27.7.13

Profilo di Giorgio Scerbanenco (di Valeria Pighini)

Da “le Reti di Dedalus” recupero un ampio stralcio di un profilo di Giorgio Scerbanenco, scrittore “di genere” eccellente. Forse il rilievo dato allo scrittore di “gialli” e di “neri” lascia un po’ in ombra lo scrittore “rosa”, importante anche quello. Per diverso tempoi Scerbanenco, dopo una frequente presenza su "Novella", fu in pianta stabile ad “Annabella” con lo pseudonimo di Adrian, settimanale femminile “rizzoliano” di fascia media. Oltre a romanzi a puntate (firmati Giorgio Scerbanenco) vi pubblicava quasi ogni settimana una novella e curava una rubrica di “posta del cuore”. (S.L.L.)
Scerbanenco in copertina
"La lettura"   febbraio 1980
Disegno di Ugo Bertotti

Prostituzione, bullismo, traffico d’armi e poi ancora alcolismo, aborto, eutanasia; non è il sommario di cronaca nera di un qualsiasi quotidiano in edicola in questi giorni; sono bensì le tematiche principali che compongono il mondo spietato dei romanzi di Giorgio Scerbanenco, scritti tutti tra gli anni ’30 e gli anni ’60.
Nato a Kiev nel 1911 da padre ucraino e madre italiana e morto a Milano nel 1969, Scerbanenco dimostra fin da giovanissimo un talento innato per la scrittura: “a me piace scrivere (….), l’unica cosa di cui ho bisogno è la macchina da scrivere, una qualsiasi, anche la più scassata”. Fedele a questo motto Scerbanenco scrive tanto, tantissimo, circa novanta romanzi e un migliaio di racconti: una penna insaziabile, alla continua ricerca di pagine bianche su cui imprimere l’inconfondibile sigillo di storie ancora oggi attuali.
Autore poliedrico ed eclettico, si muove a suo agio tra i generi più disparati, ama giocare con i “colori” della letteratura, mischia tranquillamente il giallo con il rosa e con il rosso del sangue e della passione, spruzzando su tutto un po’ di nero, o meglio, di noir. Così, nei suoi libri, l’amore va a braccetto con la morte, le lame affilate dei coltelli si alternano alla dolcezza dei baci appassionati e la felicità può essere raggiunta solo pagando l’altissimo prezzo di un sacrificio estremo.
Alcuni tra i primi romanzi, che fanno la loro comparsa a cavallo tra gli anni ’40 e gli anni ’50, sono ambientati in Messico o in America; in particolare i cinque episodi legati alla saga dell’ispettore Jelling (Sei giorni di preavviso -1940; La bambola cieca - 1941; Nessuno è colpevole - 1941; L’antro dei filosofi - 1942; Il cane che parla - 1942). Tuttavia, pur mostrando già in parte quelle che saranno le caratteristiche delle opere successive, essi si presentano come prodotti atipici; è la censura fascista ad imporre implicitamente a Scerbanenco delle location “esotiche” per raccontare le vicende di ladri, gangster e assassini: in quel periodo vige infatti il ferreo divieto di rappresentare il Belpaese con toni foschi e violenti poiché l’immagine che se ne vuole dare è quella di una nazione felice, un piccolo paradiso. Scerbanenco si adegua ed è dunque solo a partire dal dopoguerra che la sua vena artistica può sbizzarrirsi liberamente, offrendo al lettore il ritratto di un’Italia malinconica e crudele, terribilmente simile a quella dei giorni nostri, un’Italia a cui lo scrittore guarda con l’occhio attento di un critico che non si lascia ingannare dalle false promesse del boom economico e della rinascita: a poco a poco arrivano le industrie, gli elettrodomestici, il progresso, ma il degrado resta quello di sempre, anzi, aumenta, come pure  aumenta la criminalità. È di questo degrado che Scerbanenco parla: gli bastano poche righe per tratteggiare alla perfezione l’universo delle periferie, delle grandi città, Milano in primis, congestionate dal traffico, dalla folla, freddi polmoni d’acciaio imbevuti di egoismo, dove i giovani crescono circondati da fabbriche e palazzoni antiestetici, dove non c’è futuro, dove si muore per pochi spiccioli e dove anche sognare diventa una colpa da espiare.
In un posto come questo, a contatto con ladruncoli e bestemmiatori, sono nati e cresciuti Duilio e Simona (Al mare con la ragazza - 1950) e, nonostante tutto, hanno imparato ad amarsi. Il loro unico desiderio è quello di poter, un giorno, vedere il mare che da piccoli confondevano con l’acqua fangosa delle pozzanghere in cui sguazzavano. Un desiderio semplice, innocente che li porterà a scontrarsi con l’amara realtà di un destino tragico; per andare al mare ci vogliono soldi e i soldi, purtroppo, in un simile contesto, non si possono racimolare che in modo illecito: una rapina, un colpo di rivoltella, il sangue, il sedile grigio che diventa sempre più scuro e Simona, immobile . Per inseguire una speranza Duilio si ritrova così a guidare come un automa, con il cadavere della fidanzata chiuso nel bagagliaio e la polizia alle