13.1.11

Egemonia e letteratura in Gramsci (di Eros Barone)

Di Eros Barone ho già proposto alcune note sulla storia del Pci e su Gianni Rodari, che ho trovato assai stimolanti. Mi ha ora autorizzato a diffondere anche in questo spazio un suo breve saggio sul rapporto tra Gramsci e la letteratura nei Quaderni dal carcere, che trovo molto utile e spero trovi qualche lettore tra i frequentatori di questo blog. 
Suggestiva mi pare l'individuazione della "compostezza" come il tratto non esclusivamente linguistico che caratterizza lo stile del grande pensatore comunista. Stile che, in questo caso, è tanto l'uomo quanto la cosa. Tale compostezza non è dato di natura, ma acquisizione personale e politica, frutto di un lungo lavoro con gli altri e su di sè. Non sempre perciò la si avverte negli articoli giovanili, non di rado geniali, poi raccolti nel volume Sotto la Mole dell'edizione Einaudi, ove il piglio sbarazzino fa talora da pendant a residui di soggettivismo piccolo-borghese.

1. Il ‘gesto’ di Gramsci
   Il lettore che oggi dedichi la sua attenzione alle osservazioni e alle riflessioni dei quaderni su Letteratura e vita nazionale non faticherà a rendersi conto che il carattere paradigmatico della scepsi e della teoresi gramsciane, non meno che del suo “sarcasmo appassionato”, si fonda, più che su un compatto sistema speculativo, articolato in un ‘corpus’ di risposte e di proposte, su una coerente strategia della problematizzazione.
   Mi sia concesso, tuttavia, proprio al fine di orientare questo ipotetico lettore, di anteporre all’oggetto, cui è dedicato il presente intervento, ossia le idee di Gramsci sul tema della Letteratura e vita nazionale, un rapido profilo del soggetto di queste idee, ossia di Gramsci stesso in quanto pensatore, scrittore e dirigente politico.
   Secondo Max Kommerell - certamente il più grande critico tedesco del Novecento dopo Walter Benjamin -, la critica ha tre livelli, esemplificabili in tre sfere concentriche: quello filologico-ermeneutico, quello fisiognomico e quello gestuale. Il primo livello sviluppa l’interpretazione dell’opera, il secondo la situa in base alla legge della somiglianza, il terzo mira a coglierne il senso e l’intenzione riassumendoli in un gesto (o in una costellazione di gesti). Va da sé che ogni autentico critico passa attraverso tutti e tre questi àmbiti, soffermandosi, secondo la propria indole, più o meno su ciascuno di essi.
   Ma che cos’è - nella prospettiva delineata da Kommerell - un gesto? Ebbene, se l’intenzione ultima dell’opera è da ricondurre alla centralità e alla complessità del tema del gesto, conviene allora sottolineare che il gesto non è un elemento non-linguistico, ma qualcosa che sta col linguaggio nel rapporto più intimo e, in primo luogo, una forza operante nella lingua stessa, lievito e anima dell’espressione concettuale: gesto linguistico definisce Kommerell lo strato del linguaggio che non si esaurisce nella comunicazione e lo coglie, per così dire, nei suoi momenti solitari. Scrive il critico tedesco: “Il senso di questi gesti non si compie nella comunicazione. Il gesto, per quanto cogente possa essere per l’altro, non esiste mai unicamente per lui; solo, anzi, in quanto esiste anche per se stesso, può essere tanto cogente per l’altro. Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso. Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari”[1].
   Se, dunque, partendo da questa premessa e depurandola degli elementi psicologistici e metafisicizzanti che certamente contiene, proviamo a domandarci in quale gesto, ricavato dalla lettura dei suoi scritti, noi possiamo riassumere la personalità di Gramsci, io non ho alcun dubbio sul fatto che tale gesto sia da ravvisare nella ‘compostezza’: compostezza della prosa, ormai da ritenere fra quelle esemplari del Novecento; compostezza del pensiero, la cui classica  tessitura invera il modello della ‘humanitas’, che è sintesi di forma e di contenuto, di ‘sapientia’ e di ‘elegantia’; compostezza della ideazione, che si esprime nei concetti portanti della sua ricerca: egemonia, moderno Principe, riforma intellettuale e morale, ordine nuovo; compostezza della educazione rivoluzionaria, che si esprime nel gesto pedagogico e politico del dirigente che non parla ai lavoratori ma con i lavoratori, rifuggendo dalla facile oratoria comiziale e stabilendo con essi un rapporto basato sulla discussione, sul ragionamento e sul convincimento. Né occorre soggiungere che la compostezza in Gramsci non è mai seriosità o supponenza, ma metodo e insieme concezione, premessa e insieme risultato della coscienza profonda della organicità del proprio pensiero, oltre che a tutta la ‘storia sperimentale della specie umana’, al processo di formazione del pensiero collettivo delle classi subalterne e, in primo luogo, del proletariato rivoluzionario: “coscienza teorica dei fini immediati e supremi, e del modo come riuscire a tradurli in atto”[2]: materialismo storico e comunismo critico.
   Vi è, in tale compostezza, qualcosa di eroico, giacché essa, sia prima che durante il periodo della detenzione carceraria, è stata sempre in Gramsci il frutto di un’estrema tensione della volontà e del pensiero, della teoresi e della prassi, sia l’una che l’altra condotte dal pensatore sardo a cimentarsi con i livelli più alti dell’esperienza storica e della tradizione culturale in cui egli si muove: la teoresi di Marx, di Lenin, di Stalin, di Trotzki, di Bucharin, di Machiavelli, di De Sanctis, di Croce, e la prassi della rivoluzione proletaria, della Terza Internazionale, dei Consigli di fabbrica, del Partito Comunista d’Italia.

