2.7.13

Metamorfosi di Pinocchio (di Ivan Tassi)

Scriveva Italo Calvino nel 1981, in occasione del centenario di Pinocchio, che la fiaba di Collodi è in grado di generare nella fantasia dei lettori immagini di straordinaria potenza: «ogni apparizione si presenta in questo libro con una forza visiva tale da non poter più essere dimenticata». È forse anche per questo motivo che le avventure del burattino di legno, fin da quando apparvero per la prima volta a puntate sul «Giornale per i bambini», furono accompagnate dalle illustrazioni. Dal 1881 ad oggi, sono state circa duecento (in media più di una per anno) le edizioni illustrate che si sono susseguite in una varietà di realizzazioni sorprendente e inesausta. Anche le edizioni più «tecniche», destinate in ultima istanza ad un pubblico squisitamente adulto, non sanno rinunciare agli apparati grafici: al di là delle consuete esigenze editoriali dei libri per ragazzi, Pinocchio sembra intriso di una prodigiosa, enigmatica carica, sempre pronta a rimettere in moto l'estro figurativo dei suoi cultori.

Un burattino in fuga
Che una simile energia possa dirsi tutt'altro che esaurita, ce lo dimostra del resto anche l'ultima edizione delle Avventure di Pinocchio (introduzione di Tiziano Scarpa, con una nota alle illustrazioni di Emilio Varrà, I Millenni, Einaudi, 315 pp., 75 euro), in cui Lorenzo Mattotti, maestro del fumetto e della graphic novel, torna per la seconda volta nella sua carriera ad accompagnare la storia del burattino di Collodi con immagini splendide. Come testimonia l'intervista inclusa nella nota introduttiva di Emilio Varrà, a sollecitare l'interesse di Mattotti è stata la natura inquieta delle incessanti metamorfosi di Pinocchio, che per tutta la durata del racconto si rivela in preda al demone della trasformazione. Prima di risvegliarsi, nell'ultimo capitolo, con le sembianze di un ragazzo in carne e ossa, il burattino recita come marionetta per il teatro di Mangiafuoco, svolge le mansioni di cane da guardia contro le faine in un pollaio, si tramuta in ciuco in seguito alla gita nel Paese dei Balocchi; e dopo essere diventato cibo per la digestione del terribile Pescecane, finisce per convertirsi in bestia da soma al servizio di un ortolano.
È quasi impossibile, allora, non lasciarsi trascinare da questa anomala, ipercinetica refrattarietà alla stasi, e non interrogarsi sui moventi che spingono Pinocchio a non perdurare mai troppo a lungo nella medesima condizione.
Le metamorfosi senza tregua potrebbero innanzitutto costituire un'agile strategia di difesa. Pinocchio - notava già Benedetto Croce - è «la vita»: rappresenta un istinto dinamico e primigenio, ostile a qualsiasi forma di coercizione. A partire da Mastro Ciliegia e da Geppetto, tutti i personaggi che nel corso del libro si imbattono nel burattino desiderano imprigionarlo in un ruolo o sottoporlo a un progetto, per poi ricavare dal suo legno «da catasta» un tornaconto privato; eppure ognuno di loro è destinato a veder prima o poi delusi, trasgrediti o sbeffeggiati i propri piani. Come ha specificato Giorgio Manganelli, Pinocchio risulta, in questo senso, un «animale da fuga»: sempre «di corsa» da un capitolo all'altro, non si sottrae soltanto ai raggiri del Gatto e della Volpe, alle brame di quanti vogliono friggerlo in padella o alle ambizioni materne della fata Turchina, ma anche al proposito scioperato di «correre dietro alle farfalle», che lui stesso, nelle prime pagine della fiaba, formula per sé al cospetto del Grillo-parlante. Incapace di ubbidire ad ogni sorta di programma definitivo, il burattino si configura dunque, a tutti gli effetti, come un personaggio determinato a scappare di mano. Il primo a dover scontare le conseguenze di questa riottosa vitalità, d'altro canto, fu lo stesso Collodi, che si trovò ben presto prigioniero di un'entità narrativa ingombrante.
Quando lo scrittore consegnò a Guido Biagi, responsabile del «Giornale per i Bambini», i primi episodi della fiaba, aveva già alle spalle una carriera di giornalista e romanziere, che lo aveva condotto a pubblicare Un romanzo in vagone (1856), I misteri di Firenze (1857) e due raccolte di racconti, cronache, schizzi umoristici intitolate Macchiette (1879) e Occhi e nasi (1881). Si tratta - secondo Alberto Asor Rosa - di una produzione «frastagliata» e «sfarfallata», che nei confronti del lavoro letterario testimonia un atteggiamento trascurato e «riduttivo», pronto a riversarsi anche su Pinocchio. Come ci rivela il discontinuo ritmo di pubblicazione delle diverse avventure, Collodi cercò infatti, in più di un'occasione, di abbandonare la stesura delle peripezie del burattino prima della sua agognata trasformazione in ragazzo. Furono le esigenze economiche e le insistenze del pubblico che, tuttavia, lo convinsero a proseguire anche controvoglia, e a sviluppare fino in fondo le potenzialità inscritte in un personaggio dalle dirompenti attrattive.
Non c'è da stupirsi allora se l'indolente Collodi, sopraffatto dalle forze di un'idea letteraria ribelle, reagì manifestando nei suoi confronti una sorta di punitivo, insofferente sadismo. Basta rileggere il racconto, e inseguire Pinocchio nei suoi andirivieni, per accorgersi che alle sue spalle si profila l'ombra di uno scrittore-burattinaio spietato e ingegnoso nell'architettare un percorso di vessazioni, torture, patimenti a catena. Da una parte all'altra del libro, il burattino viene colpito, truffato, deriso, mutilato, sottoposto in continuazione ai morsi della fame, alle ristrettezze della miseria, ai colpi, agli insulti e alle angherie mortali di quanti lo circondano. «La crudeltà di Collodi - ha commentato a questo proposito Mario Lavagetto - è raffinata, sottile, instancabile». E non sempre la vediamo impiegata a punire la trasgressione o la disobbedienza del burattino: persino quando è ancora un immobile e innocente pezzo di legno da dirozzare, Pinocchio è costretto a subire le gratuite percosse di Mastro Ciliegia, che, inquietato dalla sua «vocina», prende a «sbatacchiare» il ceppo di legno contro le pareti del suo laboratorio di falegname.

