Da un articolo intitolato Firmato Kafka recupero la parte finale. (S.LL.)
Primeggia, per la bellezza della collana, il nome del curatore (Ferruccio Masini), la mole non piccola di materiale nuovo, il volume dei Meridiani che raccoglie le Lettere (Mondadori, pagg. 1224, lire 45.000), non incluse naturalmente quelle a Felice Bauer, la pluri-fidanzata alla fine lasciata cadere, che hanno già costituito un altro Meridiano del 1972.
Si vorrebbe dire che Kafka è epistolografo tra i massimi dell'umanità. Ma viene subito da ridere, quasi avessimo affermato che Kafka godeva a scrivere bellissimi messaggi epistolari pensando alle antologie scolastiche del futuro. Kafka invece fu scrittore di lettere invasato, maniaco. Usava la lettera senza credere al messaggio, alla comunicazione, sapendo benissimo di scrivere solo a fantasmi della nostalgia, di moltiplicare le incomprensioni e i fraintendimenti, di torturare e avvilire se stesso, di denudarsi fino alla vergogna ma col risultato di scomparire sempre più dentro una cortina fumogena. La lettera, per Kafka, era assai di rado un modo di apprendere e trasmettere notizie. Ben più spesso era uno strumento di tortura e di depistamento che si rivolgeva soprattutto contro se stesso e provocava disastri, gaffes, giochi d'un surrealismo che svaria tra il cinese-grazioso e l'atroce, tra l'intellettualistico-cavilloso e il trasparente, ma di una trasparenza così elementare da sfiorare il sublime. Dio ci scampi dal corrispondere mai con un epistolografo come questo. Ma, se abbiamo nervi saldi e curiosità di conoscere la vita anche sulle vette e negli abissi, ben venga un Kafka che ci scriva lettere: se di lettere, oggigiorno, se ne scrivessero ancora, e di Kafka, anche in formato ridotto, ce ne fossero altri. La lunga introduzione di Masini, densa come tanti suoi scritti precedenti, ma ora illuminata da molta levità di espressione, sarà utile guida. Non è più tra noi (è morto nel 1978) il filosofo e critico Remo Cantoni, che ci immette con una vecchia ma non datata introduzione ai Diari di Kafka, rilanciati anch' essi negli Oscar Mondadori (pagg. 648, lire 12.000). Ervino Pocar, che aveva tradotto gran parte delle lettere, ha tradotto anche questi appunti privati. Cantoni, approdato all'esistenzialismo e poi all'antropologia sempre in chiave scettico-critica (ma non fu mai una scepsi immota e sogghignante, anzi fervidamente in collaborazione con la vita) bada a depurare Kafka da ideologismi sia religiosi che politici, enucleando un pensatore immerso nel negativo, nel nichilismo, nell' assurdo. Vero anche questo, ma non del tutto, come sempre quando è in ballo Kafka. Il quale ideologo non fu mai, ma con aspirazioni segrete che difficilmente si lasciano captare in maniera univoca, anche nella direzione che Cantoni sembra considerare l'unica vera. Il giovane lettore al quale pensiamo in quest' articolo, faccia lui, leggendo questo giornale di bordo d' una navigazione tra le più travagliate del nostro secolo. La lucidità con cui Kafka sorveglia se stesso (e quella parte di mondo che lo interessa) col suo occhio-laser, è forse senza esempio e, come tutte le cose eccessive, ha del mostruoso. E' vietato dagli dèi, si vorrebbe pensare, autoanalizzarsi così, sondarsi e vivisezionarsi a questo modo, per di più con un continuo scarto stilistico e metaforico che, se rende anche il più fuggevole appunto kafkiano una gemma letteraria, dà tuttavia l' impressione che accuse e osservazioni, idee e sentimenti non combacino mai con la realtà ma si muovano nel limbo gelido e infocato dalle visioni oniriche, dei fantasmi suscitati dalla febbre o dall' uso della droga. Kafka si rappresenta mille volte come sciocco, goffo, egoista, cattivo, quasi infame, in questi suoi diari. Ma quanto più sciocchi, goffi, egoisti, cattivi, decisamente infami fa anche apparire noi lettori, questo maestro nel colpevolizzare anche coloro che ama o che non sa nemmeno che esistano, come noi lettori odierni. A questo punto non ci resta che augurarci che la giovanissima lettrice, il giovanissimo lettore, addentratisi nelle opere critico-biografiche su Kafka o nel Kafka, diciamo così, non narrativo delle Lettere e dei Diari, non abbia sentito spavento di fronte a un uomo, a un mondo che è che come una tana di talpa tutta foderata di specchi e da cui partono dolorose scosse elettriche. Lo spero perché, a questo punto, può affrontare il Kafka narratore de Il processo (Oscar Mondadori, pagg. 220, lire 7.500, nella vecchia e sana traduzione di Ervino Pocar; ma chi ci prende gusto legga anche due traduzioni d'autore: quella di Giorgio Zampa edita da Adelphi e quella di Primo Levi pubblicata da Einaudi). Che cosa succede, se questi lettori verdi affrontano Il processo? Succede, a parer mio, che hanno una grandissima sorpresa. Grandissima e piacevole. Quella cioè di non trovarsi di fronte un autore respingente, come forse avranno pensato leggendo i pur preziosi libri su elencati, ma al contrario un romanziere che, pur impastato tutto di mistero e di ambiguità, di disperanti fughe e di irraggiungibili miraggi, è però anche un narratore così stilisticamente pulito, un così funzionale costruttore di trame, un proiettore di immagini e di scene così icasticamente rilevate e vivaci (pur nella loro alonatura straniante) da darti l' impressione di un viaggio tutto in riposante discesa, dopo tante salite erte e scorbutiche della narrativa di oggi. Ma attenti all' insidia di questi narratori trasparenti, diciamo classici. Anche Manzoni, Stendhal, Calvino, Junger, Sciascia, visto che non fanno giochi d' avanguardia col linguaggio, sembrano chiari e aproblematici. Ma poi ti accorgi che sono erbe amare, altro che i piccoli Joyce e i minuscoli Beckett di allevamento! Kafka resta Kafka, cioè una noce di ferro, da aprire solo con denti di acciaio. Ma nei romanzi e nei racconti, a tutta prima, lo diresti una noce di marzapane.
“la Repubblica”, 13 aprile 1988
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