calcagna . Non esiste limite al cinismo, Scerbanenco non lascia spazio alla consolazione, nessuno può salvarsi da un abbrutimento quasi fisiologico: Milla (La ragazza dell’addio - 1956) non è bella, ma ha tutto quello che una ragazza della sua età potrebbe desiderare: una splendida villa, amici, soldi e il grande affetto di suo padre, eppure passa le giornate a struggersi d’amore per Martino, un bravo ragazzo di estrazione umile e che, dal canto suo, non sa se frequentarla spinto da un sentimento sincero o da interesse. La profonda indagine psicologica è la reale protagonista di questo romanzo: l’autore scava nell’animo dei personaggi, traendone delle figure tristi e appassionate, attanagliate da continui dubbi e incapaci anche solo di scorgere una felicità che parrebbe offerta su un piatto d’argento. Anche i ricchi soffrono, sembra dire Scerbanenco e, del resto, egli nei suoi libri non fa sconti a nessuno. Emanuela Sinistalqui (Dove il sole non sorge mai - uscito postumo nel 1975) ha quasi sedici anni ed è una contessa, ma questo non impedisce che sia accusata, per un errore, di aver aiutato tre criminali a compiere una rapina e che sia rinchiusa prima in un sudicio riformatorio, tormentata da cimici e altri insetti, e poi in un severo istituto di correzione, insieme a piccole delinquenti e ragazze difficili, umiliata e controllata a vista da istitutrici-secondine. Scerbanenco racconta una discesa all’inferno: gli interrogatori avvilenti, i dialoghi sboccati delle compagne di stanza, gli sguardi di disprezzo, il terrore di rimanere confinata per sempre in un luogo dove il sole non sorge mai, appunto; infine, racconta il turpe retroscena della vicenda: una nonna, rispettabile e stimata nobildonna, che riceve uomini e trasforma la sua casa in uno squallido bordello.
Un linguaggio forte, mai volgare, un dramma che prende vita frase dopo frase, descrizione dopo descrizione, pagine cariche di rabbia nei confronti di un mondo che premia i colpevoli e perseguita gli innocenti; a loro, agli oppressi, non resta che la forza della disperazione e un flebile filo di voce che Scerbanenco sa trasformare in un  accorato grido di denuncia, grazie alla verve pungente del suo stile unico.
Indubbiamente, comunque, il personaggio più controverso e attuale nato dalla fervida e incontenibile fantasia dello scrittore italo-ucraino è quello di Duca Lamberti, protagonista dei suoi quattro romanzi più celebri (e di altre tre opere rimaste incompiute a causa della prematura scomparsa dello scrittore), uno dei quali, Traditori di tutti (1966), vincitore del prestigioso “Gran Prix de la  Littérature Policière nel 1968.
Il primo della serie è Venere Privata (1966); Duca è appena uscito dal carcere, è un medico radiato dall’albo: ha scontato tre anni di reclusione con l’accusa infamante di aver provocato deliberatamente la morte di un’anziana paziente, un’accusa dal nome altisonante e che suona tristemente familiare ai lettori di oggi: eutanasia. Suo padre è morto di crepacuore, sua sorella è stata sedotta e abbandonata con una figlia in fasce da un balordo e lui ha l’animo dilaniato dai sensi di colpa. Forse è per questo che decide di abbandonare la tranquilla professione di rappresentante farmaceutico per aiutare la polizia a risolvere casi intricati; forse è per questo che accetta di aiutare Davide Auseri ad uscire dalla rete dell’alcolismo in cui è piombato perché convinto di essere il responsabile del suicidio di una ragazza, Alberta Radelli, avvenuto l’anno precedente. La situazione è più complicata del previsto e Duca scivolerà lentamente fino ad immergersi nelle acque putride di una turpe storia di ricatti, prostituzione, di ragazze che vendono il proprio corpo e si fanno fotografare in pose sconce per guadagnare qualche lira. Paradossalmente è proprio in mezzo a questa sporcizia morale che egli incontrerà la sua musa, il suo angelo custode, Livia Ussaro, probabilmente la creatura femminile più affascinante creata da Scerbanenco. Livia è colta, ha il pallino della sociologia , soprattutto è una donna moderna e di vedute molto aperte, si esprime con un linguaggio colorito, è schietta e non si fa scrupoli a raccontare anche esperienze piuttosto scabrose: “Fin da quando avevo sedici anni, desideravo fare un esperimento di prostituzione (…), non era una curiosità morbosa. Forse, come può vedere anche dal tipo fisico, si capisce che sono frigida. Non del tutto (…). Alcuni, di poco intuito, pensano invece che io sia lesbica, e questo sospetto mi diverte. (…) Io come donna penso alla sociologia femminile, e uno dei problemi più importanti in questo campo è la prostituzione. La prima cosa che pensai è che non si può capire la prostituzione, capirla veramente, se non si è fatta la prostituta. Però dovetti arrivare a ventitre anni, prima che riuscissi a vincere tutti i tabù”. Livia pagherà cara quest’intraprendenza: decisa ad aiutare Duca nelle indagini, sarà sfigurata per sempre da un pericoloso criminale; la scena è una tra le più crude che Scerbanenco abbia mai offerto ai suoi lettori: descrive con minuzia il calvario della giovane, segue istante per istante l’operazione di sfregio, non tralasciando nessun particolare: il primo taglio che incide la fronte, il sangue che inizia a sgorgare copioso rigando il bel volto per poi scendere sul collo, sul seno, sul ventre e infine l’ovatta imbevuta di alcool che tampona la ferita e brucia, brucia infinitamente.
