"E' la verità ch'io ho fatto l'amore, ma però amore sforzato che per conto d'amore volontario non l'havrei fatto con il re di Spagna...".
Con queste parole si apre la confessione della "monaca di Monza", al secolo Virginia Maria de Leyva, davanti al vicario criminale della curia arcivescovile di Milano. E' il 22 dicembre 1607.
Due mesi dopo, il suo amante Gian Paolo Osio verrà deferito al tribunale per rispondere di tre tentati omicidi, di un assassinio e di altri misfatti da lui compiuti per tappar la bocca ai testimoni più scomodi della sua "sacrilega relazione" con la suora: riuscito a sfuggire alla forca, finirà ammazzato a tradimento, qualche anno dopo in data imprecisata, per mano di un amico presso il quale aveva pensato di trovar scampo.
La vicenda si concluderà tuttavia soltanto nel dicembre 1622, quando suor Virginia Maria uscirà infine, dopo tredici anni, dalla cella di un monastero, larga tre braccia e lunga cinque, in cui era stata murata viva a seguito di una sentenza firmata dal cardinal Federico Borromeo. L'incontro fatale con l'Osio era avvenuto in una giornata dell'ottobre 1597. Bel giovane, ricco e ozioso, Gian Paolo abitava in una casa "da nobile" contigua al monastero di Santa Margherita. Passava per "amico del convento", che si serviva spesso dei suoi domestici per le proprie commissioni e se lo teneva buono per le sue amicizie altolocate. Non si trattò tuttavia del classico colpo di fulmine: anzi, all'inizio, suor Virginia Maria si era mostrata inflessibile nel redarguire con "un gran rebuffo" Gian Paolo, sorpreso a insidiare una giovanissima educanda a lei affidata e nel tener ferma la denuncia contro di lui, accusato dell'assassinio di uno dei suoi procuratori.
Nemmeno quando, dopo averlo perdonato, se l'era trovato davanti un anno dopo, con la vigile compiacenza di alcune suore, le cose erano andate lisce. Suor Virginia Maria non disdegnò di farsi vedere alla finestra, di salutarlo, di scambiare con lui lettere e doni; ma poi, più che l'assiduo corteggiamento di Gian Paolo, fu un vero e proprio stupro ("sopra il basello della prima porta", dirà la monaca ai giudici, "esso Osio mi violentò gettandomi per terra, e nonostante ch'io critassi e dicessi ah traditore, ah traditore hebbe comertio contro di me...") a trascinare suor Virginia Maria in una controversa avventura amorosa, turbata (oltre che da un aborto e dalla nascita di una bambina illegittima) da continue crisi di coscienza e remore morali, che la portarono spesso a lunghe interruzioni degli incontri senza peraltro riuscire a troncare definitivamente il rapporto.
Di questo fosco dramma aveva già parlato Giuseppe Ripamonti nelle sue Historiae patriae, edite a Milano tra il 1641 e il 1643 (quando la monaca di Monza era ancora in vita), senza tuttavia rivelare né il nome del casato, né quello del luogo in cui si erano svolti i fatti. Fu poi il Manzoni, come si sa, a dare definitivamente notorietà alla perversa storia d'amore di Virginia Maria e di Gian Paolo (trasfigurata nei personaggi di Gertrude e di Egidio e posticipata al periodo 1628-1630), prima nel Fermo e Lucia, poi in alcune sorvegliatissime pagine dei Promessi sposi.
Con una premessa di Giancarlo Vigorelli (che sottolinea come la figura della monaca di Monza sia stata vissuta dal Manzoni con un "amore apprensivo", fatto d'attrazione, di sottrazione, di giustificazione) appaiono ora gli Atti originali del processo, dopo che ne è stata finalmente autorizzata la pubblicazione in edizione integrale, accuratamente annotati e commentati da diversi specialisti (Vita e processo di Suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza, Garzanti, pagg. 956, lire 48.000). Dopo le numerose e svariate versioni - monche, romanzate o sommarie - che si sono susseguite fin qui, possiamo perciò finalmente disporre di una trascrizione fedele e filologicamente corretta di tutti gli incartamenti giudiziari.
Da questa massa di documenti esce fuori un racconto di grande efficacia e immediatezza. Sono infatti gli stessi protagonisti e comprimari a narrare passo per passo tutta la storia. E le loro testimonianze si intrecciano con le argomentazioni degli inquisitori, con le deposizioni di patrizi e di notabili, di mercenari e di servi infidi, di preti e di monache, ma anche con le impressioni di semplici contadini e paesani: sino a disegnare lo scenario multiforme di una intera società sul finire del Cinquecento.
