo Operaio", la rivista (prima quindicinale poi mensile) che Pietro Nenni dirige, proprio in quegli anni 1954-56, comincia una ricerca di nuove vie per il socialismo italiano dopo l'esaurimento della stagione frontista. Uno dei filoni di questa ricerca è un nuovo appassionato e problematico meridionalismo, a cui darà un contributo importante Raniero Panzieri, segretario regionale della Sicilia e responsabile stampa, propaganda e cultura nella Direzione Nazionale. Proprio Panzieri organizzerà un convegno in questo senso assai importante, quello su Rocco Scotellaro del gennaio 1955, e curerà il numero quasi monografico di "Mondo operaio" al convegno dedicato nel successivo febbraio. (S.L.L.)

Il 17 febbraio scorso Mussomeli, grosso paese della provincia di Caltanisetta, assurgeva di colpo ad una dolorosa notorietà.
Quel giorno una folla di misera gente, donne la maggior parte, s’era raccolta sulla piazzetta antistante il municipio invocando a gran voce il sindaco e da lui attendendo che mettesse ordine nella esazione in corso dei ruoli di pagamento del canone dell’acqua, proprio in un momento in cui, da diversi giorni, l’acqua mancava. Si trattava di poche migliaia di lire, forse meno di quanto costa a Palermo o a Roma, un pranzo in un ristorante alla moda. Ma poche migliaia di lire, per i braccianti o per i minatori di Mussomeli, sono una ricchezza ch’essi non possiedono. Il sindaco ebbe paura di quella folla inerme che gli chiedeva già da due giorni un atto di giustizia, e la paura gli suggerì la folle idea di far sgombrare la piazzetta dai carabinieri col lancio di candelotti lacrimogeni. Fu sui luogo un grido solo: «Le bombe! Ci assassinano!» e un fuggi fuggi disperato, per due strette uscite e un parapetto dove la gente s’accalcava e s schiacciava. Bilancio: quattro morti e molti feriti. Dei morti tre erano donne: Messina Vincenza di anni 25 madre di 3 bambini; Pellitteri Onofria 5: anni 50 madre di 8 figli; Valenza Giuseppina di anni 72. E un ragazzo: Cappalongo Giuseppe di toni 16.
La commozione nell’Isola e nel Continente fu generale. Quei morti erano, in un certa tal guisa, il biglietto da visita del ministero Scelba che si era costituito sette giorni prima e di cui era bastato l'annuncio perché si tornasse, di un tratto, da Milano a Roma a Torino ai bei tempi dei caroselli delle jeep, delle cariche della Celere e delle manganellate.
Si poteva credere che la presenza vicino a Scelba del vice-presidente del Consiglio Saragat, inducesse il governo a promuovere, o la parte socialdemocratica ad esigere, una inchiesta, previa la destituzione del sindaco e del maresciallo dei carabinieri, evidentemente incorsi in un caso clamoroso di abuso di potere. Nulla. Il governo si tenne pago del rapporto dell’Arma, di qualche sussidio mandato alle famiglie delle vittime, di una parola di pietà che non dirò ipocrita, ma insufficiente sì. La sua stampa annunciò che il sindaco ed i carabinieri avevano dovuto difendersi da una fitta sassaiola, sotto il cui grandinare i vetri del municipio erano andati infranti. Risultò che non c’era un solo vetro rotto, che le autorità non avevano corso alcun pericolo, che sarebbe bastata una buona parola del sindaco per rimandare a casa la gente. Ma intanto s’erano svolti frettolosamente i funerali e non per nulla il nostro è il paese dove chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Su Mussomeli, sui suoi morti, sulla sua miseria cadde in pochi giorni l’oblio del silenzio.
Noi non abbiamo dimenticato, né taceremo, se prima Mussomeli non abbia ottenuto riparazione e giustizia.
Mussomeli, i suoi morti, la sua miseria nera, ci appaiono come il simbolo del tanto, del molto che resta da intraprendere e da fare per attuare il terzo tempo sociale. Si tratta di un grosso paese, che si stende attorno ad un antico castello, con le case grigie dei borghesi, tra le quali troneggia il palazzo della famìglia Lanza, principi di Traina, ultimi signori feudali della zona; con misere casupole dove si ammassa la povera gente, braccianti, carusi delle miniere di zolfo, piccoli artigiani di mille mestieri; col tanfo perenne, il colore, gli usi e costumi della miseria. È un paese, come ve ne sono tanti in Sicilia, dove la mafia ancora detta legge; dove le autorità sono agli ordini e a disposizione dei «cappeddi» (dei ricchi) e della mafia, pressapoco come ai tempi delle orazioni di Cicerone contro Verre; dove la Chiesa fa corpo (sociale e non mistico) coi proprietari di terre (e per le cui viuzze di fango o di polvere non si incontrano quindi i fraticelli del cardinale Lercaro in amore di riformismo sociale); dove la legge del tempo sembra essere la immobilità. Le esigenze di Mussomeli sono quelle del terzo tempo sociale: lavoro e pane, istruzione ed igiene, case e svago civile cioè dignità di vita nella sicurezza di una occupazione stabile. Non furono dunque questi i motivi sociali della grande lotta dei Fasci siciliani, esattamente sessanta anni or sono?
