L’articolo è in apparenza recensione di una mostra su Picasso e il Mediterraneo realizzata per impulso del ministero della Cultura francese dall’Accademia di Francia a Roma, a Villa Medici, tra il novembre 1982 e il febbraio 1983. Si tratta in verità di un tentativo, a mio avviso ottimamente riuscito, di caratterizzare l’opera ricca e complessa di Pablo Picasso. Da leggere (S.L.L.)
Per una bella, bellissima mostra come questa, Picasso e il Mediterraneo è un titolo un po' ovvio, quasi pleonastico: in un certo senso, Picasso è il Mediterraneo, per la sua biografia, per il suo assorbimento di miti greci e persino di certe forme sacre dell'Africa, per l'intera morfologia della sua immaginazione.
Il titolo della mostra rischia di indurre a leggere un tema nelle opere proposte, suggerisce un'appartenenza etnica più che una ricerca personale di segni: atavismo più che creazione. Il tema del Mediterraneo è caro al regime di Mitterrand, al suo ministero della Cultura e ai suoi vari ministeri che, come spesso dichiara Jacques Lang, fanno tutti Cultura. Umanesimo contro tecnocrazia, festeggiamenti sontuosi e popolari. Sul tema Mediterraneo c'è già stato un grande convegno in Grecia, a saldare l'intesa tra il ministro socialista francese e la signora-ministro greca. Rigodon e sirtaki. Nel primo 900 europeo, c'è stata una grande stagione di «mediterraneizzazione» che culminò negli anni 20 in un generale «rappel à l'ordre» classicistico (così lo chiamò Jean Cocteau in un saggio divulgativo); fu un drammatico sforzo per rifondare la compattezza corporea dell'arte dopo i dilaniamenti della guerra e le esplosioni dei linguaggi espressivi (primo cubismo e dadaismo). In quel «richiamo» rientrava il Novecento italiano.
L'odierna mediterraneizzazione è di segno ben diverso: non è restaurativa bensì politicamente difensiva, rivolta contro l'egemonia delle superpotenze, tutte e due iconograficamente nordiche, sia l'anglo-sassone che la slava. Il Mediterraneo come terra di salvaguardia, imbevuta di armonia tradizionale, e scudo del Terzo mondo».
Si può piegare la memoria e l'opera di Picasso a questa vocazione politico-culturale, di cui la Francia cerca la leadership? Jean Leymarie nel suo saggio introduttivo al catalogo di questa mostra, accetta con grande eleganza e relativa libertà il filtro di lettura proposto: il «mare nostrum». Ne declina gli aspetti picassiani — di vitalità arcaica, di dolce culla, di mistero iniziatico — senza mai ridurli al comune denominatore di tradizione. Picasso inventa sempre.
La mostra di Villa Medici: tele, disegni, sculture, ceramiche, dal 1906 al 1972 (con vuoti derivanti dalla soluzione tematica e corrispondenti ai periodi non ri¬conducibili alla «forma» mediterranea), è di una forza sconvolgente. In questi nostri tempi di cultura anemica, addobbata di duplicati esangui (firmati da certi «replicanti» extra-terrestri che si fanno chiamare De Chirico o Andy Warhol) quale deflagrazione di energia con Picasso! Solare nelle sue gioie, «sangue nero» nei suoi tormenti... Già l'autoritratto del 1906, con le pupille nere come pozzi, lo sguardo fisso sull'infinito, dolcissimo sopra quel torace da giovane centauro, sembra anticipare due temi futuri: sia l'innocente Uomo con l'agnello, sia il tragico Minotauro cieco guidato da una bambina nella notte. I periodi detti classici di Picasso hanno stranamente, nella loro immobilità, la stessa forza deflagrante delle sue opere di «avanguardia» in cui volumi e spazio prospettico sono sconvolti dall'analisi cubista. La classicità di Picasso non è riposante. Perché?
