Il compagno Eros Barone mi trasmette una sua acuta lettura della vicenda politica e umana di tre grandi comunisti italiani del Novecento, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda e Luigi Pintor, partendo dalle loro autobiografie. Così la presenta: “Avendo contratto, negli anni della militanza politica, un consistente debito intellettuale e morale con protagonisti e, insieme, testimoni retrospettivi del ‘secolo breve’ (1914-1991), quali Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Luigi Pintor, ho ritenuto op-portuno attendere che il clamore suscitato dalla pubblicazione delle opere di carattere autobiografico composte da tale triade italo-marxista si estinguesse per pagare quel debito, per così dire, in un colpo solo e a ciglio asciutto”.
Propongo il testo di Barone ai frequentatori di questo blog in due parti relativamente autonome, la prima dedicata a Ingrao e Rossanda, la seconda a Luigi Pintor. (S.L.L.)
La vita di Luigi Pintor (1925-2003) attraversa, a partire dal periodo fascista, dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza, tutta la seconda metà del Novecento, legandosi per un lungo tratto, sino a quando non ne venne radiato nel 1969, al Pci, del quale questo intellettuale sardo fu dirigente, giornalista e deputato. Naturalmente, la fama di Pintor è soprattutto legata, così come quella della Rossanda, alla fondazione del “manifesto”, che fu prima una rivista, poi un partito e infine un giornale. La fisionomia che ha contraddistinto la personalità di Pintor è stata quella propria di un intellettuale illuminista e giacobino, di un polemista corrosivo, di un urticante moralista, di un tenace, inquieto ed elegante interprete della direttiva gramsciana sul pessimismo dell’intelligenza e sull’ottimismo della volontà.
In Servabo, un secco e nitido autoritratto del 1991, Pintor rievoca le scoperte culturali che segnarono la sua adolescenza: Vittorini, Pavese e, in particolare, Melville, rappresentante eponimo della narrativa americana, che restò sempre uno dei suoi autori prediletti; vi era poi la musica, una passione di famiglia: «Per tutta la vita», racconta, «mi sono tirato dietro, di casa in casa, un pianoforte».
L’attività di Pintor fu quella tipica degli intellettuali “organici” all’interno del Pci: giornalista dell’“Unità”, prima come redattore politico, poi come condirettore dell’edizione di Roma; membro dell’Ufficio di segreteria del partito, consigliere provinciale a Roma e, nel 1968, deputato della Camera, eletto in un collegio sardo. Quando, nel Pci, l’ala sinistra rappresentata dai seguaci di Pietro Ingrao, il leader sconfitto all’XI congresso nel 1966, si pose come nucleo di una opposizione interna, fra i suoi esponenti vi furono Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Aldo Natoli. Dopo la radiazione dal partito, nel giro di due anni la rivista si trasformò in quotidiano: era na-to così “il manifesto”, che Pintor, guardando, per un verso, alla nuova stagione politico-culturale del Sessantotto e richiamandosi, per un altro verso, «alla grande esperienza dell’“Unità” dell’immediato dopoguerra, che ebbe un afflusso di nuovi quadri venuti dalla Resistenza», ebbe a definire «uno strumento di intervento continuo, di informazione continua, di presenza e battaglia continue». Nei decenni successivi Pintor, dopo essersi avvicinato al Pci, nelle cui liste sarà eletto deputato “indipendente” nel 1987, si distaccherà dal Pds, la formazione politica nata nel 1991 dalla liquidazione del Pci.
È questo il periodo in cui Pintor rivela quelle straordinarie doti di editorialista e polemista, nonché quello spirito lucido e caustico, che lo hanno reso una delle penne più scarnificanti e temibili del giornalismo politico-culturale italiano. Gli editoriali che egli veniva scrivendo, una scelta dei quali apparve in un volume del 2001 intitolato “Politicamente scorretto”, erano spesso ironici, caratterizzati da quel “sarcasmo appassionato” che Gramsci faceva risalire a Lenin e che il grande comunista sardo aveva impersonato in modo esemplare. Simili a parabole laiche e a fulminanti epigrammi, esprimevano la stessa felicità di scrittura e lo stesso distacco raffinato e dolente che Pintor rivelava nelle sue memorie, dal già citato Servabo (1991) alla Signora Kirchgessner (1998) al Nespolo (2001).
Pintor, poco prima di spegnersi, scrisse sul “manifesto”, il 24 aprile del 2003, un editoriale che cominciava con questa constatazione: «La sinistra italiana che conosciamo è morta». Era fatto così; pensava, esattamente come Gramsci, che la verità, anche la più ostica e dura, è sempre rivoluzionaria. Tuttavia, se un simile epitaffio merita di essere ricordato perché i fatti successivi lo hanno, purtroppo, ampiamente confermato, vi è un altro bellissimo ricordo con cui vale la pena di concludere questo profilo di Luigi Pintor. Tanti anni fa, a Roma, due bravi e coraggiosi gappisti, Alfredo Reichlin e Luigi Pintor, scappavano inseguiti dai fascisti; sennonché Luigi, cui nella corsa era caduta una cosa dalla tasca, si voltò e tornò indietro; a quel punto, vista quella repentina inversione di marcia, i fascisti si arrestarono e, a loro volta, scapparono. L’episodio, riferito da Reichlin, va tenuto presente; il suo senso è un monito rivolto a chi ancora coltivi una qualche idea della sinistra: la si smetta di scappare sotto altre insegne (da ultimo, sotto quelle del Partito democratico), si ripensi al passato e ci si giri, smettendola di fuggire e di travestirsi.
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