L’articolo qui “postato”, recensione di un libro di Adriano Prosperi, mi pare molto ricco di informazioni e di indicazioni di approfondimento. Che il “razzismo operativo” avesse matrice cattolica era da tempo un sospetto non solo mio; in queste ricerche sembra trovare una solida conferma. (S.L.L.)
Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, il Cattolico |
Pochi se ne sono accorti, ma è in corso una discussione piuttosto accesa, soprattutto accademica, su un tema spinoso, la cui posta in gioco è alta. Si è tornati a parlare, in altre parole, del processo di Civilizzazione portato avanti dall’Occidente: un tema su cui ci si lacerò qualche lustro fa, quando uscì il primo volume di Black Athena di Martin Bernal (1987). Era un libro, qualcuno se ne ricorderà (tra l’altro è stato appena riproposto dal Saggiatore), che in quel lungo processo dava il primato cronologico all’Africa e all’Asia invece che all’Europa.
Nel caso di cui si sta parlando la discussione è invece sul fatto che l’Occidente ha creato e coltivato per secoli – o addirittura millenni – il razzismo sfociato nell’Olocausto e nei genocidi del Novecento. Un passaggio fondamentale nell’elaborazione di tesi del genere è stato il libro di Benjamin Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity (2004), che poi ha avuto uno svolgimento rilevante in un successivo convegno e in una raccolta di saggi di vari autori pubblicata dalla Cambridge University Press due anni fa (The Origins of Racism in the West, a cura di Miriam Eliav-Feldon, dello stesso Isaac e di Joseph Ziegler).
Isaac ha fatto risalire l’elaborazione dell’idea di razzismo all’antica Grecia e a Roma, per poi scendere, in The Origins of Racism, per i rami del Medioevo, della Spagna del Tre-Cinquecento, fino ad arrivare al protestantesimo. Isaac e i suoi collaboratori hanno quindi tagliato alla radice l’idea edificante che l’Europa abbia avuto una missione storica di civilizzazione. Che è un’idea che invece – contro ogni evidenza – da ultimo sembra aver preso largo piede: si ricordi i peana alla Civiltà europea che si udirono quando le nostre élite politiche cercavano (invano) di elaborare una Costituzione europea. O si pensi all’ircocervo storico che è la «civiltà ebraico-cristiana», che ancora oggi qualcuno cerca di imporre come fondamento della nostra Europa.
Si capisce quindi che le tesi di Isaac e collaboratori siano state, come è successo, osteggiate.
È nell’ambito di questo tipo di discussioni che si deve inquadrare l’ultimo libro di Adriano Prosperi,
Il seme dell’intolleranza (sottotitolo: Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492, Laterza): un libro lieve ma duro, asciutto, concreto e – grande qualità – propositivo di tesi. Il suo tema è l’analisi di una delle date-cardine della storia mondiale, il 1492. Prosperi ricostruisce ciò che di fondamentale accadde in quell’annus mirabilis in Spagna, paese allora guidato dal re Ferdinando d’Aragona e dalla moglie Isabella di Castiglia. Tre sono gli avvenimenti su cui si concentra e che si succedettero a distanza di pochi mesi: il 2 gennaio cadde l’ultimo caposaldo del dominio moresco, Granada; il 31 marzo i due re firmarono l’editto di espulsione dalla Spagna di tutti gli ebrei, da completare entro la fine di luglio; il 17 aprile fu firmato l’accordo degli stessi con Colombo per l’invio delle tre caravelle in quelle che molto più tardi divennero le Americhe.
Il libro collega tra loro questi avvenimenti nell’unico progetto (davvero grandioso) dei due re, e soprattutto di Ferdinando: un personaggio di cui Machiavelli capì e descrisse con precisione la grandezza del dominatore e l’ambiguità dei princìpi. Era il progetto di fare della Spagna la più grande potenza del Continente, fornendola, allo scopo, di un profilo identitario fortissimo: l’Hispanidad, che a quel punto era stata liberata da qualsiasi limitazione territoriale, e ora era anche purificata da presenze che avrebbero potuto minarne la caratteristica fondamentale, la natura cattolica. Infine, con Colombo, veniva proiettata verso la conquista di enormi spazi esterni.