D'altronde Virginia Maria de Leyva non era una semplice suora. Era la figlia di uno dei membri più autorevoli dell' aristocrazia spagnola, signore del borgo monzese e di altre terre; e nei suoi primi anni di vita in convento, aveva esercitato a pieno titolo, in assenza del padre, i diritti feudali che le competevano. Questa sua condizione privilegiata, propria della casata cui apparteneva, continuerà a giocare una parte rilevante anche in seguito, quando sul capo di suor Virginia Maria si addenserano i primi sospetti. Chi in paese sapeva della sua relazione amorosa preferì starsene zitto, per timore di una vendetta; né dal convento, fin quando le cose non precipitarono in seguito ai delitti perpetrati dall' Osio, uscì una sola parola sull' argomento.
E' significativo, del resto, come l'educazione aristocratica e l'orgoglio del suo rango avessero portato la monaca-feudataria di Monza, dopo essere stata violentata da Gian Paolo, a cercare di difendere la propria verginità gridandogli in faccia: "racordatevi chi sono io". Eppure la de Leyva fu una vittima sventurata, più che una sciagurata colpevole di questo torbido intrigo. Lo fu, prima di tutto, del padre che, volendola derubare dell'eredità materna, l'aveva chiusa in un convento; e poi di quanti, accogliendola a undici anni perché studiasse da novizia, l'avevano irretita sollecitandola a pronunciare i voti in vista dei benefici che potevano trarre dal possesso della sua "dote spirituale".
Ma il dispotismo paterno e la violenza subdola dei superiori ecclesiastici di Virginia Maria non furono che il prologo di una ben più lunga sequenza di inganni, di sopraffazioni e di viscide ipocrisie.
Milano, Palazzo Marino. Vi nacque Marianna di Leyva, poi suor Virginia, la cui madre era appunto una Marino. |
A quell'epoca, la barbara usanza di chiudere le figlie in un chiostro (così come la connivenza del clero con questo genere di pratiche) era tanto diffusa da non destare scandalo alcuno, a parte qualche condanna formale della Chiesa. D'altra parte, per rendere meno opprimente e tediosa la vita delle infelici recluse, votate loro malgrado a indossare l'abito religioso, era tacitamente tollerato che esse si prendessero qualche svago, con la complicità degli stessi parenti, che in tal modo pensavano di tacitare la propria coscienza. Sicché, sia pur tra artifizi e sotterfugi disdicevoli per le monache "vere", non era affatto infrequente che tra le mura dei conventi si tenessero degli autentici festini, o che si lasciasse sfogo ai temperamenti sessualmente più esuberanti: tant'è vero che di alcuni monasteri si parlava, con cognizione di causa, come di "pubblici postriboli" o di luoghi dediti più alla mondanità che alla preghiera e all' astinenza (ma c'era anche chi si rivoltava contro l'assurdità delle monacazioni forzate: "in questo chiostro, in cui devo morire / morirò sì, ma chiamerò vendetta / quando giunto sarai al punto estremo / barbaro genitor, per dare i conti / saprò ben dire al Giudice supremo / lungi lungi Signor la tua pietade / che non merita pietà che tanto è fiero / chi di coltel ferisce, anch' ei ne cade": così recitava il dolente lamento di una monaca, costretta a prendere il velo al convento milanese di Santa Radegonda).
Insomma, per quanto odiosa fosse la condizione delle poverette recluse in un convento contro il loro volere, il caso della monaca di Monza non avrebbe avuto una così grande risonanza se tutto si fosse esaurito nelle tribolazioni dovute a una monacazione forzata. A farne una vicenda emblematica dello spirito e dei costumi del tempo fu piuttosto la trafila di pressioni e di soperchierie che suor Virginia Maria subì quando cercò di trovare una via di uscita alla sua esperienza, tormentata e combattuta com'era fra una ardente passione amorosa e una mai sopita coscienza del peccato. Giacché la poveretta si trovò a che fare con la violenza morbosa delle altre monache e con quella gaglioffa dei conniventi dell'Osio, con la violenza brutale dell' inquisitore (che non esitò a farla torturare), e infine con la violenza spirituale, ma non meno implacabile, dell'autorità ecclesiastica: che, dopo averla segregata in una fetida cella per tanti lunghi anni, giunse a negarle per parecchio tempo il conforto di una possibile "redenzione" sia pur attraverso le prove più ingrate dell'umiliazione e della penitenza.
