28.7.13

Novembre 45. La caduta di Ferruccio Parri, “lo straniero” (Giuseppe Armani)

Nell’articolo di cui qui riprendo un ampio stralcio, Giuseppe Armani, partendo dal romanzo di Carlo Levi che la racconta - L’Orologio - rievoca la caduta del governo Parri, il governo del Vento del Nord costituito nel giugno 1945, subito dopo la Liberazione, nell’intento di esprimere e realizzare la spinta rinnovatrice della Resistenza partigiana.
L’opposizione dichiarata della destra liberale, l’opposizione subdola della Democrazia cristiana, la freddezza del Pci determinarono a fine novembre le dimissioni di Ferruccio Parri. Nel programma e nella prassi del nuovo governo, il primo presieduto da Alcide De Gasperi, alla volontà di rompere con l’assetto oligarchico dello Monarchia sabauda si sostituì quella di ricostruire lo Stato prefascista, spesso recuperando uomini compromessi col Regime e pratiche del tempo fascista.
Si trattò di un’occasione perduta per la quale le responsabilità non sono da riportare principalmente al presunto estremismo del Partito d’Azione, di cui Parri era rappresentante, o all’inadeguatezza del prestigioso capo della Resistenza e neanche soltanto alle forza dei moderati, del ventre molle d’Italia: contò in negativo – e non poco – anche la realpolitik di Togliatti. (S.L.L.)
 
