Curzio Malaparte
«L’esperienza insegna che la peggior forma di patriottismo è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a null’altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali». Indovinello: quale disfattista rosso l’avrà scritto? Macché: anche se sembrano una risposta allo sfogo del premier contro il modo «indegno, abietto, criminale e anti-italiano» con cui «troppi media fanno critiche infondate al governo», sono parole di Curzio Malaparte. Mezzo secolo fa. Come la mettiamo? Era un nemico della Patria anche Malaparte? Lasciamo rispondere a lui, rileggendo il «Tempo illustrato» del 1956 ripreso da «Scusi lei si sente italiano?», un libro appena uscito di Filippo Maria Battaglia e Paolo di Paolo: «Vi sono due modi di amare il proprio Paese: quello di dire apertamente la verità sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie, e vergogne (…) Tra i due modi, preferisco il primo». «Né vale la scusa», proseguiva, «che i panni sporchi si lavano in famiglia. Vilissima scusa: un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza. Ed è cosa inutile e ipocrita invocare la carità di Patria. (…) Ho forti dubbi che la Patria, per la quale si pretenderebbe invocare tale specie di carità, sia la vera Patria degli italiani. Credo piuttosto sia quella che Carducci chiamava “La Patria di lor signori”; cioè l’Italia dei servi e dei padroni, un’Italia che non merita né pietà né rispetto». Tema: era più patriottico Malaparte nel suo amore adulto per l'Italia convinto che un popolo deve guardare in faccia se stesso o più patriottico Berlusconi quando (bacchettato anche da Giuliano Ferrara: «Ragiona talvolta con la pancia e dimentica l’onorevole funzione della testa nel corpo umano») disse di aver difeso il Duce in un’intervista a «The Spectator» perché aveva «reagito da patriota, da italiano vero, rispetto a una comparazione tra Mussolini e Saddam Hussein»? Ama di più l'Italia Angelo Del Boca che da anni cerca dolorosamente di capire come mai noi, noi italiani, arrivammo a costruire nel deserto libico lager in cui morirono decine di migliaia di donne, vecchi e bambini o l'ama di più chi finge di non sapere che quel macellaio del maresciallo Graziani, per ordine del Duce, usò gas vietati da tutte le convenzioni e scatenò i soldati islamici in divisa italiana per decimare tutti i preti e i diaconi di Debra Libanos, il «Vaticano» della Chiesa cristiana etiope? Sia chiaro: non è in discussione il diritto del Cavaliere di lamentarsi di come giornali o giornalisti trattano i suoi «trionfi». Sono anni che si lagna. Cominciò nel ‘94 («Il 90% dei giornalisti italiani milita sotto le bandiere del fronte comunista o paracomunista») e non ha smesso mai: «Sono tutti contro di me. C'è un'alleanza visibile tra i grandi giornali, le banche e la magistratura per realizzare un’intesa opaca e oscura contro di me». Non l’ha manco fatto in solitudine. Gli archivi sono pieni di lamenti di chi via via era al potere, magari proprio contro Berlusconi e i suoi accusati a loro volta d’essere «sfascisti». Lamberto Dini: «Se i mercati accolgono così freddamente la mia finanziaria è colpa dei giornalisti cacadubbi, della disinformazione che nasce in Italia e si ripercuote negli altri Paesi». Romano Prodi: «Non dobbiamo avere paura dei mass media, tanto li abbiamo tutti contro … » . Massimo D'Alema: «Il confronto coi giornali stranieri è umiliante. Quelli si occupano di cose serie, da noi si stampano solo cazzate». E potremmo andare avanti per pagine e pagine. Fin qui siamo nella «normalità»: i giornali fanno le pulci a chi governa (magari talvolta esagerando) e chi governa sbuffa, talvolta a ragione, più spesso a torto. Ma perché una critica a Palazzo Chigi, che ci stia D’Alema o Dini, Berlusconi o Prodi, dovrebbe essere «anti-italiana»? Così ragionava il fascismo. Quando Gaetano Polverelli emanava l'ordine nel 1931 a «improntare il giornale a ottimismo, fiducia, sicurezza nell'avvenire. Eliminare le notizie allarmistiche, pessimistiche, catastrofiche e deprimenti». Ne scrisse sulla «Frankfurter» anche il grande Joseph Roth spiegando che i giornali erano sbarrati a chi veniva accusato di aver «esercitato un'azione contrastante gli interessi della nazione». Cioè del Duce. La verità è che i grandi intellettuali italiani sono stati spesso duri con l'Italia. Proprio per amore dell'Italia. Basti ricordare Antonio Gramsci: «È mancato sempre, o quasi, in Italia, un ambiente di serietà, di lavoro effettivo e dignitoso intorno ai luminari della scienza, della politica, della vita morale, della cultura, che pure sono nati in Italia, e in italiano hanno scritto e parlato in buon numero. ‘Dietro l’avello / Di Machiavello / Giace lo scheletro / Di Stenterello.’ (..) È tutta una caterva di Stenterelli, quella che circonda la persona di un solo Machiavello». Oppure, su un'altra sponda, decenni dopo, Oriana Fallaci: «La mia Patria, la mia Italia, non è l’Italia d’oggi. L’Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant’anni e che si appassionano solo per le vacanze all’estero o le partite di calcio. L’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Osama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzano contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene». Prospettive diversissime: anti-italiane? Mah… Era anti-italiano Indro Montanelli quando, innamoratissimo dell'Italia che l’aveva deluso, confidava amaro: «Per me, non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria»? Berlusconi è amatissimo almeno quanto detestato da un pezzo del Paese, ma perché dovrebbe coincidere con la Patria? Rileggiamo quanto scriveva nel ’46 Vitaliano Brancati: «La ripugnanza per la critica, la libera stampa, le due Camere, il teatro di costume fa che l’uomo d’ordine chieda in ogni momento la censura preventiva. Per chiedere questa legge straordinaria, egli sceglie l’occasione di una menzogna o di una calunnia o di una sconcezza, ma in effetti è impaziente di applicarla contro la scottante Verità, la fastidiosa Critica, la noiosa Ironia». L'alternativa è il cronista servo irriso da Mino Maccari: «tutta prosa / senza sale e senza aceto / Se un gerarca tira un peto / te lo pubblica in grasseto». |
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