3.2.13

"Quell'uomo è un comunista!". Rugby, imbrogli e razzismo (Peter Freeman)

Peter Freeman è tra i più competenti giornalisti di rugby, oltre ad essere un antico militante della sinistra extraparlamentare. L'articolo che segue fu scritto per "alias" in occasione della Coppa del Mondo in Nuova Zelanda nell'ottobre 2011: è pieno di curiosità e di episodi rivelatori. (S.L.L.)
Storie del mondo ovale
Dundedin
Il rugby tiene molto alle forme. Ha i suoi riti e le sue consuetudini, e potete star certi che farà sempre il possibile per preservarle. Culturalmente è conservatore: non ama le novità e ancor meno le apprezzano i rugbymen che, se potessero, non sposterebbero un ago pur di non modificare il loro
mondo di riferimento. E’ un atteggiamento che ha i suoi pregi e i suoi difetti, uno dei quali è una certa dose di ipocrisia che spesso affiora quando chi è chiamato a ordinare le regole della casa oppone un rifiuto ostinato a ogni ventata di aria fresca.
La questione del professionismo è stata per molto tempo la cartina di tornasole dell’ipocrisia rugbistica: tutti sapevano che questo o quel campione veniva pagato per giocare, e che quelli dell’emisfero Sud venivano in Europa dietro lauto compenso, ma tutti facevano finta di nulla. Per accettare il professionismo – avvenne dopo la coppa del mondo del 1995 – ci vollero più di cento anni, lo scisma della Rugby League e la certezza che il rugby, se gestito diversamente, poteva diventare una macchina per fare soldi, cosa che è puntualmente accaduta.
Nei giorni scorsi i vertici della Rugby World Cup hanno confezionato un piccolo capolavoro di ipocrisia. Accade che durante il match Inghilterra-Romania gli inglesi si siano fatti beccare in flagrante mentre commettevano un imbroglio. Al momento di calciare i penalty due membri dello staff cambiavano di soppiatto il pallone: Toby Flood si vedeva così recapitare un pallone diverso da quello utilizzato, certamente meno gonfio e dunque più facilmente indirizzabile tra i pali. Una volta eseguito il calcio, il pallone «truccato» tornava a riposare dalle parti della panchina inglese. E’ stato presentato ricorso (probabilmente dagli scozzesi, che di lì a poco avrebbero giocato contro gli inglesi) per violazione delle regole del gioco. In altri casi sul capo dei colpevoli sarebbe calata la mannaia della commissione disciplinare.
Ma gli inglesi non sono una federazione qualsiasi: sono la federazione, sono quelli che il rugby lo hanno inventato e che nell’International Board contano più di tutti. E allora la RWC ha pensato bene di rifilare la patata bollente direttamente alla Rugby Football Union, ovvero agli stessi inglesi, i quali di lì a poco hanno fatto sapere: a) di avere «investigato» e che le cose stavano effettivamente così; b) che quanto era avvenuto era effettivamente «scorretto» e «disdicevole» per l’immagine del torneo e del rugby inglese, ma che i due colpevoli erano incorsi in«un errore» di interpretazione delle regole; c) che i due responsabili sarebbero stati sospesi per un match, quello contro la Scozia; d) di ritenere che la sanzione comminata fosse più che sufficiente e che la RWC non avrebbe richiesto ulteriori interventi punitivi.
Da parte sua la RWC Limited (la società che ha in mano tutto il comparto economico del torneo) ha reso noto con una nota di «apprezzare» l’intervento tempestivo della RFU: le rassicurazioni della federazione inglese erano certamente convincenti. L’incidente era da considerarsi chiuso e non vi sarebbero state ulteriori note ufficiali. Quanto all’opinione dei rumeni, la «parte lesa», nulla risulta agli atti. I panni sporchi si lavano in famiglia.
