18.12.11

Diluvi e disastri. Capitalismo ecocida e omicida (di Eros Barone)

Genova, L'alluvione del 1970
Premesso che l’intensità delle piogge che hanno provocato l’alluvione, i crolli di numerosi edifici e diverse vittime prima nelle province di La Spezia e di Massa Carrara e ora a Genova non è stata maggiore di quella risultante da almeno un secolo di osservazioni, occorre riconoscere che ciò che soprattutto ha determinato l’alluvione è stata la mancanza dei necessari servizi e l’omissione di opere di manutenzione e di miglioramento, dovute sia l’una che l’altra alle minori somme che l’amministrazione pubblica ha destinato a tali scopi e forse anche al modo con cui sono state impiegate rispetto al passato.
Si tratta di dare a tali eventi una causa, che deve essere ed è storica e sociale, quindi legata al ‘modus operandi’ di coloro che controllano oggi le leve dell’amministrazione statale e locale italiana. D’altronde, non è questo solo un fenomeno italiano, ma di tutti i paesi: disordine amministrativo, ruberie, imperversare dell’affarismo nelle decisioni della macchina pubblica, sono ormai denunciati dagli stessi conservatori e negli Usa sono stati posti in relazione anche con i pubblici disastri (cfr., ad esempio, l’alluvione di New Orleans nel 2005).
A tale proposito può essere utile uno scorcio della storia dell’amministrazione italiana, a partire dall’unità nazionale. Essa all’inizio funzionava bene ed aveva forti poteri, poiché la giovane borghesia italiana per arrivare al potere e affermare i suoi interessi aveva dovuto passare per una fase eroica ed affrontare sacrifici, talché non mancavano quadri direttivi e funzionari statali pronti a prodigarsi e meno attratti da fini di lucro. A questa borghesia non difettava, insomma, la carica dell’entusiasmo per liquidare le resistenze dei vecchi poteri e delle macchine statali delle varie parti in cui il paese era prima politicamente suddiviso. Gli imbrogli dovevano cominciare col trasformismo bipartitico del 1876. Nondimeno, in tali condizioni fu costruita una macchina amministrativa giovane, cosciente ed onesta.
Sennonché, a mano a mano che il sistema capitalista si sviluppa in profondità ed estensione, la burocrazia subisce un doppio assalto alla sua egemonia ed al suo rigore gestionale. Nel campo economico i grandi imprenditori di opere pubbliche e di settori della produzione assistiti dallo Stato moltiplicano le pressioni. Parallelamente, nel campo politico il diffondersi della corruttela nel costume parlamentare fa sì che ogni giorno i “rappresentanti del popolo” cerchino di influire sulle decisioni dell’ingranaggio esecutivo e dell’amministrazione generale, che prima funzionava con rigida impersonalità e imparzialità. Le opere pubbliche che prima venivano progettate dai professionisti più competenti, del tutto indipendenti nei loro giudizi e pareri, cominciano ad essere imposte dagli esecutori: la macchina burocratica diventa tanto meno utile alla collettività quanto più è onerosa.
Questo processo si aggrava nel periodo giolittiano, e tuttavia la situazione di crescente prosperità economica fa sì che i danni siano meno evidenti. Dopo la grande guerra la borghesia italiana “cambia spalla al suo fucile” e si ha il fascismo. Il concentrarsi della forza poliziesca dello Stato, insieme con il concentrarsi del controllo di quasi tutti i settori dell’economia, permette, ad un tempo, di evitare l’esplosione di moti radicali delle masse e di assicurare alla classe padronale ampi margini di azione. La manovra della macchina statale e la stessa legislazione speciale sono messe in modo palese al servizio di iniziative che hanno quale unico scopo la speculazione e il lucro. La legislazione che trattava di fiumi, e che aveva raggiunto verso il 1865 alti livelli di elaborazione, diventa una rete a maglie sempre più larghe aperta a tutte le manovre, ed il funzionario statale è ridotto al ruolo di una marionetta delle grandi imprese. I servizi idrogeologici, d’altra parte, sono proprio tra quelli che contrastano radicalmente con l’ideologia della tanto celebrata iniziativa privata: essi infatti richiedono un assetto unitario e l’esercizio di un pieno potere. A questo proposito, Stefano Jacini ebbe a scrivere nel 1857: «La ragione civile delle acque trovò in Giandomenico Romagnosi un immortale trattatista». In altri termini, l’amministrazione e la tecnica borghese avevano anche allora scopi di classe, ma erano una cosa seria: oggi sono soltanto dei carrozzoni.
La deriva che ha portato alla degenerazione, anziché al progresso, del sistema delle difese idrogeologiche nel nostro paese e, in particolare, nel nostro territorio, è un processo che trae origine dalle vicende secolari di un regime di classe. In parole povere, se una volta la burocrazia, indipendente se non onnipotente, studiava a tavolino i suoi progetti e poi bandiva una gara chiamando le “imprese” a concorrere per i pubblici appalti, e le costringeva ad una rigorosa esecuzione, talché, in linea di massima, la scelta delle opere a cui dedicare gli stanziamenti era fatta secondo criteri generali; oggi il rapporto è invertito. Debole e serva, la burocrazia tecnica si fa stendere i progetti dalle imprese stesse e li passa senza quasi guardarli, e le imprese ovviamente scelgono quegli interventi che offrono profitto e lasciano cadere le opere più delicate e complesse che comportano maggiore impegno e maggiori spese.
Allorché si è realizzato il passaggio dalla dittatura fascista alla democrazia parlamentare, le speranze riposte in un miglioramento della politica idrogeologica sono state ben presto deluse e il male si è progressivamente aggravato. Sarà un economista liberale, Alberto De Stefani, a lanciare un ammonimento che suona oggi quanto mai attuale: «Non si insisterà mai abbastanza sulla necessità di reagire al sistema di concentrare l’attività degli uffici esclusivamente o quasi nella progettazione ed esecuzione di grandi opere». Il De Stefani non vedeva la portata radicale di una simile critica, egli si limitava a deplorare che si trascurassero la conservazione e la manutenzione delle opere esistenti e ci si desse a tracciare i piani di nuove grandi opere infrastrutturali. «Si spendono decine di miliardi per effetto degli allagamenti (e domani centinaia) dopo aver sistematicamente lesinati e negati i pochi fondi per le opere di manutenzione e persino per la chiusura delle rotte», scriveva questo economista di notevole calibro nel 1951, e aggiungeva questa considerazione: «Noi difettiamo tutti di spirito conservativo per abbondanza di fantasia incontrollata».
In verità, non è un fatto di psicologia nazionale, come inclinava a credere il De Stefani, poiché in gioco vi era allora, e vi è oggi, niente di più e niente di meno che la logica della produzione capitalistica. Ormai il capitale non è in grado di assolvere la funzione sociale di trasmettere il lavoro dell’attuale generazione alle future e di utilizzare per questa il lavoro delle passate. Esso non ricerca appalti di ordinaria manutenzione, ma giganteschi affari legati alla costruzione di opere pubbliche (cfr. Tav e ponte di Messina): per renderli possibili, non bastando i cataclismi della natura, il capitale crea, per ineluttabile necessità, quelli umani, e fa della ricostruzione un altro lucroso affare. Ecco perché, se anche si desse all’impresa capitalistica la possibilità di investire nelle opere di sistemazione idrogeologica i capitali delle commesse per armamenti, essa li userebbe nel modo di sempre, imbrogliando e speculando al mille per cento e brindando, se non alla prossima guerra, alla prossima inondazione.

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