4.2.13

Libia 1911-1912. L’armata dei nuovi media

Imperialismo e comunicazioni di massa.
Un nuovo senso del reale
Luca Mazzei, Giovanni Spagnoletti
1912, Ufficiali italiani passano in rivista prigionieri libici
“La Guerra. Chi può ormai restare indifferente a questa parola?E chi non sente il desiderio di seguirne le fasi? Le descrizioni di una guerra che si leggono giornalmente, non bastano ad appagare la bramosia del pubblico. Il cinematografo supplisce esso pure a questo bisogno, e oggi se ne ha prova nell’assistere alle bellissime cinematografie che si rappresentano al Cinema-Centrale di piazza del Duomo (di Milano), dove tutti i giorni si riproducono gli episodi salienti della guerra Italo-Turca”.
Già. La Guerra del 1911-12. La prima del ’900 per l’Italia. Iniziata il 29 settembre 1911 con il bombardamento di Tripoli, il 13 gennaio 1912, giorno in cui sul milanese “Il Secolo” usciva questo piccolo corsivo redazionale, aveva già fatto decine di migliaia di morti. Sulle dune. Fra le trincee. Nelle case. Sulle forche fatte appendere da Caneva sulla pubblica via. Tutti ne parlavano. Anche all’estero. Eppure è una guerra che, in seguito, a lungo abbiamo dimenticato, lasciandola a una memoria pubblica debole che spesso la ha confusa con altre (chi l’ha iniziata? e perché? e che succedeva nel 1915-’18, quando «quella mondiale» era in corso? e Graziani quando arriva? e la colonia quando la perdiamo? e i turchi? che ci facevano i turchi?).
Qualcosa in più oggi lo si sa.
Delle stragi, delle difficoltà nell’avanzare, della sconfitta del fronte pacifista, spaccato in due e convertito all’azione in pochi mesi, delle motivazioni che mossero gli interventisti, dei confronti accesi che scatenò. Il dibattito storico, per opera soprattutto di studiosi come Angelo Del Boca prima, e Nicola Labanca poi, è stato su questo, negli ultimi decenni, fruttuoso e serrato. Poco invece si conosce tutt’oggi di altri aspetti, come il presentarsi di quel conflitto agli occhi dei cittadini italiani e del mondo come guerra coloniale diversa, cioè come prima «grande guerra» tecnologica. Non quindi come «eroica piccola avventura coloniale di un popolo che diventa grande e che ben presto si farà vedere» (in fondo era l’idea retorica e magniloquente di Pascoli, con il suo mito della «Grande proletaria» che si muove…) ma piuttosto come sogno a occhi ad aperti di un’industria in crescita, nonché di un’Italia che voleva essere ricordata, a qualunque costo, per il suo grande potenziale d’innovazione.
Nei 12 mesi e 20 giorni che racchiusero il conflitto (quello ufficiale, perché la guerriglia con i libici continuò anche dopo, e fu anzi più sanguinosa di prima), l’Italia d’altronde non si fece mancare niente. Corazzate, sommergibili e cacciatorpediniere sul mare. Camion e cannoni semoventi sul terreno. Palloni frenati, dirigibili, aerei, foto, riprese cinematografiche e bombe, dal cielo (queste ultime, triste primato nella storia).
Ma più che quello tecno-offensivo fu soprattutto l’apparato mediale che nacque e s’ingrandì a vista d’occhio. Perché come si dimostrò pienamente in quell’occasione, non è solo la bomba che esplode quella che permette a una nazione di imporsi ma lo è anche il medium, cioè quello strumento ancor più moderno che rende la bomba arma capace di scoppiare altrettanto efficacemente in ogni luogo: a qualche decine di km dal fronte come nella case dell’oltremare dove la si vive solo immaginandola.
Ecco dunque arrivare in campo, insieme ai fucili e ai cannoni anche grandissimi apparati comunicativi. Prime fra tutte, quasi a spalla delle operazioni di taglio dei cavi telegrafici sottomarini usati dal nemico (curioso anche il modo con cui si distrussero, prima intrufolandosi nelle comunicazioni con un tentativo di contatto in francese, poi, alla risposta positiva, il taglio del cavo, come in un racconto di Sherlock Holmes), le grandi stazioni radio «ultrapotenti».