«Seguimi brutale lettore»
Può darsi allora che il sadismo vada ricollegato a ragioni d'ordine più generale, riguardanti l'universo delle fiabe. Le fiabe - scriveva Calvino - sono «vere», perché nelle loro trame è possibile riconoscere una specie di catalogo esaustivo dei destini umani. Non importa poi che quelle stesse trame siano dotate di un dispositivo consolatorio, e che nei loro finali, all'insegna di una magica politica del riequilibrio, il male venga per lo più soppiantato e sconfitto dal bene. Quando varchiamo l'incantato territorio della narrazione fiabesca, possiamo star certi che accanto a principi azzurri, nani servizievoli e provvidenziali cacciatori, ci imbatteremo in fanciulle schiavizzate, tetre matrigne, mele velenose, boschi infestati da lupi voraci, e in tutta una nutrita serie di eroi ed eroine costretti a sopportare prove disumane e atroci supplizi. Se dunque possiamo concordare ancora una volta con Calvino in merito alla paradossale «verità» della fiaba, dovremo accettare allo stesso tempo il fatto che il narratore delle fiabe, gettando un ponte sul vero, ci chiama ad essere spettatori e complici delle feroci brutalità connaturate alla vita «reale».
«Seguimi, brutale lettore, e considera a quali mani ingegnose e crudeli sono stato capace di affidare il mio eroe ridicolmente vulnerabile». È questo - secondo quanto affermava Nabokov in una delle sue Lezioni sul Chisciotte - l'appello che sentiamo risuonare fra le pagine della letteratura crudele; ed è questo stesso appello che, in qualche modo, ci apprestiamo a seguire quando entriamo nella singolare «stanza di tortura» rappresentata dalle Avventure di Pinocchio. Chi insegue Pinocchio lungo un itinerario di errori dovuti alla sua incorreggibile ingenuità, non cerca nel burattino un eroe con cui identificarsi. E dal momento che la liberatoria trasformazione in bambino viene rimandata fino all'ultimo capitolo, il piacere del lettore non può che concentrarsi sugli spettacoli di un patimento quasi senza sollievo; risiede, in altre parole, nel veder precipitare il burattino fra le reti delle prevedibili sciagure, di volta  in volta profetizzate, con puntuale chiaroveggenza, dalla «vocina» del Grillo-parlante e di altri personaggi-oracolo. Anche le immagini - in particolare quelle di Mattotti - collaborano, in questa prospettiva, a cristallizzare e ad esaltare il processo di tortura e lo spettacolo del patimento. Da una parte, i disegni di Mattotti, con le loro linee mobili e inquiete, tentano di riprodurre con verve «espressionistica» le spericolate corse di Pinocchio verso la sofferenza; dall'altra, le congelano in una galleria di icone memorabili, suggellando le sequenze essenziali di una fiaba che - dichiara Mattotti nell'intervista a Varrà - ha da sempre esercitato sull'artista un «potere orrorifico».
A quanti si domandassero se poi, in questo modo, Pinocchio sia stato definitivamente catturato, replica Mattotti: «Per quanto ci lavori da anni, credo di no. E forse non si dovrebbe nemmeno».

"il manifesto", 6 dicembre 2008

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