Ed ecco il razzismo, anzi, «il primo tentativo di soluzione radicale della questione ebraica in Europa» (p. 83).
A differenza di Isaac e di molti dei saggisti di The Origins of Racism, Prosperi non scrive però una storia delle idee, ma storia vera e propria, ricostruisce avvenimenti ed espone ragioni e cause. Perché l’autore di questo notevole libriccino identifica (o meglio, cauto, propone di identificare) il punto di passaggio verso un vero e proprio razzismo operativo. È la questione dei convertiti ebrei (conversos). Il decreto di espulsione del 31 marzo 1492 dichiarò come propria ragione sostanziale la necessità di separare in via definitiva gli ebrei dai cristiani e tra questi, in primis, proprio i conversos. Prosperi illustra e commenta un paio di documenti che mostrano che il decreto fu in parte ricopiato da una lettera dell’Inquisitore Tomás de Torquemada, scritta appena undici giorni prima (il 20 marzo) al vescovo della città di Girona, per ordinare che tutti gli ebrei fossero espulsi da quella città. Quella lettera si diffondeva sul problema dei conversos, e sul fatto che essi facilmente venissero convinti (e convincessero altri ebrei) a ritornare alla loro fede originaria. Fu quello il punto di slittamento dalla persecuzione religiosa a quella razziale vera e propria: da allora in poi, dopo un atto così grave e massiccio come l’espulsione da tutto il paese di tutti gli ebrei, i conversos divennero una minaccia da stanare. La questione diventava le radici famigliari, non la religione.
Così il concetto di limpieza de sangre, già penetrato nel paese negli anni precedenti dietro all’Inquisizione, da una parte andò a rafforzare quello di Hispanidad; dall’altra divenne un criterio selettivo all’interno delle istituzioni per eliminare gli elementi «pericolosi», coloro che non avevano ascendenze pure. Se già uno storico come Yosef Yerushalmi aveva identificato nelle vicende spagnole l’apparizione del «concetto razziale degli ebrei», Prosperi dà corpo a fatti e motivazioni precisi.
Siamo ben prima della Conquista delle Indie e dal razzismo predatorio che se ne sviluppò. E ben dentro una storia dell’Occidente europeo, dove si vedono nascere nuovi stati e imperi e dove una religione, quella cattolica, ancora non lacerata da Martin Lutero, fornisce ispirazione. Proprio in questo nodo potrebbe essere nato (ed essere diventato «modello») un razzismo fornito di motivazioni, che elaborava decisioni, affrontava «problemi» ed escogitava soluzioni.
È inutile, a questo stadio, cercare una continuità diretta tra il razzismo del 1492 e, mettiamo, quello biologico nazista e di Mussolini. Ma certo colpisce – e Prosperi, che è pure un avvertito storico dell’epoca contemporanea, lo sa – che alcune «soluzioni» escogitate allora le ritroviamo poi nei due regimi razzisti europei: come l’uso degli elenchi dei cognomi (p.112) per identificare gli ebrei; l’attuazione di una spogliazione di stato, ma oculata, dei beni degli espulsi e degli espellendi; l’appoggio alla religione per dichiarare l’identità razziale, che come si sa divenne un cavallo di battaglia di Mussolini. Del resto, una pagina del diario di Claretta ci dice che il duce, per la persecuzione degli ebrei, aveva presente qualche lontano precedente storico, anche se purtroppo la donna non capì bene e trascrisse un nome improbabile.
Un libro così pone molti utili interrogativi e sarebbe interessante che l’autore in futuro ne affrontasse qualcuno. Per esempio, viene da chiedergli se ritiene che, nella definizione di quel «razzismo operativo», abbia avuto più peso l’intervento dello Stato (o del «potere», come dice Prosperi) o quello di una Chiesa talvolta perfino benevola verso i perseguitati. E inoltre, se anche in seguito venne stabilito un rapporto così necessario, in altri stati moderni che si delinearono dopo la Spagna, tra la persecuzione razziale e la nascita di quegli stessi stati. Potrebbe essere una bella sorpresa scoprire che la persecuzione è in qualche modo proprio connaturata allo stato moderno europeo.
“alias - il manifesto” 8 ottobre 2011
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