Da un ritaglio della rivista mensile "Pace e Guerra" (diretta da Luciana Castellina) recupero un ritaglio assai convincente su De Amicis, su Collodi, sul loro tempo. L'anno non c'è, ma dovrebbe essere il 1980. (S.L.L.)
De Amicis continua ad avere successo, o almeno si continua a parlarne. Cuore finisce di far piangere e inizia a far ridere (pensiamo all'Elogio di Franti di Umberto Eco in Diario minimo e alle esilaranti letture che ne ha fatto Paolo Poli nello spettacolo La vispa Teresa): lo sberleffo inrelligente è in fondo un riconoscimento all'importanza del libro. Si ristampa il divertente e divertito Amore e ginnastica nel «Centopagine» di Einaudi con prefazione di Calvino: pioggia di recensioni, copia di vendite, film di Luigi Filippo D'Amico. Nel 1980 esce per Garzanti l'inedito romanzo Primo maggio che risveglia nuovo interesse, se non altro di curiosità. Fu l'autore a rifiutarsi di pubblicarlo, nonostante l'attesa del pubblico, forse perché cosciente della difficoltà di trasformarsi nello scrittore socialista che Turati si augurava. Se comunque De Amicis fu lo scrittore più letto e amato dell'Italia umbertina, ciò non si deve soltanto al fatto che indubbiamente sapesse scrivere, pur non essendo un maestro di stile, e che sapesse commuovere, pur non disdegnando certi colpi bassi che farebbero squalificare qualsiasi pugile. Lo si deve anche alla sua funzionalità in un particolare momento storico: quello in cui l'Italia unita ambiva darsi una omogeneità culturale e ideologica, rispecchiandosi in scrittori popolari ma moderatamente populisti.
De Amicis, appunto, faceva al caso anche per la sua disarmante buona fede. Vogliamo rendere popolare l'esercito, che per tanta parte del Paese, e per secoli, aveva avuto il volto odioso e oppressivo di una milizia straniera? Ed ecco i bozzetti della Vita militare. Vogliamo spezzare una lancia in favore d'una categoria eroica e sottopagata, gli insegnanti? Era il secondo esercito d'Italia, uomini e donne che venivano sbattuti nelle contrade più sperdute, guardati con speranza e diffidenza da una popolazione in gran parte analfabeta. Ed ecco il Romanzo di un maestro. Quanto al famoso Cuore, il suo fine nazional-educativo è più che palese: il campionario di eroi in calzoni corti sapientemente assortiti per regione (patriota padovano, vedetta lombarda, scrivano fiorentino, tamburino sardo, e così via), la scolaresca rappresentativa di varie classi sociali. Quel che dà a pensare è la componente sadica che affiora da queste opere, e della quale Antonio Baldini (Il fiatone di Edmondo in Fine Ottocento, 1947) ha scritto da par suo, ipotizzandone l'origine in qualche «trabalzone prenatale».
Pare infatti assodato che in gravidanza la madre di De Amicis leggesse Il conte di Montecristo di Dumas, denso di colpi di scena, con tale diletto da dare al pargolo il nome del protagonista Edmondo Dantès. Nella sua seconda opera, Novelle (1872), il sadismo supera il livello di guardia. Tranne che per tre racconti di commozione elegiaca o patriottica (Gli amici di collegio, La casa paterna, Un gran giorno), il volume pare rilegato in pelle umana. Camilla: un giovane di paese che non vuol fare il servizo militare si fa troncare l'indice della mano sinistra. Il trauma segna per sempre l'uomo, che diventa ebete, e la sua fidanzata, che nel soccorrerlo è inciampata nel dito in questione e muore tempo dopo di febbre cerebrale. Furio: un adolescente solitario, infelice e inquieto vien sedotto dalla cognata bella e civetta, è sorpreso dal fratello e nella colluttazione che ne segue spara un colpo di fucile in aria. A scopo di shock terapeutico gli vien fatto credere di aver ferito gravemente la diletta sorella. Alberto: un povero impiegato licenziato per ingiusto sospetto di furto muore letteralmente di fame, perché non riesce a trovare un altro lavoro e non se la sente di mendicare. Vien salvato all'ultimo dalla figlia dell'affittacamere, e scagionato in una scena madre che farebbe, secondo l'espressione di Baldini, «tirar fuori il moccichino» al delinquente più incallito. Fortezza: un carabiniere incappa in una banda di briganti. Per estorcergli l'ordine di cui è latore, gli sciagurati lo torturano in un modo che non convien citare per rispetto al lettore sensibile, e per compir l'opera lo accecano. Il messaggio è chiaro: rispettivamente, non evitate la ferma militare, non lasciate inselvatichire gli adolescenti, non sospettate senza prove i dipendenti, onorate gli eroi. Era proprio indispensabile veicolarlo in modi così trucidi?
Viene il sospetto che a quel tempo il sadismo fosse considerato indispensabile all'educazione. Del resto la crudeltà pervade anche quella libera, aerea fiaba pubblicata a puntate nel «Giornale per i bambini» e improvvisata di volta in volta, che è il Pinocchio di Collodi. Al povero burattino capitano tanti di quei traumi, che c'è da meravigliarsi se alla fine diventa un ragazzino esemplare e non un nevrotico o un delinquente precoce. Quando Collodi si provò nel genere intenzionalmente pedagogico, come col Giannettino, riuscì sadico su un altro versante, quello della noia. Meglio per un bambino incontrare il terribile burattinaio Mangiafoco che quello stucchevole e logorroico divulgatore di nozioni elementari che è il dottor Boccadoro.
La vita familiare non fu facile per De Amicis, se crediamo all'aneddotica di Leopoldo Barboni (Geni e capi ameni dell'Ottocento, 1911). La vicenda iniziale dei suo matrimonio pare tratta da un suo racconto, e dei più patetici: una giovane lettrice gli scrisse, dicendosi malata senza speranza e desiderosa di baciar la mano, prima di morire, allo scrittore che più ammirava. Edmondo accorse al capezzale della fanciulla che presto si riprese e un anno dopo diventava sua moglie; ma fu una unione infelice, funestata da liti e umiliazioni. Nel 1898 gli morì ottantenne l'amatissima madre, celebrata in una poesia sacra alle antologie scolastiche («Non sempre il tempo la beltà cancella,/ o la sfìoran le lacrime e gli affanni;/ mia madre ha sessant’anni, / e più la guardo e più mi sembra bella»); poco tempo dopo si toglieva la vita il figlio primogenito Furio che portava, forse non a caso, il nome dei protagonista di un lontano racconto crudele. Abbandonato anche dalla moglie, il «poeta della famiglia» moriva nel 1908 a Bordighera, in una camera d'albergo.
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