24.7.13

Sirene con le ali (Umberto Eco)

Nel giro di pochi mesi, ecco due rivisitazioni della mitologia: Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso (Adelphi) e, uscito da poco, Il canto delle sirene di Maria Corti (Bompiani). Calasso vede il corpus mitologico come una grande struttura archetipa, vertigine di varianti già tutte iscritte nella sua natura contraddittoria, a tal punto che «le nuove varianti dovevano essere rare, e poco visibili» (p. 316). Invece Maria Corti segue proprio le metamorfosi che il mito delle Sirene subisce nel corso della storia. Se in Calasso i riferimenti al dopo sono radi e parentetici, per non turbare la purezza di una parabola immemoriale, in Maria Corti le Sirene si trasformano sino a trovarsi di casa in una storia d'amore contemporanea (dove l'autrice riesce a trarre leggerezze primaverili dalla funerea vicissitudine dei concorsi universitari, come aveva già saputo fare anni fa in quel delizioso romanzo che era Il ballo dei sapienti).
Questo non è proprio un romanzo, caso mai è una breve saga. Ma anziché tentare di classificarlo, meglio trarne il duplice piacere del testo (intriso di svagati riferimenti storico-letterari e di graziose concessioni allo stile basso della conversione) e dell'intertestualità.
Forse per colpa della Sirenetta di Andersen ce l'eravamo scordato, ma nella mitologia antica le Sirene avevano ali, ventre, zampe e artigli di rapace. E se la coda marina, dice Maria Corti, l'assumono solo verso il settimo secolo dopo Cristo, ci sono testi medievali in cui esse appartengono ancora all'ornitologia. Incuriositomi, ho appurato che tra secondo e quarto secolo, nel Fisiologo, esse hanno ancora la parte inferiore come quella di un'oca, ma verso il nono secolo, nel Liber monstruorum, hanno la coda di un pesce. Nel Bestiario di Cambridge del XII secolo, il testo le dà come volatili, ma il miniatore fa un compromesso con i tempi nuovi: ali alla vita, zampe d'aquila e coda acquatica. Nei legni del Libellus de natura animalium stampato nella prima decade del Cinquecento, la coda ittica si duplica, per omaggio alla simmetria. A fine secolo, nell'edizione delle opere di Ambroise Pare, di nuovo coda di pesce e zampe d'uccello. In epoca barocca Caspar Schott, nel suo Physica curiosa, taglia la testa al toro: hanno certamente coda di pesce, perché l'ha detto Athanasius Kircher, ma prima erano uccelli con "gallinaceos pedes", e probabilmente sono sia così che cosà.
Svariando tra una leggenda della Otranto medievale e una vicenda milanese in cui appare persino una borsa Gucci, Maria Corti ci racconta la storia di un simbolo: quello della seduzione della conoscenza. La quale non ha la forma fisiologicamente invariabile del desiderio carnale, ed è meno transeunte. La seduzione dell'intelligenza non perdona neppure in tarda età: Ulisse crede di aver resistito al canto delle Sirene, ma un verme gli si è insinuato nel cervello. Lascerà di nuovo il talamo e la patria, e si perderà nel tentativo di violare l'inconoscibile.
Sedotto sia da Schott che da Maria Corti, sono andato a controllare, il Magnes di Kircher, e ho trovato che nei mari orientali esistono creature chiamate Duyon, dal capo rotondo, senza collo, braccia tozze e naturalmente coda marina. L'incisione li mostra come sirenotti ambosesso, bruttini anzichenò, poveri di seduzione; Kircher si salva in corner, asserendo che le loro ossa hanno virtù emostatica. Ahimè, cercando "sireni" su un'enciclopedia ho scoperto che i Duyon di Kircher erano dei dugonghi, mammiferi acquatici simili agli ungulati, dalle pinne articolate in braccio e avambraccio, con un volto grottescamente antropomorfo.
Morte di un mito? Eppure nell'ultimo capitolo del libro di Maria Corti le Sirene, sopravvissute agli ulissidi dell'astronautica, non demordono: cambieranno apparenza e tecnica di seduzione, ma nella generale danza dell'insignificanza cercheranno ancora vittime elette e privilegiate. Come tutte queste fantasie possano generare un libro di tanta piacevolezza, lo insinua una delle novelle: «Era seduta un giovedì al tavolo della sua terrazza milanese, allorché si accorse con la massima naturalezza che una combinazione di alcune parole generava una meraviglia paragonabile a quella di un bambino che con un gioco combinatorio di pezzi ha creato un oggetto».

Su "L'Espresso" del  2 aprile 1989 con il titolo Pesci, uccelli, sirene, seduzioni

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