Il volumetto Cento anni di Fiat - Lottare alla Fiat, a cura di Raffaello Renzacci e Antonio Moscato è opera breve ma di grande spessore. Venne diffusa dalla Fiom nel 2000, con la prefazione di Claudio Sabattini. Il brano che qui presento, vivace e attualissimo, riguarda il rapporto tra proprietà Fiat, sistema informativo e regime fascista. (S.L.L.)
Giovanni Agnelli (1866 - 1945) |
Durante l’ascesa del regime fascista i giornali che Agnelli ha cominciato a controllare (nel giro di pochi anni acquista il “Corriere Italiano”, il “Nuovo Paese”, “l’Impero”, “il Nuovo Piemonte”, il “Giornale di Roma”, “il Tempo”, “il Resto del Carlino”) si schierano apertamente per Mussolini. “La Stampa” invece sarà conquistata definitivamente solo nel 1924, anche se fin dal 1920 Giovanni Agnelli e il suo socio Riccardo Gualino si sono assicurati un terzo del pacchetto azionario e soprattutto il diritto di prelazione in caso di alienazione della quota del direttore e principale proprietario, Alfredo Frassati. L’influenza della FIAT si esercitava attraverso un uomo di Agnelli, il ragionier Giuseppe Colli. La conquista definitiva avverrà nel 1925, e in maniera non limpida: Mussolini durante la crisi Matteotti si era infuriato con il giornale torinese, su cui scrivevano non pochi esponenti della fronda giolittiana, tra cui Luigi Salvatorelli, Luigi Ambrosini, Giovanni Ansaldo. Il Duce lancia la parola d’ordine Ripulire gli angolini, che si concretizza in un violento boicottaggio de “La Stampa”: bastonature ai venditori, sequestri quasi quotidiani, poi - a partire dal 29 settembre 1925 – con un decreto prefettizio che sospende le pubblicazioni con un pretesto. Agnelli si fa avanti, lieto di unire l’utile al dilettevole, compiacendo il Duce ed estendendo la base della sua egemonia piemontese. Frassati viene liquidato con una somma abbastanza consistente, e la sua quota viene presa dalla FIAT, ma gestita personalmente da Agnelli.
Molto significativo che, scavalcando il suo rozzo luogotenente torinese, Cesare Maria de Vecchi, Mussolini non ha puntato su un uomo di paglia o su un industriale di mezza tacca prono al suo volere, ma sul vero padrone di Torino, pur sapendo quanto fosse incerta la “fedeltà” di Giovanni Agnelli, che aveva sempre rifiutato una sottomissione totale, a differenza dei Crespi del “Corriere della sera”. Sulle questioni marginali i giornalisti continueranno ad avere la “briglia lunga”, ma sulle questioni decisive sarà Giuseppe Colli, per conto del Senatore, a decidere.
Nel 1927 il segretario del PNF torinese Carlo di Robilant si lamentò con il vicesegretario nazionale Achille Starace che “nel complesso della redazione de La Stampa vi sono delle ruote che cigolano nel senso della devozione al regime”, ma di non avere avuto successo con le ripetute rimostranze fatte ad Agnelli. Questi gli disse infatti, “come disse anche al Prefetto, di avere avuto disposizioni dal Governo di mantenere il suo giornale in una forma di collaborazione, senza fascistizzarlo”.
Anche più dura la reazione del senatore Agnelli di fronte alla protesta del vicedirettore fascista Luigi Collino, che aveva bloccato una notizia che gli sembrava avesse implicazioni politiche e che non gli era stata sottoposta, ma l’aveva trovata poi sul giornale, dove era stata reinserita dal ragionier Colli, per ordine del proprietario. Collino scriveva al solito di Robilant, che si era recato da Agnelli, ma era stato rudemente rimproverato: “Fra le altre dichiarazioni fattemi vi sono le seguenti che ti sottopongo: 1°, chi comanda a La Stampa, e deve comandare soltanto, è il ragionier Colli, amministratore unico a cui tutti, me compreso, dobbiamo rimanere subordinati. 2°, il vero direttore e l’unico artefice del giornale è il ragionier Colli, a cui risalgono tutti i meriti e tutte le ragioni di successo di organizzazione e di diffusione. 3°, il ragionier Colli ha più sensibilità politica di qualunque altro per la scelta delle notizie, degli atteggiamenti. 4°, il vice direttore responsabile deve obbedire in tutto, pubblicare quello che la proprietà o l’amministrazione gli ordinano, oppure andarsene”.