Lo furono. E il fatto che tanto tempo sia passato e i medesimi problemi siano all’ordine del giorno, è un atto d’accusa per la classe dirigente siciliana, ed italiana, per le autorità locali e il governo centrale.
I Fasci sorsero in Sicilia nel 1891, furono la prima istintiva forma di organizzazione contadina e socialista, divennero una forza dopo il 1892, dopo la costituzione a Genova del Partito Socialista (allora Partito dei Lavoratori). Nel maggio 1893, quando si tenne il primo congresso socialista siciliano, l’organizzazione di Partito era almeno formalmente distinta da quella più larga dei Fasci, dove confluivano operai, contadini, minatori delle zolfare, piccola e minuta borghesia rurale. Poi, nello sviluppo rapido del movimento, i Fasci, con alla testa Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro, Giuffrida De Felice, presero l’effettiva direzione della lotta sociale e politica nell’Isola. Si assisteva al fenomeno detto da Filippo Turati della «proletarizzazione della massa siciliana»; alla trasformazione della agricoltura feudale e patriarcale in agricoltura capitalista; alla spoliazione borghese delle terre demaniali. Coincidevano i mali della vecchia società feudale e della società capitalista in formazione. Il movimento dei contadini era diretto essenzialmente contro i gabellotti, per lo sfruttamento a cui sottoponevano i lavoratori dei campi. Il movimento dei minatori delle zolfare era diretto contro le condizioni inumane del lavoro, che all'epoca strapparono grida di orrore per come vivevano i picconieri e specialmente i carusi. L’artigianato assecondava la rivolta dei contadini. Tutti avevano nemico lo Stato, impersonificato dal carabiniere e dall’agente delle tasse. Si lavorava per paghe giornaliere da 40 cent, a una lira, fino a un massimo di due lire per la mietitura, nei pochi giorni in cui le braccia non bastavano.
Un movimento di quella natura, in quel in quelle condizioni sociali, non poteva sfuggire a impulsi anarchici (ed infatti Antonio Labriola in una sua lettera a Federico Engels parlava dell’influenza pazzotica di De Felice), eppure c’era nei dirigenti una maturità di coscienza e di responsabilità che ancora sorprende. C’era l’idea del valore dell’alleanza tra città e campagna; c’era il sentimento, se non ancora la teorizzazione, che la emancipazione dei lavoratori doveva essere opera dei lavoratori stessi; c’era una nozione esatta del legame tra politica ed economia, tra classe dirigente politica e classe dirigente economica. Boisco poteva dire fin d’allora agli studenti: non potremo trionfare se con noi non si muoveranno i contadini. Il programma dei Fasci era quello dei Partito Socialista, era quello della scuola marxista. Nella scultorea definizione di Antonio Labriola i fasci ebbero il compito di portare il proletariato agricolo siciliano « ul davanti della scena della storia». Tra i dirigenti Bosco e De Felice esprimevano l’interesse della popolazione progressiva urbana al grande riscatto dei contadini; Nicola Barbato, medico a Piana dei Greci e Bernardino Verro, segretario comunale a Corleone (egli fu assassinato dalla mafia nel 1915) erano in più diretto contatto con la grande miseria e la grande rivolta dei rurali.
La rivolta assunse le forme che poteva assumere, confermando uno dei principii fondamentali del materialismo storico e cioè che la storia si fa come può, nelle condizioni determinate dall’ambiente, ma si fà: occupazione di terre, prevalentemente demaniali; scioperi; attacco ai gabellotti ed ai signori; incendio dei casotti del dazio e dei municipi.
La repressione fu localmente quale l’imponeva l’istinto bellicoso di difesa dei feudali e dei loro scherani, che sentivano traballare sotto i loro piedi l’organizzazione sociale di cui gli uni vivevano lautamente e gli altri raccoglievano le briciole, e fu da parte dello Stato inerente alla natura delle istituzioni, falsamente liberali col Giolitti della primissima maniera e apertamente reazionarie col Crispi dell’ultima maniera. Nessun arbitrio fu risparmiato, dall’assassinio all’arresto per associazione a delinquere, dalla proibizione dei cortei e dei comizi alla diffida personale, dall’allontanamento degli inscritti ai Fasci dagli impieghi pubblici, all’intimidazione famigliare; dal sequestro del giornale Giustizia Sociale alla chiusura delle sedi dei Fasci.