Il presidente Ferruccio Parri a Milano nel settembre 1945
per una mostra dei progetti di ricostruzione della città
Nel settimo capitolo de L'Orologio Levi racconta l'episodio finale dell'esperienza di governo di Ferruccio Parri: la conferenza stampa tenuta al Viminale dal presidente del consiglio dimissionario, la sera del 24 novembre 1945, per spiegare il significato e le responsabilità di una crisi che, estromettendo dal potere l'uomo della Resistenza, apriva una fase involutiva destinata a condizionare per decenni la vita politica italiana.
La conferenza, che si svolse drammaticamente, con toni di denuncia e di appello all'opinione pubblica perché non dimenticasse ciò che stava accadendo e vedesse i pericoli di rinascita fascista che venivano dal "colpo di stato" dei moderati, è, nel libro di Levi, lo sfondo nel quale si colloca l'immagine indimenticabile di Parri, "diverso, come straniero" rispetto agli uomini di partito che lo circondano, un fiore sopra il "letamaio" in cui si erano svolte le trame per allontanarlo.
Parri, in queste pagine, è presentato con intensità straordinaria come l'uomo che parla a nome dei morti della guerra partigiana, l'eroe senza retorica di una storia terribile di sofferenze vissuta dal popolo italiano per ottenere una democrazia e una giustizia mai raggiunte prima del fascismo, il garante di un programma severo di moralità pubblica del tutto ignota alle classi dirigenti. Quel che Parri, ne L'Orologio, sembra dire rivolto all'avvenire, di un'Italia che sta perdendo il senso di ciò che la Resistenza ha rappresentato, e per la quale questa perdita giustificherà il ritorno delle peggiori espressioni del passato, esprime un giudizio sicuro dell'autore, già confermato, quando termina il libro, dal risultato del 18 aprile, e che la storia successiva dimostrerà esatto.
L'immagine di De Gasperi, il "vecchio e navigato serpente" che si alza a parlare quando Parri ha concluso il suo discorso, per tornare sul terreno "sodo e limitato" di una politica non toccata dalle tensioni appena evocate, e quella di Togliatti, i cui occhi brillano "di un piacere ironico" mentre fa "gesti di assenso, perché si deve applaudire alla virtù", ma sa bene che la virtù non è un'"arma pericolosa" e che è "assai facile sbarazzarsene", legano la caduta di Parri all'aprirsi di intese e di inganni, di una politica del contingente, degli interessi, dei calcoli di convenienza, in tutto diversa da quella che Parri aveva rappresentato e tentato inutilmente di realizzare.
La concordanza emblematica che Levi riconosce nel comportamento dei "due illustri capi della destra e della sinistra" nel momento in cui Parri, terminando il suo discorso, compie l'ultimo atto da presidente del consiglio, corrisponde in modo puntuale alla convergenza politica dei due maggiori partiti italiani negli anni in cui avviene la successione del post-fascismo al fascismo e si avvia la riunificazione del paese, diviso dalla guerra. Uno dei frutti di questa convergenza è stata, appunto, la caduta del governo Parri, e non è poca cosa che Levi lo abbia detto, dopo il '48, quando, con la rottura dell'unità dei grandi partiti, da sinistra se ne era ufficialmente attribuita la responsabilità alle forze reazionarie. La fine delle speranze di rinnovamento effettivo della vita italiana che Levi collega alla caduta di Parri si unisce, ne L’Orologio, al disgusto per il riemergere del vecchio stato, al senso di tragedia che gli deriva dalla constatazione del fallimento dei programmi dell'antifascismo e della Resistenza. Ciò che più lo offende — e che pochi denunciano con l'incisività di Levi — è la generale insensibilità manifestata, sia da destra che da sinistra, al richiamo di Parri, e il fatto che i partiti di sinistra non abbiano posto, al riguardo, questioni di principio, ma si siano dedicati alla collaborazione con le forze moderate o più apertamente reazionarie compiendo transazioni inaccettabili.
La ricapitolazione delle vicende del governo Parri, cui rimanda l'editore Einaudi invitando alla lettura di alcuni testi storici e memorialistici citati nella nota introduttiva alla ristampa de L'Orologio, consente di accertare che Levi era nel giusto quando ne scriveva. Costituito all’indomani della liberazione del nord (21 giugno 1945), il governo Parri restò in carica soltanto cinque mesi, ma non fu una semplice parentesi fra il precedente governo Bonomi e il successivo governo De Gasperi. Imposto dalle forze resistenziali coordinate dal Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia, esso fu l'espressione istituzionale della presa del potere da parte delle organizzazioni combattenti antifasciste (del cui comitato militare Parri era stato il coordinatore dal dicembre 1943).
Il dramma di Parri fu che questa presa di potere si realizzò soltanto formalmente, come soluzione transitoria consentita dai partiti di massa in vista della successiva adozione di diverse forme di governo, fondate sulla loro stretta collaborazione e con la presidenza del leader cattolico (secondo una linea di condotta cui Togliatti pensava fin dal 1944, e che richiamerà al riaprirsi dei giuochi politici, l'11 dicembre 1945, indicando nell'accordo dei comunisti con la democrazia cristiana "l'asse della stabilità governativa in regime repubblicano". Quando Parri fu costretto a dimettersi non aveva realizzato se non in modestissima parte il suo programma, per i limitati spazi di movimento di cui poteva disporre e per la necessità di far fronte a problemi indilazionabili di amministrazione corrente manifestatisi subito dopo la costituzione del governo. E, quando cadde, poté sembrare che fosse sua la responsabilità degli scarsi risultati e della fine traumatica della sua esperienza.