Altro caso è quello di Fiji. E’ un paese che vive da tempo sotto la dittatura dei militari. L’ultimo di una lunga serie di colpi di stato è datato 2007, quando le forze armate, guidate dal commodoro Josaia Bainimarama, hanno sciolto il parlamento e rovesciato il governo (che loro stessi avevano insediato). Da allora il potere a Suva è un affare a due tra lo stesso Bainimarama (primo ministro) e il presidente Iloilo. Nel 2009 è stata sospesa la costituzione e disciolta la Corte d’Appello (l’equivalente della nostra Consulta). Il Commonwealth, di cui Fiji è membro, ha chiesto più volte il ritorno alla democrazia e libere elezioni, senza ottenere soddisfazione. Allo stato Fiji resta membro, seppure «sospeso», del Commonwealth; altrettanto è avvenuto con il Forum delle Isole del Pacifico, il più importante organismo intergovernativo dell’area. Quello di Fiji non è un regime feroce e sanguinario ma nel paese non si respira una bella aria. La censura funziona a pieno motore: a capo
della televisione di stato è stato messo un militare, e così è accaduto per la federazione rugby. A fronte di tutto questo l’atteggiamento dell’International Rugby Board è stato quanto meno blando, per non dire di peggio. Per questi mondiali è stato chiesto al governo di Fiji di evitare se possibile la presenza di militari al seguito della squadra. Un po’ poco per uno sport che per tanti anni si è barcamenato tra mille ipocrisie sulla questione dell’apartheid e che vorrebbe invece offrire un’immagine di fratellanza. Per la cronaca qui in Nuova Zelanda la squadra è andata malissimo, vincendo soltanto il primo match con la Namibia e incassando poi sconfitte durissime. Pare che le critiche dei media alla conduzione della squadra siano state assai contenute per non irritare la giunta.
Nella storia del rugby è avvenuto anche di peggio.
Resta celebre quel che accadde nel 1970 quando, in pieno regime di apartheid, gli All Blacks andarono in tour in Sudafrica con una squadra che comprendeva anche giocatori maori. La cosa fu possibile non perché gli organismi internazionali avessero fatto pressione sul governo sudafricano ma perché ai giocatori maori fu concesso di recarsi in tour con la qualifica di «bianchi onorari».
A John Taylor accadde di peggio e la sua è la storia di un’ignominia. Era il terza linea del Galles dei primi anni settanta (il miglior Galles di sempre) e giocò con i British and Irish Lions nel celebre tour che la selezione disputò in Nuova Zelanda nel 1971 (l’unico volta che i Lions riuscirono a vincere laggiù). Taylor decise che non avrebbe più accettato di giocare contro gli Springboks finché i razzisti avessero governato il Sudafrica. La federazione gallese dichiarò di rispettare la sua decisione e che in nessun caso questo avrebbe compromessola sua carriera internazionale. E invece John Taylor, che era considerato un titolare inamovibile, non giocò più un match in quella stagione. Privatamente gli fecero sapere che se invece che la maglia gallese avesse indossato quella dell’Inghilterra, la sua carriera si sarebbe chiusa lì.
Ma la rappresaglia più pesante arrivò tre anni dopo, quando gli All Blacks andarono nelle isole britanniche e alla fine del tour sfidarono i Barbarians nel tradizionale «final challenge». Si giocò a Cardiff il 27 gennaio 1973, e quella fu forse la partita più famosa di tutta la storia del rugby: vinsero i Barbarians e Gareth Edwards segnò quella che è considerata «The Try», la meta più bella di sempre. John Taylor avrebbe dovuto essere lì, in campo. E invece non c’era. John Dawes, il capitano dei Baa’baas e compagno di squadra di John Taylor nei London Welsh chiese ragione della sua assenza tra i convocati. La risposta gli fu data dal presidente dei Barbarians, Hugh Llewellyn Glyn Hugues, un ex ufficiale pluridecorato, militare tutto d’un pezzo. «No, lui non gioca. Quell’uomo è un comunista».

“alias – il manifesto", 8 ottobre 2012

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