2. “Riforma intellettuale e morale”, egemonia e letteratura
   Dopo aver individuato il gesto in cui si riassume e si concentra la personalità intellettuale e morale di Gramsci, occupiamoci ora, per seguire lo schema concentrico suggerito dal critico tedesco, dei testi di Gramsci e della loro interpretazione.      
   Il nostro lettore degli appunti gramsciani su letteratura e vita nazionale certamente rileverà il condizionamento storico esercitato sulla disàmina condotta da Gramsci dall’idealismo crociano e gentiliano, non meno che dal lorianesimo e dal multiforme brescianesimo, oggetti e insieme categorie della critica sempre istruttiva, frequentemente spassosa e, non poche volte, spietata, cui Gramsci ha sottoposto le varie manifestazioni della cultura reazionaria, conservatrice e revisionista del suo tempo. Ciò che, invece, noterà come elemento attuale e sostanzialmente invariato sarà la prospettiva di fondo, cui quegli appunti sono solidamente agganciati: la prospettiva di una “riforma intellettuale e morale”, centro nevralgico della scepsi, della teoresi e della prassi di Gramsci[3]. Prospettiva, peraltro, che Gramsci collega saldamente al mutamento dei rapporti sociali di produzione, escludendo in radice interpretazioni di carattere culturalistico o, peggio, moralistico, che altro non sono se non frutto di una ermeneutica della sprovvedutezza o della malafede, come dimostra in modo inequivocabile il passo seguente, tratto dalle Noterelle sul Machiavelli: “Può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”[4].
   Se la “riforma intellettuale e morale” è necessariamente parte integrante della “riforma economica”, essa ha, nondimeno, una sua specificità, che Gramsci ravvisa nella “lotta per una nuova cultura”, che costituisce la condizione di base affinché “la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo” giunga a fondersi con la “critica estetica o puramente artistica”[5]. La direttrice metodologica che Gramsci indica è quella, già individuata e praticata dal De Sanctis, che consiste nel ricercare e nel riconoscere, attraverso e dentro le forme estetiche, i contenuti ideologici - riconducibili, per l’appunto, ad una concezione del mondo, ad un insieme di convincimenti morali, ad un gesto etico e sociale - che in quelle forme trovano un’espressione più o meno organica. Così, se da un lato l’approccio interpretativo corretto non può essere quello, riduttivo e meccanicistico, che concepisce le forme ideologiche come semplici veicoli o meri epifenomeni dei contenuti, dall’altro non può nemmeno essere quello, altrettanto riduttivo e unidimensionale, che esclude onanisticamente ogni dimensione extratestuale e considera il linguaggio, la letteratura e l’ideologia come, per dirla con Labriola, altrettanti “caciocavalle appise”, ossia entità di un ideale mondo iperuranio, che si riproducono per partenogenesi. Se allora l’apporto generale del materialismo storico dovrà essere individuato nel fatto che la prassi letteraria è riconosciuta come prassi effettiva e, in tal modo, è pienamente valorizzata e compresa, l’apporto specifico di Gramsci consisterà nell’individuare il centro di tale prassi, così come di ogni altra pratica ideologica, nella questione dell’“egemonia”, che per Gramsci coincide con la questione dell’“egemonia intellettuale e morale” e, dunque, con la questione strategica dell’“egemonia politica”, vero punto archimedico dei Quaderni del carcere.
   È questo il motivo profondo per cui l’interesse di Gramsci si appunta, in primo luogo, verso le “forme collettive” dell’espressione, le manifestazioni di un “gusto di massa”, e, quindi, verso la politica culturale che ne può promuovere e garantire l’innalzamento. Come egli stesso afferma in apertura del Quaderno 21 (“Letteratura popolare”), prendendo le mosse da una sorta di “catalogo di questioni” e mirando a individuare un organico “nesso di problemi”, “non si riesce a intendere concretamente che l’arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il ‘contenuto’ dell’arte, si lavora a una nuova arte, non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’intimo, perché si modifica tutto quanto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria”[6]. Così, in questa prospettiva, riassumibile nella parola d’ordine “lavorare a una nuova arte non dall’esterno, ma dall’intimo”, acquistano importanza decisiva problemi come quelli relativi al carattere non popolare della nostra tradizione letteraria e alla debolezza di quei generi letterari in cui maggiormente si esprime il tratto “collettivo” della comunicazione, come il teatro, il romanzo, la letteratura per l’infanzia e quella che in tedesco è definita come ‘Trivialliteratur’ e che Gramsci chiama “letteratura commerciale”[7]. In tale prospettiva, inoltre, balzano in primo piano, quali ineludibili esigenze dell’analisi e della riflessione, la questione della lingua e i momenti cruciali della storia italiana come la civiltà comunale, la Controriforma, il Rinascimento e il Risorgimento, non meno che lo studio del folclore, la prosa giornalistica e la cultura del melodramma.
   Tuttavia, per Gramsci la progressiva estensione di questo ‘catalogo di questioni’ può essere dominata soltanto se non si perde di vista il “nesso di coordinazione e di subordinazione” che riconduce tali problemi alla loro matrice generativa (l’egemonia) e li stringe in una sintesi dialetticamente unitaria.  
   Gramsci dimostra di essere perfettamente consapevole delle implicazioni teoriche e pratiche, storiche e politiche di questa problematica, allorché scrive con perentoria chiarezza: “Non è mai esistita una coscienza, tra le classi intellettuali e dirigenti, che esista un nesso tra questi problemi”. E prosegue: “Nessuno ha mai presentato questi problemi come un insieme collegato e coerente, ma ognuno di essi si è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici immediati, non sempre chiaramente espressi, senza volontà di approfondimento; la trattazione ne è stata perciò fatta in forma astrattamente culturale, intellettualistica, senza prospettiva storica esatta e pertanto senza che se ne prospettasse una soluzione politico-sociale concreta e coerente”[8]. Laddove il punto metodico di capitale importanza consiste nella risoluzione del “catalogo” in un “insieme”, in un “nesso”: risoluzione, questa, resa possibile, nella sua concretezza e nella sua coerenza, dalla mediazione del concetto di “egemonia”, che apre lo spazio teorico e storico in cui la letteratura può essere pensata, per l’appunto, come un “nesso”, vale a dire come un problema “nazionale” e “popolare”, lungo una linea che congiunge le intuizioni di De Sanctis ai teoremi della “filosofia della prassi”.

