La sera del 22 marzo scorso il programma televisivo di Giovanni Minoli La storia siamo noi ha proposto una singolare riflessione in chiave di storiografia controfattuale, cioè di storia “fatta con i se”: il programma simulava ciò che sarebbe potuto accadere se il 18 aprile del 1948 avesse vinto non la Democrazia Cristiana ma il Fronte Popolare e per rendere più verosimile l’ipotesi di partenza utilizzava, oltre a filmati d’epoca contraffatti piuttosto credibili nelle immagini e nel commento sonoro, le finte (rovesciate) memorie dirette di due vecchie volpi come Andreotti e Curzi. La cosa era interessante, anche se si capiva ben presto dove il gioco andava a parare: mostrare quali catastrofi sarebbero accadute in conseguenza dell’ipotizzata variabile, e dunque confermare nel telespettatore, che si suppone sempre moderato, la soddisfazione per lo scampato pericolo. La morale sottintesa era che la storia si può pure fare con i se, ma che è sempre meglio accontentarsi di come le cose sono andate realmente e, quindi, di come continuano ad andare.
Questo non vuol dire che sia un errore lavorare su questo terreno e con questo metodo; anzi, penso che tocchi proprio alla sinistra - che in genere ha perso le sue battaglie (non tutte!) - provare sempre la carta del “poteva andare diversamente”: e se Spartaco avesse vinto? E’ del tutto ovvio che il problema non è la storia con i se o senza se, ma chi questa storia la fa. Ma a parte tutto questo, un aspetto del programma mi ha colpito particolarmente: l’ipotesi ben “documentata” della reazione che, in caso di vittoria della sinistra, avrebbe scatenato la Chiesa. Una reazione che avrebbe utilizzato qualsiasi mezzo, fino a promuovere una guerriglia cattolica e una guerra civile dei cattolici contro i comunisti (a partire dal Veneto e dalla Toscana: un’altra volta i “viva Maria” di Arezzo?). Questo risvolto guerriero della Chiesa in fondo non mi ha molto sorpreso, anzi, ha ridestato dei ricordi un po’ assopiti della mia adolescenza; mi ha fatto ricordare una canzone che si cantava ancora non nella Spagna franchista, ma in una parrocchia della democratica Perugia al passaggio dagli anni cinquanta ai sessanta, e che faceva pressappoco cosi: “Qual falange di Cristo redentore / la gioventù cattolica in cammino... Bianco padre che da Roma / ci sei meta luce e guida / in ciascun di noi confida / su noi tutti puoi contar. / Siam gli arditi della fede / siam gli araldi della croce / a un tuo cenno e a una tua voce / un esercito all’altar...”. E la cantavo anch’io, che pure non capivo cosa volesse dire esattamente la parola “araldo” (e a dire la verità non lo so neanche adesso); però mi faceva un effetto strano, mi faceva sentire importante. Il fascino di quella parola dal suono antico nascondeva bene ai miei occhi di ragazzino tutta quella miseria culturale e anche il crimine (eventuale, ipotetico, se...) che chi aveva un tempo scritto quella canzone si era apprestato a commettere.
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