2.7.13

Storia della lotta di classe. Un libro di Domenico Losurdo (Roberto Monicchia)

Puntuale come sempre nella individuazione dei nodi problematici dei testi di cui propone la lettura, la recensione di Roberto Monicchia su “micropolis” di giugno 2013 presenta, a mio giudizio, un momento di ambiguità. Non è chiaro se la lettura “positiva” dell’attuale sviluppo in Cina come lotta contro la “doppia disuguaglianza”, come pure la prospettiva “denghista” e “antimaoista” di Losurdo, sia o no condivisa da Monicchia. Se sì, come parrebbe, io esprimo un forte disaccordo. Credo che il dirigismo del Pcc esprima una tendenza “mandarinale”, legata al cosiddetto “modo di produzione asiatico”, e che si sposi con un sempre più dichiarato “interclassismo” che pone la sordina al tema della disuguaglianza sociale e che determina una osmosi sempre più evidente tra burocrazie politiche e capitalisti ai diversi livelli. Occorrerà ragionarne anche con dati di fatto e non solo sulla base di modelli e formulazioni teoriche. (S.L.L.) 
Parigi 1936, Scioperanti dell'edilizia
Da molti anni Domenico Losurdo è impegnato in una generosa e meritoria battaglia contro la straripante egemonia culturale della destra. A partire dall‘equiparazione tra marxismo e totalitarismo, e anche grazie alle abiure di molti intellettuali di sinistra, la rivoluzione conservatrice ha compiuto un lungo percorso di decostruzione reazionaria, per legittimare l’assolutismo liberista.
Questo percorso di critica dell’ideologia (già sperimentato, per citarne solo alcune, nelle opere su Hegel, Nietzsche, Stalin) continua con La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, Roma-Bari 2013). Negata e contrastata fin dall’apparizione nel Manifesto dei comunisti, la teoria della lotta di classe è stata interpretata e applicata in accezioni tanto diverse da poter fungere da chiave di lettura della vicenda del movimento operaio del XIX e XX secolo.
Losurdo si dedica in primo luogo a chiarire il significato e la portata del concetto così come viene elaborato da Marx ed Engels. Al centro del ragionamento vi è la concezione plurale della lotta di classe, che vale sia in senso storico che in senso attuale: il conflitto capitale-lavoro è solo una delle forme della lotta di classe, che non annulla altre contraddizioni tra le quali hanno particolare importanza la questione femminile e soprattutto quella nazionale. A differenza di Fourier e Proudhon prima e dei socialisti imperialisti alla Lassalle poi, Marx ed Engels riconoscono l’importanza e la legittimità della questione nazionale (la solidarietà con la causa irlandese e polacca è ricorrente) e coloniale (India e Cina). Molto significativa è la decisa presa di posizione per il nord “capitalista” nella guerra di secessione, che indica come obiettivo prioritario l’abolizione della schiavitù: la barbarie dello sfruttamento capitalista si riflette in quella coloniale; la liberazione del proletariato non è una questione economica, ma una “lotta per il riconoscimento”. La dinamica delle lotte di classe è integralmente storica, il che implica un possibile superamento della divisione in classi e l’universale riconoscimento della dignità dei popoli. In questo senso il marxismo nasce e si sviluppa in netta opposizione ad ogni determinismo, tanto quello di chi nega o attenua l’esistenza del conflitto (come nel giusnaturalismo e nel contrattualismo), quanto quello di chi, come Nietzsche, vede nella subordinazione un dato naturale e necessario. L’approdo a questa visione articolata e mobile non è però immediato né pacifica.
Nel 1848, e di nuovo al tempo della Comune, Marx è propenso ad affermare una prospettiva rivoluzionaria unificata sull’asse del conflitto capitale-lavoro.