3. “Nazionale” e “popolare” versus nazionalismo e populismo
   Una specifica attenzione merita, a questo punto, la fondamentale e quanto mai controversa coppia concettuale gramsciana di “nazionale” e “popolare”, su cui ciò che si è finora osservato dovrebbe proiettare una luce non obliqua. A questo proposito, è senz’altro opportuno premettere un fondamentale criterio interpretativo che concerne lo stile di pensiero di Gramsci.
   Questo è uno stile che, pur avvalendosi di un lessico ponderato, definito e deliberatamente eterogeneo nelle sue fonti e nelle sue radici, non tende a imprigionare in forme categorialmente rigide la riflessione, ma, al contrario, punta a saggiare la tenuta di una nozione attraverso la rete di relazioni concettuali che è dato intessere per afferrare il “movimento reale” e rendere pienamente intelligibile la dialettica concreta della storia. In questo senso, si può affermare che la strategia della problematizzazione, che ho evocato all’inizio di questo intervento per caratterizzare la scepsi e la teoresi di Gramsci, si configuri come una struttura di pensiero che la scrittura definisce e, insieme, rispecchia mirando non tanto a istituire una meccanica corrispondenza fra idee, parole e cose (corrispondenza che presuppone un’idealistica simmetria fra questi diversi ordini) quanto a trasformare, come si è detto, un “catalogo” in un “nesso”, un insieme di temi e di questioni in un blocco dialetticamente e pur compattamente unitario di problemi.
   La consapevolezza della radicale storicità del pensiero, da cui deriva il rigore teoretico dello storicismo materialistico gramsciano, impedisce infatti qualsiasi forma di trascendimento e di assolutizzazione e, nel contempo, rende problematico ogni tentativo di fondazione che si appelli a “verità assolute ed eterne”. D’altra parte, questa “difficoltà” di fondazione e, dunque, di dogmatizzazione non è forse l’essenza stessa, radicalmente storica, della “filosofia della prassi”, non meno che del metodo di pensiero e dello stile di scrittura di Gramsci? E il riconoscersi come storicamente condizionata e provvisoria non è forse ciò che permette alla filosofia gramsciana, pur declinandosi come ideologia rivoluzionaria, di non essere ideologica “nel senso deteriore”[9]?
   Pertanto, proprio a partire da questa essenziale premessa critico-teoretica, concernente non solo la “difficoltà” di fondazione della filosofia gramsciana ma anche l’impossibilità di irrigidirla in forme (e formule) dogmatiche, si chiarisce e si illumina anche il binomio concettuale di “nazionale” e “popolare”, che, a seconda dei contesti, può quindi sciogliersi nei sinonimi di “storico” e “sociale” o porsi, invece, come l’equivalente dialettico di “universale” e perfino, al limite, di “cosmopolitico”. Ciò accade perché la topica di queste determinazioni, lungi dall’essere di tipo staticamente classificatorio, è mobile e dinamica, potendo, volta a volta, in funzione criticamente ‘destruens’, indicare, mediante i termini di “nazionale” e “popolare”, l’opposto di “personalistico” o “individualistico” - laddove la polemica gramsciana è rivolta, per un verso, a demistificare il soggettivismo estetico e culturale e, per un altro verso, ad affermare i caratteri storicamente oggettivi e sociali della produzione letteraria e artistica - oppure esprimere, in funzione positivamente ‘construens’, l’attuazione di un “universale” concreto, il cui contenuto storicamente necessario implica il superamento di ogni forma di idiotismo, quale che sia la forma, “bassa” o “alta”, in cui questo si configura - l’idiotismo può infatti presentarsi avvolto nei rozzi panni di una subcultura municipale e folclorica, regionale e dialettale, ma può anche presentarsi drappeggiato nelle vesti pretenziose di un culturalismo di segno elitario ed esclusivista -.
   In realtà, la prospettiva cui Gramsci àncora le nozioni di “nazionale” e “popolare” è quella di una ‘Weltliteratur’, di una “letteratura mondiale”, e non la prospettiva, frutto di fraintendimenti lessicali o di deformazioni concettuali, che, se non lo riduce, avvicina però fortemente questo binomio al “nazionalismo” e al “populismo”. Al contrario, occorre dire che Gramsci conduce una lotta incessante contro il nazionalismo e il populismo cercando di estrarre e rivolgere contro tali elementi costitutivi dell’ideologia elaborata e imposta dal regime fascista tutto ciò che sia      suscettibile di metterne a nudo le contraddizioni, di riscattare i concetti di “nazione” e di “popolo” da quel tipo di sfruttamento ideologico e di sviluppare una visione antitetica.
   Va detto, infine, che, se oggi tale operazione può dirsi sostanzialmente conclusa, restano invece intatte, più che mai attuali, e da riproporre nelle forme storicamente adeguate alla presente congiuntura politico-ideologica, le ragioni di una “riforma intellettuale e morale” capace di costituire, sia nel mondo della cultura sia nel sistema delle comunicazioni di massa, un’alternativa potenzialmente egemonica alle concezioni e alle pratiche individualistiche, municipalistiche, elitarie e corporative, ossia al modo di concepire e di fare letteratura nel quadro del capitalismo contemporaneo.