Meno di un anno dopo, Agnelli, in occasione delle dimissioni del direttore, Andrea Torre, scriveva una “lettera di precisazioni”, in cui dichiarava che non si poteva parlare di “diversità di vedute politiche”, dal momento che “io non reputai mai opportuno comunicare a Lei le mie opinioni, né potevano interessarmi le personali opinioni Sue, avendo già precisa conoscenza del suo passato”. Torre, che era fascista, ed era stato imposto da Mussolini, nella lettera di dimissioni non solo lamentava di non avere mai avuto effettivi poteri, ma elencava anche precisi punti di dissenso. Con tono sprezzante Agnelli aggiungeva nella sua riposta che il Torre, dopo che era stata “signorilmente liquidata in 24 ore a Sua richiesta la cospicua indennità (lire 923.000)”, non avrebbe dovuto lamentarsi, dato che per la prima volta aveva avuto la possibilità di dirigere “un importante organo politico, oltre il vantaggio materiale a cui La abbiamo conosciuta non insensibile”. Agnelli forzava sempre un po’ la mano, ma non aveva tutti i torti quando al mediocre direttore (che aveva fatto cadere negli ultimi mesi la tiratura) ricordava di avere avuto carta bianca dal regime: “Io avevo avuto dal Capo del Governo l’ordine di mantenere al giornale una linea che lo rendesse bene accetto ai lettori, specialmente del ceto operaio, che sopra tutto si volevano acquisire al Fascismo. Tale ordine io mi credevo in diritto di trasmettere a Lei che, pur dichiarandosi con me d’accordo, in linea di principio, operava poi, particolarmente a mezzo delle disposizioni impartite alla redazione, in modo di abbassare il giornale al livello di quelli che vivendo di lodi e plagi perdono la loro autorità e diminuiscono la diffusione senza rendere alcuna autorità al Regime”.
Il corsivo è mio, è sottolinea la ragione forte del Senatore. Certo, c’è anche l’arroganza di un uomo che si considera il sovrano assoluto nelle sue proprietà. Fatto sta che anche Torre fu sconfitto e sostituito da Curzio Malaparte, che verrà poi a sua volta licenziato in tronco (con fortissima liquidazione), probabilmente perché ostentava troppo la sua relazione con la moglie dell’“erede al trono”, Edoardo Agnelli.
Prima di rassegnarsi alle dimissioni, Malaparte che allora era un fervente sostenitore dell’estremismo squadrista, aveva sferrato un attacco politicamente motivato all’uomo di fiducia di Agnelli, il direttore amministrativo Giuseppe Colli, che fu sostituito immediatamente da un altro uomo al tempo stesso devoto e dal passato inequivocabilmente antifascista, Cesare Fanti, che aveva militato nelle file dei socialisti riformisti. In cambio aveva accettato che il nuovo direttore fosse l’ex segretario del partito fascista Augusto Turati, che cinque mesi prima era stato destituito da Mussolini in seguito alle rimostranze del Vaticano per l’eccessiva ostilità dimostrata nei confronti della stampa e delle organizzazioni cattoliche. Ma Turati non aveva la levatura per reggere effettivamente la direzione di un giornale con una redazione così affiatata, e finì per essere a sua volta accusato di morbidezza verso l’antifascismo dalla cricca di Farinacci e Starace, che gli scatenarono contro gli estremisti del GUF (gioventù universitaria fascista), che assaltarono “La Stampa” tirando sassi al vetrate, ma vennero messi in fuga dagli operai accorsi dalla tipografia. Turati sapeva che la manifestazione era diretta soprattutto contro di lui, e protestò vivacemente con Mussolini: “I 20.000 disoccupati - scriveva nella sua lettera - guardano stupiti tutto questo carnevale di indisciplina da parte di cento maleducati figli di papà”.
Ma Farinacci, che non perdonava a Turati di averlo sostituito nel 1926 alla segreteria del partito, non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Per screditarlo, scatenò una campagna di insinuazioni su una sua presunta omosessualità, e alla fine costrinse il duce a revocargli l’incarico e a radiarlo dal partito, spedendolo a Rodi. Agnelli, consigliato da Frassati, ne approfittò per chiedere a Mussolini che il nuovo direttore fosse un professionista, e non un notabile del partito. Il duce accettò, designando Alfredo Signorelli, che era stato collaboratore del “Popolo d’Italia”, e da tre anni era capo della redazione romana de “La Stampa”. Funzionò benissimo, dato che accettò di fatto di mantenere il giornale su una linea di collaborazione, ma senza “fascistizzarlo”.
Mussolini, evidentemente, sapeva bene a cosa alludeva Giovanni Agnelli nella lettera in cui liquidava Torre, parlando della necessità di “conquistare il ceto operaio”: nelle ultime elezioni della Commissione Interna, nel maggio 1925, le liste comuniste avevano ottenuto 5.013 voti, quelle socialiste della FIOM 4627, la UIL aveva avuto solo 358 voti, i popolari 162, mentre i candidati fascisti, nonostante gli appoggi ricevuti dal Regime, avevano avuto solo 767 consensi. Subito dopo le elezioni, il senatore Agnelli aveva trattato il rinnovo del contratto aziendale con gli eletti comunisti, scavalcando perfino i socialisti della FIOM. Quando pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1925, le Commissioni Interne venivano sciolte, Agnelli continuò a preferire il dialogo diretto con i dipendenti, scavalcando spesso i sindacati fascisti divenuti obbligatori.
Comunque, sia pure con la relativa autonomia rivelata dal braccio di ferro su “La Stampa”, per vent’anni, la FIAT, “indosserà la camicia nera”. Se la toglierà solo il 25 luglio 1943. Ma la sua ascesa da modesta impresa locale a grande gruppo mondiale è stata tutta determinata dal rapporto con il fascismo e le sue imprese di guerra.
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