La molteplicità delle forme e manifestazioni, spesso contraddittorie, in cui si presenta la lotta di classe, acquisisce importanza decisiva nell’epoca aperta dalla rivoluzione sovietica, che a sua volta si sprigiona dalla grande guerra, evidenziando fin dal suo innesco l’intreccio tra questione nazionale e lotta operaia. Lenin è l’interprete più avvertito dell’età dell’imperialismo, di cui coglie la “doppia diseguaglianza” che attraversa il XX secolo: i paesi coloniali o comunque subordinati (come la Russia zarista), non possono realizzare l’emancipazione delle classi subalterne senza uscire dalla dipendenza economica e dall’isolamento politico internazionale. Fin da Brest-Litovsk il governo dei soviet sperimenta per primo il dilemma che tante tragiche scelte imporrà ai regimi postrivoluzionari del ‘900: come espropriare le vecchie classi dirigenti, reperendo contemporaneamente le risorse (in termini di capitali e conoscenze) per sviluppare le forze produttive necessarie a uscire dal sottosviluppo? Lenin affronta il problema con la Nep: bisogna riaprire all’iniziativa economica e al “know how” della borghesia, senza mettere in discussione il monopolio politico bolscevico, perché senza un’adeguata base materiale non è possibile alcuna forma di socialismo.
Vista col criterio della doppia diseguaglianza (sociale e nazionale), lo spostamento verso “sud-est” delle lotte rivoluzione nel novecento non è la confutazione dell’ipotesi marxiana, piuttosto la conferma della natura multiforme e su più piani della lotta di classe. Il realismo “costruttivo” di Lenin è uno dei due poli attorno a cui oscilla il movimento operaio; all’opposto si manifesta a più riprese - come nel 1919-20 - l‘ipotesi di una “guerra civile mondiale” tra le due schiere omogenee della borghesia e del proletariato. Questa visione riduttivistica si accompagna spesso (in Urss e fuori) ad un’identificazione del socialismo con un egualitarismo assoluto, che porta a trascurare la varietà delle lotte o a considerare tradimento e sconfitta qualsiasi altra tendenza. Rientrano in questo schema quanti esaltano la miseria “condivisa” del comunismo di guerra contro la “restaurazione capitalistica” della Nep, come coloro che svalutano la lotta dell’Urss al nazismo perché macchiata da un carattere patriottico. In questo modo si manca la comprensione dell’importanza storica del movimento anticoloniale; del resto il progetto nazista, che proietta in Europa il colonialismo, evidenzia come il capitalismo imperialista si fondi contemporaneamente sull’oppressione di classe quanto su quella nazionale e razziale.
Nella parabola della rivoluzione cinese è contenuto l’intero spettro dei modi di intendere e condurre la lotta di classe. La peculiare esperienza dell’esercito popolare maoista ha al centro la necessità di superare insieme l’oppressione di classe e la dipendenza economica, riconoscendo la funzione progressiva dell’alleanza con la borghesia nazionale in funzione antimperialista. Queste caratteristiche, oscurate da svolte estremiste e catastrofici scacchi, riemergono pienamente con la svolta di Deng, che si rifà ripetutamente all’esperienza della Nep. Precipitosamente liquidata da sinistra come “restaurazione capitalistica”, la strepitosa crescita cinese va invece considerata come l’esperienza più avanzata di uscita dalla “doppia diseguaglianza”. Confermano questa lettura, del resto, gli esiti politici ed economici opposti della crisi del 1989 per Cina e Urss.
La catastrofe sociale e nazionale della Russia postsovietica mostra le similitudini tra quest’epoca e la restaurazione del 1815. Sul piano ideologico il crollo di regimi politici oppressivi e decrepiti diviene discredito di ogni ipotesi di cambiamento, ennesima riproposizione dell‘estinzione della lotta di classe, e insieme rilegittimazione della superiorità occidentale (colonialismo incluso); al modello unico liberale corrisponde sul piano politico il lancio di un progetto globale unipolare. Ma come la restaurazione postnapoleonica chiuse solo momentaneamente l’età delle rivoluzioni, così in pochi anni “superimperialismo” Usa e “fine della storia” sono falliti miseramente. Il paradigma della lotta di classe resta il più adatto a comprendere la storia mondiale. Del tutto di là da venire è invece la possibilità che i diversi conflitti attuali trovino una qualche sintesi, almeno sul breve periodo.

"micropolis", giugno 2013

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