[1] Max Kommerell, Gedanken über Gedichten, Frankfurt am Main, Klostermann, 1956³, p. 36.
[2] A. Gramsci, La costruzione del partito comunista (1923-1926), Einaudi, Torino, 1971, p. 49. Il passo, tratto da un articolo non firmato ma attribuibile a Gramsci, intitolato La scuola di partito e apparso sulla rivista «L’Ordine Nuovo» del 1° aprile 1925, recita integralmente ed esattamente: «Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come riuscire a tradurli in atto».
[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1977, pp. 2185-2255.
[4] Ibidem, p. 1561.
[5] Ibidem, pp. 2187-2188.
[6] Ibidem, pp. 2107-2109.
[7] Ibidem, p. 1934.
[8] Ibidem, p. 2107.
[9] Ibidem, p. 1489. Si veda, inoltre, sempre nel contesto della stessa nota, intitolata Storicità della filosofia della prassi (pp. 1487-1490), l’esito, in apparenza paradossale ma del tutto coerente e assai suggestivo, cui conduce la radicalizzazione dello storicismo operata da Gramsci in connessione con la tematica engelsiana del passaggio dal regno della necessità al regno della libertà: «Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla “necessità” e non alla “libertà” che non esiste e non può ancora esistere storicamente […] Si può persino giungere ad affermare che mentre tutto il sistema della filosofia della prassi può diventare caduco in un mondo unificato, molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero diventare “verità” dopo il passaggio [dal regno della necessità al regno della libertà] ».

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