Divorato dal presente, dalla «contemporaneità», come diceva Gertrude Stein, Picasso si lasciò attraversare, a secondo dei flussi energetici del tempo storico (e sempre con un passo avanti rispetto ai suoi compagni), sia dalle frenesie avanguardiste sia dai richiami all'ordine. Ma nei due casi, ugualmente, c'è in lui una specie di eccedenza: di purezza lineare negli Arlecchini, d'interrogazione nello sguardo della Donna seduta del '20, di compattezza muscolare monumentale nelle Grandi bagnanti, di azzurra, quasi, limpidezza musicale nel Flauto di Pan — un'eccedenza dunque nell'ordine, che ripropone un disordine, una instabilità, diciamo una modernità come tensione tra attualità e tradizione (quello che Carrà molto più debolmente, cercò di tradurre).
Il genio di Picasso è qui: non è mai restaurativo e accademico, è innovatore quando accetta le regole classiche, come aveva saputo essere di un rigoroso classicismo concettuale nella ricerca d'avanguardia cubista. Picasso scardina sempre le antinomie tra rivoluzione e classicismo, tra dopo e prima, modernità e arcaismo, concettualità e vitalità, innocenza e saturazione culturale — tra L'uomo con l'agnello e il Minotauro. Al di là dell'apparente eclettismo, esiste una formidabile coerenza della sua opera. Quello che chiamo qui «tensione eccedente» fu chiamato, dalla sua grande amica Gertrude Stein, lo «svuotarsi». «Svuotarsi di ciò che ha creato... Tutti dicono allora che cambia ma in realtà non è così: lui si svuota e nel preciso istante in cui ha finito di svuotarsi, deve ricominciare a svuotarsi, tanto presto è di nuovo pieno»... A un certo punto «la sua pittura naturalista si trasformò nelle grandi donne, piene di movimento; poi, a poco a poco, le grandi donne divennero molto scultoree. In questo modo Picasso si svuotò dell'Italia. E il suo modo...». I disegni, le tele e ceramiche successive alla guerra, quando Picasso s'istallò sulla Costa Azzurra tra Antibes e Vallauris, emanano un'armonia straordinaria, di giubilo totale. Dopo l'epopea buia e sacrificale degli anni bellici (gli anni della sua minotauromachia, delle giumente morte, del Minotauro accecato, della fragile bambina-speranza, della lampada debole nell'apocalisse di Guernica), i fauni possono ricominciare a suonare, le ninfe a danzare. Siamo approdati alla mitologia mediterranea più felice? Certamente, i fauni, centauri e donne in amore di Picasso appartengono a queste rive, il ministro promotore di mediterraneità può essere contento.
Ma è così importante fare dell'etnologia culturale a proposito di un artista così dirompente? Ancora Gertrude Stein, che oltre ad essere la sua esegeta più intima era anche la più acuta nel catturare le leggi interne e non tematiche della sua opera, distingue tra «pura bellezza» (neo-classica) e «bellezza della realizzazione»: «realizzazione» è ogni nuova trasfigurazione del reale, ogni invenzione autentica — e così sorprendente da non risultare immediatamente «bella». Nel '45 perciò, le «realizzazioni» di Picasso furono gli arabeschi lievi, divinamente essenziali, che traducono la felicità dei centauri e delle loro donne. In loro, l'animalità è diventata tratto di pura energia erotica e spirituale. Dice la Stein che siamo in presenza di una «calligrafia», intesa non come «arte minore» ma come arte magistrale, suprema, come nell'Islam e nell'estremo oriente. «Non per nulla gli spagnoli e i russi sono i soli europei un po' orientali e questo si vede nell'arte di Picasso, non come qualcosa di esotico ma di molto profondo, completamente assimilato». Anche la Stein faceva un po' di etnologia. Per vie assolutamente opposte a quelle di Pablo Picasso, Matisse giunse nella maturità a questa armonia apparentemente fanciullesca e facile, tanto il dominio delle forme aveva eliminato gli attriti laboriosi. Ma anche in lui si tratta di una perfezione individuale, cioè universale, rispetto alla quale la localizzazione geografica (Mozart di Salisburgo, Picasso di Golso) è del tutto irrilevante.
“Pace e Guerra” numero 3 del 16 dicembre 1982
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