Il compito più importante che Parri si proponeva assumendo la presidenza del consiglio era di assicurare non tanto una, pur necessaria, mediazione fra i partiti del Comitato di liberazione nazionale, quanto la rifondazione democratica del paese. L'Italia era rimasta per alcuni anni divisa in due, con una parte centro-meridionale toccata marginalmente dalla lotta armata di liberazione, e un'altra, quella settentrionale, che ne era stata investita direttamente e in modo generalizzato. Era necessario provvedere con rapidità a colmare il distacco fra le diverse esperienze, le diverse sensibilità, il diverso tono morale delle due Italie, per evitare che la peggiore sopraffacesse la migliore, e per estendere a tutto il paese un programma di rinnovamento delle istituzioni e dei modi di governo, capace di far superare i guasti del fascismo. Parri si accinse a questo compito facendosi garante dell'enorme impegno che esso richiedeva più col suo prestigio personale di antifascista e di combattente che per il sostegno del Partito d'azione, al quale apparteneva, le cui forze non si erano ancora elettoralmente contate ma che già appariva Partito di élite, senza vasti consensi.
Quando il "vento del nord" esaurì la sua spinta, e i quadri politici, economici, burocratici e militari passati indenni dal prefascismo al fascismo mostrarono di essere sopravvissuti anche alla fine del regime, la vecchia Italia si dispose a riprendere il sopravvento, e la crisi del governo Parri fu il segno di una sconfitta che investiva, col suo presidente, tutta una linea di rinnovamento radicale che, in seguito, non sarebbe stata più realizzabile. La paralisi del governo Parri, e la sua rapida sostituzione, furono la prova che, al di là delle intese formali che ne avevano consentito la costituzione, e in elusione dei programmi che nominalmente gli si affidavano, vi era un accordo più saldo e ben nascosto fra le forze partitiche maggiori per riprendere il controllo della situazione, appena consentito alla Resistenza armata di giustificare la sua vittoria con una transitoria assunzione del potere. Le decisioni più importanti che il governo Parri avrebbe dovuto prendere (la convocazione dei comizi elettorali e l'avvio dei lavori della costituente, con la precisazione dei suoi compiti anche legislativi) furono rinviate a tempi successivi, e a Parri fu lasciata soltanto la gestione ordinaria, nella quale l'empito riformatore era destinato ad esaurirsi senza conseguenze di rilievo.
Con la sconfitta del governo Parri si ebbe la sconfitta della Resistenza, nei suoi programmi politici destinati ad essere realizzati nell'Italia liberata dal fascismo: la mancata attribuzione alla costituente del potere di riformare le leggi esistenti tolse al primo organo rappresentativo della volontà popolare la possibilità di incidere immediatamente sulle strutture dello stato e sui suoi orientamenti politici, e non è casuale che la sua preparazione sia stata sottratta a Parri, così come che gli sia stato negato di indire le prime elezioni libere a suffragio universale, dal cui risultato egli sarebbe uscito rafforzato. Il compromesso stipulato da Togliatti con le forze conservatrici non poteva consentire soluzioni coerenti a quelle cui Parri mirava: non la costituente nel 1945, ma soltanto l'anno dopo, a decantazione avvenuta dell'animosità resistenziale; non, subito, un organo elettivo con compiti di elaborazione della linea politica, ma soltanto la consulta, organo privo di rappresentatività e incapace di alterare gli equilibri istituiti fra i partiti; non una rapida decisione a proposito di monarchia o repubblica affidata alla prima assemblea elettiva, ma un referendum istituzionale rinviato e dall'esito incerto; non una costituente fornita delle competenze necessarie per legiferare, ma incaricata di elaborare in tempi lunghi una complessa costituzione; non una costituzione con chiare norme di abrogazione delle leggi con essa incompatibili, ma un testo destinato a essere affiancato dalla legislazione fascista che di fatto lo avrebbe reso inoperante; non leggi di attuazione della nuova carta costituzionale, ma una sua attuazione effettiva affidata alla buona volontà di maggioranze future di imprevedibile orientamento.
Formalmente la crisi del governo Parri fu determinata dal ritiro degli esponenti liberali che ne facevano parte, a conclusione di un'opposizione serrata che il loro partito gli aveva mosso per quasi tutta la sua durata, contestandone le scelte riformatrici e accusandolo di voler artatamente conservare nel paese poteri illegali rispetto a quelli tradizionali (si trattava dei prefetti e dei questori "politici", degli organi giudicanti nei processi contro i responsabili di crimini fascisti, anch'essi nominati dal Comitato di liberazione nazionale, di estensione alle realtà locali e aziendali di aggregazioni di tipo ciellenistico, dell'epurazione dei compromessi col cessato regime inseriti nella pubblica amministrazione e nelle forze armate). Nella realtà, il ritiro liberale fu l'occasione, non perduta né dai comunisti né dai democratico-cristiani, per sbarazzarsi di Parri, giacché i democristiani spalleggiarono i liberali, e i comunisti si rifiutarono di prendere in considerazione la possibilità di dar vita a un governo del quale i liberali non facessero parte e in cui le sinistre assumessero un ruolo di punta, così come evitarono di difendere Parri e la sua linea.
Avendo presente il quadro politico che ho tentato di riassumere si possono comprendere le ragioni di Levi nel presentare il congedo di Parri come un fatto cruciale della nostra storia: se infatti la crisi era stata provocata dal segretario liberale, Leone Cattani, che Levi descrive presente alla conferenza stampa, "a un estremo del tavolo (...) un po' isolato, come un tredicesimo apostolo", chi doveva trarne i vantaggi era De Gasperi, e con lui il suo partito, per insediarsi stabilmente alla guida del paese come espressione delle correnti conservatrici (…)
Va poi segnalato un articolo autobiografico apparso nell' "Astrolabio" del gennaio 1972 e ristampato nel volume degli Scritti 1915-1975 di Ferruccio Parri (Feltrinelli, 1976), che si chiude nel ricordo dell'episodio cui si riferiscono le pagine de L'Orologio: "discorrendo delle cose fatte e rimaste da fare, mi pareva di veder avanzare dal fondo della sala sprezzante e ghignante l'immenso esercito parafascista, l'obeso ventre della storia d'Italia, che aveva vinto, mi aveva vinto. E dissi che moderate politiche si potevano accettare, ma una sola doveva essere intransigentemente respinta, quella che apriva la porta al fascismo. Avevo l'amaro in bocca".

Linea d’ombra, n.45 gennaio 1990

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