Nicolaj Gogol |
Questo Sciascia quasi sconosciuto, ritrovato nelle sue amorevoli ricerche da Fabrizio Tosti sulle pagine di una rivista regionale (“Lazio ieri e oggi”, fascicolo XXIV-1988), è bellissimo. E’ una nota su Gogol a Roma, su un suo incompiuto racconto romano, sull’amicizia con Giuseppe Gioacchino Belli. La nota apre uno squarcio su relazioni che non sospettavamo e che andrebbero indagate: Le Anime morte e Il revisore da una parte, i Sonetti dall’altra; o, se si vuole, l’inferno dei russi e quello dei romani, nell’Ottocento e non solo. M’ha stimolato il desiderio di leggere Belli alla luce di Gogol, o viceversa. Potrei anche riuscirci, se mi lasciano in pace. (S.L.L.)
Giuseppe Gioacchino Belli |
Belli e Gogol
Una interessantissima nota sull’incontro Gogol-Belli l’ha scritta Corrado Alvaro quando, presso l’editore Rizzoli, uscì la traduzione di Tommaso Landolfi dei gogoliani “Racconti di Pietroburgo”. Nel 1940 Henry Mongault aveva riesumato un racconto lasciato da Gogol incompleto e che si intitolava a Roma: e Landolfi lo aveva compreso nella sua scelta. In questo racconto Alvaro scorgeva il frutto dell’incontro di Gogol con Belli.
E’ la storia di un giovane principe romano che, stanco della vita romana, corre a Parigi: e dapprima si entusiasma di quella vita intensa e ricca di novità; ma si accorge poi della mediocrità, del vuoto che si nasconde sotto l’apparente rigoglio intellettuale e, chiamato a Roma per la morte del padre, ci rimane: riscoprendola a specchio del suo cuore, intimamente legandosi alla vita della sua città, alle sue sventure e al suo popolo.
Nel carnevale romano scopre poi una bellissima ragazza del popolo vestita nel costume di Albano, va in Trastevere per sapere di lei, per vederla ancora… A questo punto il racconto si interrompe, e si interrompe un reale episodio della biografia gogoliana. Gogol era stato una prima volta a Roma: e forse avrà trovato povera e senza respiro la vita romana. Più piena la vita a Parigi: finché ne avrà scorto le crepe. E, tornando a Roma, un senso di riscoperta, una cordialità nuova. Poi, nel carnevale, una bellezza femminile intravista, l’impossibilità di ritrovarla.
Gogol è certo l’unico russo che da Roma abbia tratto una lezione. “Mi sento felice. A Roma c’è qualcosa di meraviglioso: è la seconda volta che ci vengo, e mi pare più bella di prima”. A Roma c’era Belli: ed è quasi certo che al grande poeta romanesco Gogol deve la sua scoperta della città.
“Erano fatti per intendersi”, scrive Alvaro, “tutti e due espressione popolare al punto da essere incomunicabili e intraducibili se non a patto del totale irraggiamento della civiltà cui appartenevano: e dovevano pure essere simili di carattere, se tutti e due, alla fine dei loro anni, presi dagli scrupoli religiosi, pensarono di bruciare le loro opere.
Quanto di Gioachino Belli si trova nel racconto di Gogol che, malauguratamente non terminato, porta il titolo di “Roma”?
…Per quanto Gogol accenni nelle sue lettere alla sua amicizia e alla sua ammirazione verso il Belli, in queste pagine si trova forse la vera testimonianza di quei rapporti…”
In quegli anni, Gogol portava dentro il “poema” delle “Anime morte”. Dicendo “poema” egli intendeva richiamare l’idea, non soltanto strutturale, della Commedia dantesca. E, incontrandosi col Saint-Beuve a Civitavecchia, dirà che i sonetti di Belli “fanno poema”. Non intende dire di un’unità esteriore, ma tutta interiore e profonda. Mentre parla col critico francese, forse pensa che anche nella Roma di Belli c’è un inferno, un purgatorio e un paradiso di “anime morte”.
“Puskin che amava tanto di ridere, a misura che io leggevo si faceva sempre più cupo, e quando io ebbi finita la lettura, disse con disperazione: Dio mio com’è triste la nostra Russia!” Amava tanto di ridere Nicola Gogol? Forse. Ma certo, insieme al sale e all’arguzia di cui dice nella lettera alla Balàbina, nella Roma di Belli gli si rivelò tanta tristezza, tanta tetra e nativa energia.
Quella rappresentazione così corale e drammatica, così implacabilmente squarciata; quello “spaccato” di vita investito da una greve luce d’apocalisse, sospeso come dentro l’occhio spietato di un giudice, dovette essere irresistibile per l’autore del “Revisore”. Se un “revisore” Gogol ha immaginato, non quello finto e “fisico”, ma quello vero e “metafisico”, quello che la guardia comunale annuncia nell’ultima battuta della commedia e che troverà inermi e beffati i protagonisti - eccolo quel “revisore” nel salotto della Wolkonsky, “colla faccia amara tinta d’itterizia” sulla quale invano avresti aspettato un sorriso. Così lo videro, rispettivamente, lo Gnoli e il Della Spina: e certo anche il grande scrittore russo. Al quale spetta anche questa gloria: di avere, primo in Europa, riconosciuto quel poeta che noi un po’ tardi abbiamo scoperto.
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