6.2.11

1988: Antigone e Rossana Rossanda (con un intervento di Luciano Canfora)

Nei primi mesi dell’88 sulla stampa italiana, quotidiana e periodica, non poco si discusse del saggio di Rossana Rossanda sull’Antigone sofoclea, prefazione a una nuova traduzione (quella assai bella di Luisa Biondetti) appena pubblicata da Feltrinelli. Il cuore della tragedia è, com’è noto, nell’atto della figlia di Edipo che viola l’ordine del tiranno Creonte per dare sepoltura al fratello. La Rossanda vedeva nel tragico personaggio l’emblema della ribellione e della disobbedienza contro la Stato, impersonato da Creonte, e, benché non mancasse di precedenti critici e di conferme testuali, fu molto criticata, anche perché attualizzava l’antica storia collegandola a recenti conati rivoluzionari contro lo Stato capitalistico in Italia e in Germania. Le critiche più dure provenivano da destra: Federico Orlando su “Il Giornale” di Montanelli e Ruggero Guarini su “La Stampa”. Costui non esitò a definire la lettura di Rossanda una “letale fandonia che mira a giustificare e a favorire, o addirittura a incoraggiare e a promuovere, gli eccessi del terrorismo più forsennato”. Ma neanche a sinistra i consensi furono unanimi, benché i toni fossero più civili e le obiezioni più argomentate. Massimo Cacciari rovesciò l’interpretazione: “Quello di Antigone non è il dramma della disubbidienza. Caso mai è il dramma dell’ubbidienza agli dei del sangue, agli dei sotterranei, agli dei della casa”. Beniamino Placido obiettò: “Antigone non uccideva”. Il nostro Timpanaro aggiunse: “Al posto della Rossanda avrei scritto senz’altro un saggio sulla disobbedienza. Così facendo confonde Antigone con l’antigonismo”.
Su “L’Europeo” del 26 febbraio, a dare ragione alla fondatrice del “manifesto”, fu però un antichista dello spessore di Luciano Canfora. Ripropongo qui il suo intervento con il titolo originario. (S.L.L.)


Le parole sono armi
di Luciano Canfora
L'Antigone di Sofocle rappresentata dai ragazzi
del carcere minorile Beccaria di Sanremo (7 novembre 2008)
Diceva Aristofane, e forse ci credeva, che molte signore ateniesi si erano dapprima coperte di vergogna, quindi suicidate, per il coinvolgente influsso esercitato sulla loro mente delle figure femminili messe in scena da Euripide. Queste figure, per esempio Fedra innamorata del figliastro, o Stenebea, moglie di Preto, ma presa d’amore per Bellerofonte, vengono designate da Aristofane, nello stesso contesto delle Rane, con la cruda e iniqua parola cara ad ogni Tartufo: “sgualdrine”. L’idea che Aristofane esprime, e i suoi spettatori condividono, è che il teatro sia il veicolo di una ideologia: “Il poeta deve nascondere il male, non metterlo in mostra né insegnarlo. Ai bambini fa lezione il maestro, agli adulti i poeti”.
Questa è l’idea che gli ateniesi hanno del teatro e della sua implicazione politica ed esistenziale. Politica, anche: non a caso dalla più antica erudizione è stato usuale cercare di cogliere e spiegare i riferimenti molteplici, le allusioni, contenuti nelle tragedie e nelle commedie, in quanto appunto suprema forma di pedagogia collettiva. Non a caso su questo teatro veniva esercitata una censura, e talvolta una esplicita repressione politica. “Non daremo il coro a chiunque”, ammonisce l’interlocutore ateniese nelle Leggi di Platone.
Victor Ehrenberg in un saggio assai noto, Sofocle e Pericle, apparso nel 1954, sostenne che l’Antigone di Sofocle rappresenta la rivendicazione dei valori umani in antitesi con le leggi positive dello Stato (di ogni Stato, parrebbe di capire). Ehremberg si poneva criticamente di fronte a un grandissimo interprete ottocentesco dell’Antigone, Hegel, il quale nelle Lezioni di estetica aveva visto nello scontro tra Antigone e il tiranno Creonte l’espressione della polarità tra la famiglia e lo Stato.
Per chi lo ignore non è male ricordare che Antigone pullula di dibattiti politici: ad esempio quello tra Emone e Creonte, tutti centrati sui temi vitali della comunità (il potere personale, il controllo popolare, il consenso conformistico e coatto e così via). I cercatori della poesia “pura” hanno sempre arricciato il naso dinanzi a questo genere di interpretazioni. Ignari per lo più della natura intimamente e strutturalmente politica del teatro ateniese, fraintendono un teatro il cui strumento erano appunto le maschere prototipiche della tradizione mitologica.
Una messinscena dell’Antigone promossa da un gruppo femminista tedesco fu vietata subito dopo Stammhein (1977) [il riferimento è alla RAF e alla morte in carcere dei componenti del gruppo Baader Meinhof ]. Il divieto della sepoltura che è al centro della tragedia sofoclea si offriva spontaneamente come parallelo della più oscura e tragica vicenda degli “anni di piombo”. Il censore governativo ragionò alla stessa maniera del gruppo femminista, ma con intendimento opposto.
Non riesco perciò davvero a capire il chiasso ostile che si è voluto fare intorno all’Antigone di Rossana Rossanda. Forse è tutto dovuto a una scarsa cultura storico-letteraria. Ogni volta che questa moderna studiosa del moderno fenomeno eversivo ricorre alla figura di Antigone – anni fa con l’omonima rivista, ora con l’introduzione alla tragedia – si levano proteste a misurare il misfatto di lesa Antigone. Non sanno, come sapevano invece gli ateniesi, che le parole dette dalle scena erano “armi”. 

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