24.7.13

I Re Magi e il trionfo sul "diverso" (di Alfonso Maria di Nola)

Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, Galleria degli Uffizi, Firenze
Il progressivo sparire del focolare come centro della casa, anche nei territori contadini, aveva cancellato l'Epifania prima ancora che lo facesse ufficialmente il calendario. Non vi sono più camini e la calza non può essere appesa intorno a fuochi inesistenti, o soltanto immaginari. Eppure si trattava di una delle feste più antiche e significative, che aveva trasferito nel cristianesimo una mitologia pagana; un manifestarsi annuale di Apollo si celebrava in Grecia, ed epifania era detto il rituale di ingresso dei re e dei principi nelle città: quasi un rivelarsi, in tutto il suo fasto, della potenza terrena.
Nel cristianesimo, ai remoti significati si era sovrapposto il riferimento ai bambini che attendono i doni; e ciò era avvenuto attraverso ignoti tramiti culturali, forse una ripetizione mediterranea della Santa Klaus nordica, o la coincidenza morti-doni (i morti tornano, all'Epifania, nelle loro tombe; e in Sicilia si usa ancora offrire ai bambini dolci di pasta di mandorla in forma di ossa e di scheletri), o la prossimità temporale alla festa dei santi innocenti, viva ancora fino al XVI secolo, nel corso della quale aveva ruolo centrale il « ludus puerorum », il gioco degli impuberi e dei folli, che dominavano per alcuni giorni i borghi e le città.
Ma l'Epifania evangelica è altra cosa: è la stessa nascita di Gesù al mondo, il connotarsi eccezionale di un bambino che, poco dopo, nella narrazione neo-testamentaria, è destinato al silenzio di lunghi anni velati dal mistero e dall'ignoto. Nel testo di Matteo, unico a registrare l'evento, i Magi, non tre e non re, sono astrologi di una remota terra caldaica che, seguendo un itinerario geograficamente inattendibile, guidati da una cometa, giungono presso l'infante a distanza di due anni dalla sua nascita; e all'infante offrono l'incenso, l'oro e la mirra che, nella posteriore interpretazione, significano la divinità, la regalità e la mortale umanità del neonato.
Su questa scarna informazione di Matteo, i secoli del Medioevo hanno intessuto una storia opulenta di meraviglie e di prodigi, la quale culmina — influendo sull'iconografia, sul teatro sacro e sulla liturgia — in quella straordinaria narrazione della Historia Trium Regum, composta nel XIV secolo da Giovanni da Hildesheim. Era costui un monaco carmelitano che, nelle tormentate vicende della sua esistenza, aveva tenuto cattedra all'università di Parigi nel 1358, subendo certamente gli assalti e le contestazioni degli autonomi e degli indiani metropolitani dell'epoca: dei ragazzi, cioè, che, secondo il Cartulario dell'università parigina, si portavano nelle aule, di notte, « meretrici e donne immonde », lasciando fin sulle cattedre i segni delle loro gesta amorose. La Historia, sintesi di disperse tradizioni, fu riscoperta all'Europa da Goethe che, leggendone un manoscritto, la considerava «tracciata da un pennello festoso».
Nel V secolo (in un'opera siriaca, il Libro della Caverna dei tesori) i Magi evangelici si presentano per la prima volta come re e assumono i nomi di Hormidz, sovrano di Persia, Kazdegerd, principe di Saba, e Peroz, re di Seba. Visitato il neonato, fanno ritorno ai loro paesi per la via del deserto. Ma in uno scritto difficilmente databile, 1'Opus imperfectum in Matthaeum, diventano dodici astromanti   che scrutano il cielo su una montagna mitica, il Vaus, in un Oriente immaginario e indeterminato, e giungono, sempre dopo un viaggio durato due anni, alla grotta, senza che le loro vettovaglie vengano mai a mancare. Tornati alle loro terre, iniziano la predicazione delle meraviglie viste e si uniscono infine all'apostolo Tomaso, giunto in India a predicare l'evangelo, dopo la ascensione del Signore.
Vi è un momento di sviluppo della leggenda che trasferisce le imprese dei personaggi evangelici nell'Iran, abbandonando l'originario territorio caldaico. Nella Cronaca di Zuqnin (VIII sec.), i Magi riappaiono in numero di dodici, sono re e saggi e abitano la regione di Syr «la quale è fuori di tutto l'oriente abitato... dove dimorava il grande Adamo». Sanno dell'avvento di Gesù da un Libro dei Misteri Occulti, redatto da Seth, uno degli uomini delle prime generazioni bibliche. Arrivano a Gerusalemme in primavera, e a Betlehem depongono le loro corone ai piedi del bambino, offrendogli i «tesori nascosti». Il bambino li incarica di illuminare l'Oriente con l'annunzio dell'evangelo.
Nell'opera di Hildesheim, questa ed altre linee tradizionali si fondono in una narrazione unitaria connessa ai sincretismi irano-caldaici e alla recente cronaca dell'invasione tartara. I Magi, tornando ai loro regni orientali, avrebbero dato origine a dinastie regali e sacerdotali che dominano le tre Indie della geografia medioevale. Consacrati vescovi, , avrebbero predicato il cristianesimo presso altri popoli, scoprendo nelle religioni della Cina, della Persia e dell'Etiopia le prefigurazioni dell'annunzio evangelico. Le reliquie dei loro corpi, trasportate, per intervento di Elena, madre di Costantino, prima a Milano, nella chiesa di sant'Eustorgio, poi a Colonia, provocano l'invasione dei Tartari che si muovono dalle steppe della Cina settentrionale per riappropriarsi dei corpi dei loro antenati: ingenuo modo per spiegarsi un evento conturbante di storia che si presentava, nel XIII secolo, come apocalissi imminente.
In fondo, questa strana storia dei Magi, cui abbiamo fatto appena cenno, caratterizza un momento decisamente negativo della condizione umana. La leggenda ripete in termini mitici la tesi hegeliana della superiorità del cristianesimo come culmine della storia dello Spirito. Iran, Cina, Etiopia, nelle loro diversità, sono giustificati nella misura in cui i loro patrimoni culturali sono interpretabili come preannunzi ed attese di una verità annunciata esclusivamente dal verbo cristiano. I Magi, che convergono per diverse vie alla grotta, sono i testimoni di altre fedi e di altre visioni del mondo, che svaniscono nell'illumina¬ione dell'unica verità.
L'Epifania riafferma, «in nuce», la violenza di un verbo costituito in dettato ineludibile: che è la base evangelica di una emarginazione delle diversità, intese come identificazione storica delle condizioni umane. Così che, dal punto di vista laico, il declino dell'Epifania si configura come un declino dell' etnocentrismo. Non è perdita di valori arcaici, ma cancellazione di miti e tradizioni che hanno per secoli incantato 1' uomo. Più concretamente, è la rinunzia ad una pretesa emarginante che, in un codice mitico, aveva espresso il trionfo del cristianesimo e la frammentazione di ogni diversa fede e cultura.

“la Repubblica”, 6 gennaio 1978

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