Ecco il telegrafo mobile, in uso qui per la prima volta per motivi militari. Li metterà in piedi entrambi lo stesso Marconi, assunto dall’esercito come ufficiale in servizio non effettivo. E poi ancora, a gennaio, ecco arrivare sulle linee nemiche, dall’aereo, come pioggia dal cielo, i volantini in arabo, appropriandosi di un sistema appena inventato dai francesi in Marocco pochi giorni addietro. E poi gli interventi letterari (Pascoli, e d’Annunzio, ma anche Marinetti che proprio qui vedendo per la prima volta in azione aerei, telegrafi, mitraglie e cinematografie, pensava i primi pezzi del suo ZangTumb Tumb) e le canzoni (tante canzoni), nonché le mille marcette (tantissime anche quelle, forse ancor di più) che accompagnano, una per una, tutte le partenze per il fronte e i ritorni in patria degli stralunati e delusi soldati, celebrati paesino per paesino quando non portati in processione, sindaco in testa e bandierine alla mano, quali santi della nuova patria.
Ma il colpo di modernità più rilevante arriva subito, a Tripoli, il 14 ottobre, quando poco dopo lo sbarco del grosso delle truppe, insieme all’esercito delle salmerie e delle vettovaglie arriva il primo drappello dell’armata dei giornalisti. Fra loro, controllatissimi come gli altri (regole stringenti, programmi serrati) anche una figura in più: i cinematografisti. Sì anche loro, perché in Italia (e non solo) si è capito che molto del successo sta proprio in quella sottile linea che divide la comunicazione dei momenti gloriosi (che tutti in patria si aspetta siano immediati) dalla retorica più noiosa della propaganda.
Così, se già 10 anni prima la guerra boera ha visto i reporter di Edison ricostruire sul campo scene d’attualità, e se del pari è stato per la guerra russo-giapponese e per quella franco-marocchina, anche la guerra libica avrà ora le sue cinematografie. Tante. Molte di più. Tre le ditte che si fanno concorrenza la Cines, la Pathé, la Luca Comerio Film, le prime due accreditate presso l’Esercito, la terza, probabilmente, presso la Marina (un’altra, una piccola associazione di cinematografisti, la L.S.S.P., legata al quotidiano “Il Mattino” si accoderà in corsa in primavera, al tempo delle operazioni nell’Egeo).
Numerose le corrispondenze che mandano. Anche due per settimana a testa. E il pubblico risponde con animazione. Forse anche troppa. Delirii, ma anche fischi botte e spari (contro lo schermo, contro chi fischia, contro chi fa rumore, contro la musica…), e seppure solo in altri paesi, tumulti e arresti.
Si scopre così insieme al valore metaforico di un medium come il cinema che ti fa vedere la battaglia senza pericolo che qualche colpo di fucile turco-arabo sfugga per caso fuori dalla film…— come scrisse al tempo Nino Salvaneschi sul “Resto del Carlino” — la sua incredibile e incontrollabile potenza emozionale, il suo accendere passioni difficili poi da disciplinare. Perché, se come diceva l’ignoto pubblicitario della Pathé, la parola non bastava più (ma si dimenticava le tante lettere che giungevano dal fronte e che mostravano il nascere e diffondersi accanto alla retorica ufficiale, della scrittura popolare), neanche la retorica dello schermo, così come la si conosceva infatti, entro poco sarebbe servita più a reggere il colpo. La morte, il dolore, la sofferenza, di cui si facevano latrici le lettere dal fronte, incontrandosi con la improvvisa fotogenia della guerra, portarono ben presto alla richiesta, comparsa in sordina nel 1912, poi fattasi sempre più pressante, di corrispondenza fra fisicità dello schermo e riproduzione cinematografica.
Non basterà più d’ora in poi far muovere persone e oggetti nel quadro per far sì che tutto sia percepito come vero. Punto massimo della stagione delle cineattualità, la guerra del 1911-’12 segnò anche l’inizio della loro morte. Nonché il sorgere di un nuovo senso del reale «socialmente corretto» nella forma della propaganda. Il cinema di guerra moderno poteva prendere la parola.

alias 8 ottobre 2011

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