Quando quelle misure apparvero inadeguate, si ricorse alla strage. Undici contadini uccisi a Giardinetto nel dicembre 1893, altri 11 poco dopo a Lercara, 8 a Pietraperzia nel gennaio 1894, 20 a Gibellina, 2 a Belmonte, 18 a Marineo, 13 a Villanova ecc.
Il 25 dicembre 1893 Crispi si faceva autorizzare dal re e dal consiglio dei ministri a proclamare lo stato d’assedio nell’isola e inviava a Palermo, con pieni poteri, il generale Morra di Lavriano. All’accusa di fomentare la sedizione e la rivolta, i Fasci rispondevano fieramente proclamando che «l’agitazione presente è il portato doloroso e necessario di un ordine di cose inesorabilmente condannate e che mette la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali». Facevo eco da Roma la solidarietà dei deputati socialisti i quali accusavano il governo di non avere fatto «nulla nel passato», di nutrire ora «di piombo gli stomaci affamati» e « fraintendendo ad arte l’opera moderatrice dei Fasci dei Lavoratori» di soffocarne «con l’arresto dei capi la voce generosa .
Piombo e galera furono il rimedio di Crispi, e perché non mancasse nulla del classico armamentario reazionario, ci fu anche la solita e stolida accusa crispina che i capi dei Fasci fossero al servizio dello straniero, della Francia e della Russia (già allora!) per staccare l’isola dal regno.
Sciolti i Fasci, dispersi i seguaci, arrestati quelli che oggi chiamiamo gli attivisti, condannati i capi dal tribunale militare straordinario (De Felice a 16 anni, Barbato e Verro a 14, Bosco a 12, Montalto a 10 anni ecc.) l’antico ordine sociale fu ritenuto salvo. Senonchè i dispersi ritrovarono rapidamente animo e coraggio; l’amnistia del ’96 strappò dai reclusori i capi dei Fasci che nelle elezioni del 1895 erano stati eletti in diverse circoscrizioni continentali; nel gennaio del ’96 il Partito Socialista in Sicilia veniva ricostituito; le masse si rimettevano in movimento.
La repressione dei Fasci siciliani non fu un episodio né unico né singolare del decennio della reazione 1890-1900. Metodi analoghi furono subito dopo impiegati contro analoghi moti in Lunigiana e si ebbe, nel luglio 1894, la legge contro gli anarchici, fonte per lunghi anni di inqualificabili abusi, di cui furono vittima in modo particolare i socialisti. Poi le elezioni del 1895, che raddoppiarono alla Camera l’Estrema Sinistra, e a Roma videro Crispi vincere di stretta misura il galeotto De Felice con uno scarto di 213 voti. Poi Adua che rovesciò Crispi. E dopo il ritiro di Crispi, l’oscuro periodo culminato nei moti e nelle repressioni del ’98, moti e repressioni che presero di bel nuovo l’avvio in Sicilia, per dilagare rapidamente, di provincia in provincia, nel continente, fino a Milano, e ivi essere immortalate nelle gesta del generale Bava Beccaris. Dopo di che, e dopo il tentativo del generale Pelloux, di piegare con la frode dei regolamenti della Camera e delle elezioni ammaestrate la resistenza della democrazia, dopo il regicidio di Monza, la reazione precipitava d’un tratto nel vuoto ch’essa aveva scavato sotto i propri piedi. Nasceva, col Giolitti della seconda maniera, l’era liberale, durata, con alterne vicende e tra clamorose contraddizioni, fino al 1922.
A distanza di tanti anni, dopo tanti eventi militari e politici, dopo i vent’anni della dittatura fascista tra le due guerre mondiali, un episodio come quello di Mussomeli, attesta le insufficenze dell’epoca liberale, denuncia il tragico sperpero di ricchezze e di energie promosso, al di là dei mari, da Mussolini; ripropone alla democrazia repubblicana il terzo tempo sociale, eluso, nel corso degli ultimi sette anni, dalla democrazia-cristiana e dalla socialdemocrazia per le quali urgenti non era dare terra ai contadini, case, scuole ed ospedali al popolo, sicurezza di lavoro agli operai, dignità di occupazione ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, garanzia di sviluppo alle professioni intellettuali, ma urgente era la crociata ideologica contro il marxismo, la discriminazione che tende a porre ai margini della vita democratica socialisti e comunisti, la lotta contro i sindacati e la maggiore delle loro organizzazioni centrali, la C.G.I.L.
Mussomeli ci ha ricondotti al «quia». «State contenti, umana gente, al quia». I lavoratori non staranno contenti. Hanno nel passato rimosso molte delle cause della loro servitù e della loro miseria. Rimuoveranno le cause persistenti dell’ingiustizia sociale. Questo, e non altro, ha da essere il senso del terzo tempo sociale.

Mondo Operaio, quindicinale diretto da Pietro Nenni n. 5, 6 marzo 1954

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