Inizia così, con questo libro brutale e drammatico, il viaggio allucinante di Duca Lamberti in una Milano amara, una Milano inedita che non è quella dei “salottini per bene”, ma quella dei canali e dei vicoli dove si annidano le insidie più impensabili, dove si nascondono i delinquenti, gente senza remore, capace di far prostituire una povera malata mentale e di ammazzarla come un animale quando non si ha più bisogno di lei (I milanesi ammazzano al sabato - 1969). È la Milano dei trafficanti di armi e degli avvocati corrotti (Traditori di tutti), la Milano di una gioventù sbandata e prepotente che richiama alla mente tanti episodi di cronaca degli ultimi tempi: il bullismo raccontato da Scerbanenco è quello di una classe difficile, di ragazzi spostati, già falliti e senza prospettive che, in un momento di delirio ed eccitazione provocato da una sostanza alcolica (l’anice lattescente), seviziano e uccidono la loro maestrina. Un’orgia di follia consumata in pochi minuti, la vita di una persona spazzata via in pochi minuti. Duca risponde alla violenza con una violenza più efficace, quella psicologica: gran parte del romanzo è così occupata da dialoghi, dagli interrogatori degli studenti, serrati, taglienti; è lo stesso Scerbanenco a porre le domande, Duca ne fa semplicemente le veci. Il libro diventa il  processo ad una generazione che si nutre di abusi e soprusi e nasconde la sua fragilità dietro la maschera dell’aggressività e di un linguaggio laido e osceno .
Questa è la Milano di Duca Lamberti, la Milano di Scerbanenco, la “Milano calibro 9” in cui le ragazze vanno dal medico per abortire di nascosto o per farsi ricostruire una verginità perduta troppo in fretta, in cui il sesso non è un argomento proibito (come spesso accade nei narratori a lui coevi), la Milano in cui “Non portiamo più coltelli, sciabole, e spade, e allora ammazziamo con quello che troviamo a portata di mano. (…) Quando siamo in auto prendiamo il cacciavite dal cassetto del cruscotto e sfondiamo il collo di quello che ci ha sorpassato a destra. A casa, invece, nel sano ambiente domestico, tra gli utili arnesi casalinghi, scegliamo forbici e con cinquanta sessanta colpi, finiamo l’amico che non ci ha restituito del denaro prestato”.
Ironia, sarcasmo, sono queste le armi con cui Scerbanenco combatte la società che ha di fronte, i suoi lati oscuri, le perversioni, le ossessioni che la inquinano e nel corso degli anni regala ai lettori centinaia di altri personaggi tutti ugualmente indimenticabili: Ulisse Ursini, friulano, paracadutista, mercenario e innamorato della guerra (Al servizio di chi mi vuole - uscito postumo nel 1970); Roberto, Irene, Maruzza, innocenti, colpevoli, reticenti e spaventati ( La sabbia non ricorda-1963); Anna, cavallerizza coraggiosa che sfida la legge e vendica da sola il suo stupro (dal racconto Spara che ti passa ); Coralli e Namara, sadici e insospettabili serial killer (dal racconto Piccolo Hotel per sadici); e poi ancora, baby prostitute (dal racconto Lolite si muore), turiste braccate (Europa molto amore - 1958), spie che “non devono amare” (Le spie non devono amare -1945), ladri, ladruncoli e assassini, ladri contro assassini (Ladro contro assassino - uscito postumo nel 1971). L’elenco sarebbe ancora lungo poiché le pagine di Scerbanenco sono intrise di simili figure, sospese nell’eterno limbo tra positività e negatività. I suoi romanzi trasudano di odio, amore, di una violenza condita di lussuria, ma anche di una dolcezza unica e di una poesia impareggiabile che raggiunge, a tratti, punte di lirismo struggente.
Scerbanenco può essere considerato a pieno titolo il padre del poliziesco italiano, colui al quale i vari Lucarelli, Machiavelli e Pinketts debbono sicuramente più di una semplice ispirazione (e del resto Pinketts, Lucarelli e altri scrittori hanno anche tentato di continuare le sue opere incompiute)…

1 commento:

GIANLUIGI ha detto...

COMPLIMENTI VIVISSIMI A VALERIA PIGHINI PER QUESTO PROFILO INTERESSANTE E DIVERTENTE.
CON AFFETTO , GIANLUIGI MELUCCI

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