Nel rapporto al Quinto Congresso del Pci, il 29 dicembre del 1945, Palmiro Togliatti inserisce, là dove prende a parlare dei problemi della politica estera, una piccola lezione di «Geopolitica». Spiega che, «in genere, le ideologie non vengono prese in considerazione quando si tratta della politica estera».
E chiarisce «che l'Italia deve fare una politica di amicizia verso l'Unione sovietica non per motivi ideologici», bensì «per motivi nazionali, e per tenere fede a una tradizione di difesa dei nostri interessi». La grande figura della storia d'Italia che aleggia nel suo discorso è Cavour: Cavour che persegue il fine dell'unificazione (sabauda) della penisola giocando la carta francese ma non solo quella. Rievoca il tradizionale favore della politica russa (zarista) per l’unificazione d’Italia, in evidente collisione con l’opposta politica austriaca ed in funzione anti-austriaca. Ticorda la nota di Gorciakov all’Austria nel 1859, che avallava le annessioni al regno sardo degli stati dell’Italia centrale, e l’ammassarsi di truppe russe al confine con l'Austria, dopo Villafranca, quando il disimpegno francese metteva il Regno di Piemonte in una posizione assai delicata e fragile nei confronti dell'impero austriaco. E conclude: «Questi sono fatti che dobbiamo tenere presenti perché indicano non correlazioni ideologiche, ma coincidenze d'interessi e posizioni nazionali che nella storia tendono a ritornare ». (Opere scelte a cura di G.P. Santomassimo, Editori Riuniti, pp. 432).
Il problema di Trieste
In quell'importante Rapporto al Congresso, Togliatti pone costantemente l'accento sugli «interessi nazionali» dell'Italia e rende omaggio a De Gasperi, «il quale - dice - per la prima volta, nelle recenti dichiarazioni di politica estera, ha chiaramente detto che uno degli obiettivi della nostra politica nazionale è quello di riacquistare la facoltà di regolare noi stessi i nostri scambi con l'estero, di discutere liberamente del finanziamento eventuale estero delle nostre industrie e di trattare liberamente con tutti i paesi le condizioni della nostra emigrazione».
E poiché in quei mesi uno dei problemi più spinosi, in particolare per il Pci, in ragione dei rapporti «di partito» con la Jugoslavia di Tito, era quello di Trieste, Togliatti non esita ad indirizzare una vigorosa reprimenda, appena camuffata con toni diplomatici, ai comunisti triestini inclini all'annessione di Trieste alla Jugoslavia: «L'appartenenza di Trieste all'Italia è considerata dalla maggioranza - così si esprime - come una questione vitale per la nazione. La classe operaia non può pensare di risolvere la questione della vittoria della democrazia e nemmeno quello della vittoria del socialismo staccandosi dalla comunità nazionale». E conclude sarcastico: «Non si rende democratico un paese così come si mangia un carciofo, staccandone una foglia dopo l'altra per aggregarla ad una comunità più democratica».
Antifascismo come fondamento della nuova Italia, democrazia progressiva come orizzonte, mantenimento dell’alleanza tra le forze popolari artefici della caduta del fascismo, politica estera di amicizia verso Occidentali e verso Sovietici, nessuna politica «di blocco». Questo è il Togliatti del '45-'46, ma ancora dei primi del '47, quando è la scelta americana fatta propria da De Gasperi ad allontanare le sinistre dal governo italiano: avvio della guerra fredda. (Non va dimenticata la cronologia elementare: la cacciata delle sinistre precede il «colpo» di Praga, così come la nascita della Repubblica Federale Tedesca - iniziativa unilaterale e di rottura - precede la nascita del Ddr, così come la Nato nasce svariati anni prima del Patto di Varsavia).
Tra Urss e Usa
Che l'orientamento del Pci di quegli anni fosse appunto nella direzione di una equidistanza, in politica estera, tra Anglo-americani e Sovietici, non viene ricordato molto spesso. Eppure è un dato di notevole rilevanza storica. Su di un piano diverso da quello di partito, si pone in quegli stessi anni ed è sintomatica del personaggio, la riflessione di Bianchi Bandinelli, direttore del Gramsci e intellettuale di punta del «partito nuovo». E’ una pagina del '47 pubblicata nel Diario d'un borghese (Mondadori 1948), dove l'accento di Bianchi Bandinelli è fortemente «europeistico», o per meglio dire allarmato per i destini dell'Europa, stretta tra Usa e Urss: «I due organismi che la stringono da Oriente e da Occidente, nei quali sono andate sviluppandosi due concezioni di vita diverse da quelle tradizionali dell'Europa» (cito dalla seconda edizione, Saggiatore 1962, p.216). Questo progetto fu sconfitto dalla guerra fredda, dovuta in primo luogo al prevalere in Occidente delle forze che consideravano strumentale l'alleanza anti-tedesca con l'Urss: Truman che modifica radicalmente la strategia rooseveltiana.
Il saggio recente di Roberto Gualtieri (Togliatti e la politica estera italiana, Dalla Resistenza al Trattato di pace, 1943-1947, Editori Riuniti) tratta appunto di quegli anni cruciali, in cui gli esiti possibili erano assai diversificati e per nulla predeterminati. Questo libro ha il merito di non accordarsi al cretineto antitogliattiano, esploso in Italia con particolare virulenza al tempo di Craxi e dei suoi scrivani, ma proseguito più o meno stancamente in questi ultimi anni, pur dopo la catastrofe del craxismo.
Teatro di questo cretineto sono in genere i cosiddetti «grandi quotidiani», dove il giornalismo para-intellettuale celebra i suoi fasti di pressappochismo e di ignoranza. Dal saggio di Gualtieri - i cui tre temi principali sono la «svolta di Salerno», la questione di Trieste e il Trattato di pace - emerge, com'è giusto, un Togliatti interlocutore attivo di Stalin: interlocutore alla pari, che, per esempio sulle questioni italiane, porta al successo la propria veduta e, fino a che le circostanze politiche internazionali lo consentirono, la propria strategia.
Il mito della doppiezza
A dir vero alcuni momenti che Gualtieri illustra con competenza e documentazione erano già emersi nella giusta luce dalla biografia dedicata a Togliatti da Bocca (Laterza 1973), un libro che allora fece indignare i tutori dell'ortodossia e parve colpevole di «lesa maestà» (gran parte di costoro si è poi accodata al mediocre occhettismo), mentre invece a distanza di anni appare come un monumento all'intelligenza politica di Togliatti.
Nella prefazione al saggio di Gualtieri, Procacci fa una giusta osservazione: questo libro disfa alla radice il mito della doppiezza togliattiana (democratico-nazionale in politica interna, filosovietico in politica estera). Osserva anche, con intento critico, che l'orizzonte nazionale di Togliatti prescindeva dalla grande novità del secolo: l'interdipendenza di tutti da tutti. Forse c'è troppo "senno di poi» in questa critica. Basti pensare che quelli erano gli anni di ferrei nazionalisti come Churchill e De Gaulle. L'equidistanza togliattiana era ben più lungimirante.
“il manifesto”, 21 dicembre 1995
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