Più volte suor Virginia Maria, benchè "cruciata al cuore", s'era sforzata di togliersi di dosso quello che a suo dire era un "ammaliamento malefico", quasi una possessione diabolica; ma non era riuscita a liberarsi della sua "afettione"; e così, dopo il primo "tempestoso" incontro con l'Osio, era tornata ad avere "comertio carnale con lui più e più volte che non so dire quante". Riferirà una delle due suore prestatesi a far da complici: "la notte di s. Steffano cominciò esso Osio entrar dentro al monastero et andò con suor Virginia Maria nella sua camera et cominciò a dormire con lei in un letto, et suor Benedetta et io dormevamo in un altro letto, et così restò gravida di lui quale dormeva una o due volte la settimana se ben alcuna volta stava una settimana, quendeci giorni et anco un mese mentre stava a Milano, e continuava anco di venir da suor Virginia Maria sendo lei gravida...". Dopo il parto di un "putto morto" avvenuto nel 1602, che le aveva procurato uno stato di profonda prostrazione ("per il grande dolore ch'io ho avuto cascai in infirmità et febre che mi durò tre anni"), suor Virginia Maria, lacerata fra la "fascinatione" e la "ripulsa", era ricorsa a tutti gli esorcismi possibili, persino alla coprofagia, per liberarsi dal "male d' amore" e "salvar l'anima" ("e perchè havevo inteso che magnandosi del sterco di colui che si amava tre volte... sarebbe venuto in odio io perciò ne magnai tre volte col fidigo e con delle cepolle...").
D'altra parte, a tenerla avvinta a Gian Paolo s'era messo di mezzo anche un prete, Paolo Arrigone, che, anzichè cercar di sottrarre i due amanti alla loro passione, se ne fece il mandante prima ancora che il complice (ispirando egli stesso le lettere galeotte che Gian Paolo inviava a Virginia Maria) e che, al colmo della bassezza, si fece poi avanti per sostituire il suo pupillo ("e detto prete Paolo... si scoperse meco che lui era inamorato di me e dessiderava di fare l'amore meco"). Salvo poi, nel corso del processo, a negare ogni addebito cavandosela così a buon mercato, grazie anche al riguardo usatogli per l'abito talare che tanto indegnamente aveva portato.
La relazione fra suor Virginia Maria e Gian Paolo si interruppe definitivamente nel 1607, quando i delitti commessi dall'Osio per impedire che della tresca fosse informata la Curia, infransero una volta per tutte il muro dell'omertà, scatenando "livore e malignità". A farne per prima le spese fu la monaca di Monza, prelevata nottetempo dal suo monastero (dopo che aveva cercato di ribellarsi e che, brandendo una spada, aveva minacciato financo di uccidersi) e rinchiusa nelle segrete di un convento milanese destinato alle monache colpevoli di reati gravi e alle prostitute convertite. Qui, sottoposta a tortura, suor Virginia Maria cercò di difendersi disperatamente, non già rinnegando la "mala pratica", ma attribuendola agli incanti e alle malie, rievocando lo sconforto e le angosce di cui era stata continuamente preda, elencando tutti i tentativi che aveva messo in atto per troncare la relazione con Gian Paolo.
E quando nel 1622, verrà abbattuto il muro della cella in cui era stata gettata, non ne uscì una creatura fragile e smarrita, benché segnata profondamente nel corpo tanto da essere irriconoscibile dalla bella donna di un tempo. Suor Virginia Maria ebbe ancora la forza di invocare e di ottenere infine un colloquio con il cardinal Federico per proporre essa stessa il suo successivo itinerario di espiazione e di contrizione: lei che, dopo lo scandalo, i familiari s'erano affrettati a cancellare dall'albo del casato, quasi che non fosse mai nata; lei che, già "tanto potente", al primo incontro col Borromeo dopo la prigionia s'era sentita apostrofare come "una femmina miserabile" e "indegna di stare sulla terra, degna piuttosto di ogni supplizio, degna di essere rinchiusa tra due pareti, finché sei viva, come pure di essere sepolta all'inferno una volta morta".
“la Repubblica”, 30 ottobre 1985
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