2.7.13

Lidia De Federicis e i dilemmi del raccontarsi (Massimo Onofri)


Lidia De Federicis
Una riflessione su che cosa significa «raccontare»? O, più semplicemente, qualcosa che ha a che fare, e in chissà che modo, con l'arte del racconto? Del raccontare, in effetti, s'intitola l'ultimo libro di Lidia De Federicis edito da Manni (pp. 80, euro 8,00): né il sottotitolo, Saggi affettivi, ci aiuta a scioglierne le ambiguità, semmai si aggiunge per accrescerle, oltre a dichiarare l'angolazione dalla quale si è scelto di parlare, quella di «una soggettiva verità».
Lidia De Federicis è stata tra i fondatori d'una rivista, «L'Indice dei libri del mese», che proprio ora ha compiuto vent'anni, e si è occupata da sempre, in proprio ma anche per delega ai tanti collaboratori, di letteratura italiana, soprattutto recentissima. Ma ha anche alle spalle una lunga esperienza nella scuola pubblica dove ha insegnato, quasi da subito al Gobetti di Torino, per più d'un quarto di secolo. Da questo suo doppio e precoce ruolo di insegnante e critico (la prima recensione fu nel 1956, su «Lettere italiane») è venuto fuori, in collaborazione con Remo Ceserani, quell'impresa editoriale che è Il materiale e l'immaginario, che ha contribuito a cambiare, piaccia o no, la didattica della letteratura nelle nostre scuole. Quando la si riconduce con troppo zelo - e accade non di rado - a questa cifra pedagogica, Lidia De Federicis mostra insofferenza. E non ha torto: quella del Materiale e l'immaginario è una vicenda ormai conclusa, così come è finito per sempre un ciclo decisivo della scuola italiana, legato alle speranze di un fervoroso riformismo, a una bella utopia, tutta giocata sulla scommessa d'una vera democratizzazione della società italiana. Si trattava di un'Italia che si fa fatica, oggi, a credere che sia esistita, quella che, per la De Federicis, rispondeva ai nomi di Francesco De Bartolomeis e l'antipedagogia, di Elvio Fachinelli e la psicoanalisi antiautoritaria, di Giovanni Arpino (con cui la De Federicis ha scritto un Novecento) e Albino Galvano, di Tullia Carrettoni, carismatica dirigente del Psi torinese.
La storia di Lidia De Federicis oggi è un'altra e questo libro magrissimo e veloce lo testimonia: un libro spalancato su problemi di non poco conto e non eludibili per chiunque abbia chiara (e a cuore) la situazione della nostra contemporaneità letteraria: poco importa che i narratori italiani coevi, magari i famosi e accreditati campioni del giallo e del noir, non si pongano nemmeno lontanamente questi problemi, piuttosto regredendo a strutture e a situazioni pacificanti (in modo, così, da eludere il conflitto sociale), proponendo una letteratura consolatoria e di risarcimenti che dissimuli il disordine.
I problemi veri, De Federicis lo sa, sono altri: chi è che scrive, quando scrive per un pubblico? E per cosa scrive? Quali garanzie può offrire al lettore, una volta che il patto di credulità stipulato con gli autori è andato, conflagrante il `900, completamente in frantumi, e, davvero, non si può più far finta di niente. Si direbbe che, come molti degli scrittori italiani qui rubricati (dalla Ramondino de L'isola riflessa alla Rasy di Tra noi due, dal Carraro di Non c'è più tempo al Trevi de I cani del nulla), la De Federicis non voglia garantire nulla del proprio racconto, se non attraverso la sua vita e il suo corpo, e grazie alla memoria, credibile, appunto, proprio perché singolare e irripetibile, non replicabile.
«Se davvero, e si è detto, alla fine del Novecento, dopo due secoli di confessioni e autobiografie, l'io è come un genere, il problema sarà quale genere farne, ora che va finendo il novecentesco romanzo dell'io. Il problema è biografico, situarsi e raccontarsi nella mutazione culturale. Tenersi ai limiti dell'io e tuttavia percepire il carattere illimitato, asistematico, della nostra contemporaneità». Sono parole dalle quali si capisce bene che questo libro non sarebbe nato se non trovando il giusto tono di voce: che è, anch'esso, problema cruciale, abbracciando tutte quelle forme di scrittura non solo autobiografica che, solo per pigrizia critica, continuiamo a chiamare saggistica.
Problema cruciale, tanto più per Lidia De Federicis, che s'è trovata ad accordare, a un io prosodico, una vita plurale: critico militante e recensore, saggista, professoressa e, integralmente calata nella storia delle donne, con laico disincanto ma sacrosanta partigianeria, si è impegnata a raccontare la propria vita anche attraverso i libri, e a pensarli, ripassandoli, anche in forza delle esperienze che la vita imponeva. L'ha trovato, quel tono di voce, incontrando qualche anno fa la «sottorubrichetta a intervalli liberi» di «Belfagor»: Minima personalia, appunto, che è il suo modo, un po' all'inglese (ma senza filarsela), di dire delle faccende massime col minimo di retorica possibile. Ecco perché, come la Morante, la De Federicis pare credere che non possa darsi romanzo degno che non si confronti con «le cose ultime»: giusto, allora, il rilievo dato a un libro misterioso, Dava fine alla tremenda notte, della più misteriosa delle nostre scrittrici, Marosia Castaldi. L'extratesto, ecco il punto, qui vince sempre sul testo. Come potrebbe essere altrimenti: «La letteratura può riuscire insopportabile, rispetto al `corpo di un essere vivente che combatte con la morte'».

"il manifesto", 30 aprile 2005

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