4.7.13

Vittorio Foa. La gradualità del giacobino (Giovanni De Luna)

Negli ultimi due decenni, almeno a partire dalla metà degli anni '80, Vittorio Foa ha cominciato infatti a tessere e ritessere i suoi ricordi, trasformandoli in un racconto avvincente, sfociato prima in quel piccolo capolavoro che fu Il cavallo e la torre, poi in altri libri come quelli con Federica Montevecchi (La memoria lunga) e, da ultimo, con Carlo Ginzburg. Era già vecchio. La vecchiaia è anche uno spaesamento rispetto al proprio tempo: tutto intorno progressivamente spariscono i volti, i linguaggi, i comportamenti in cui erano conficcate le proprie abitudini; si può reagire cercando di fermare il tempo nei propri ricordi, in una sorta di esilio volontario in una cronologia impazzita, oppure si tenta di afferrare il tempo, di inseguirlo anche nelle sue mode e nei suoi tic, di confrontarsi con le sue immediatezze. Vittorio scelse questa seconda via. Utilizzò i suoi ricordi per tracciare la rotta per orientarsi prima nel delirio degli anni '80, poi nel marasma degli anni '90, incrociando lungo quella rotta lo smarrimento della sinistra, il crollo della sua configurazione novecentesca, la devastante realtà delle abiure e delle sconfitte. Da questo incrocio emerse un Foa inedito, chiamato da una sinistra orfana di certezze e in crisi di identità ad ruolo per lui del tutto inconsueto di «padre nobile».
Non lo era mai stato. I suoi esordi erano stati caratterizzati da Giustizia e Libertà, dalla cospirazione antifascista, dal carcere, dalla Resistenza, dalla militanza nel Partito d'Azione. Visse il periodo dal 1932 al 1946 nel segno dell'intransigenza, di un attivismo volontaristico che si nutriva di una insofferenza che investiva non solo il determinismo di Marx, ma anche il catastrofismo della sinistra democratica, che faceva discendere come una fatalità la fine della libertà dalla massificazione delle società europee e dalla vittoria di idee irrazionalistiche. Con i giovani giellisti torinesi Foa condivideva anche una tendenziale ostilità nei confronti del versante filosofico del liberalsocialismo. A Torino itinerari del tipo «lungo viaggio attraverso il fascismo», erano poco frequenti. L'antifascismo si era definito come altro dal regime, in un'opposizione irriducibile e senza compromessi. Il riferimento privilegiato restava sempre quello di Gobetti, la sua idea di libertà come soggetto liberante, come processo di liberazione: il liberalismo gobettiano andava ben oltre il garantismo dei diritti individuali e collettivi di libertà. «La libertà - scriverà in seguito lo stesso Foa - é liberazione, espansione dei soggetti collettivi e nella sofferenza dei soggetti collettivi sta la molla dei processi di liberazione». Si pensava alla democrazia e al socialismo non solo in termini di garanzie istituzionali, quindi, ma come processo, con attori in movimento.
«Non riuscivo», aggiungeva Foa, «ad appassionarmi ai grandi confronti ideologici fra liberalismo e socialismo e quindi al socialismo liberale o al liberalsocialismo mentre ero profondamente interessato agli eventi concreti e alla loro direzione». L'utopia - collocandosi in un futuro indeterminato - consente il compromesso e l'accettazione passiva dello stato di cose presenti; completamente diversi sono gli ideali, che Foa intendeva come «valori da realizzare ogni giorno nella pratica di obbiettivi concreti». Nella Resistenza, il progetto azionista, «la linea di un controgoverno dal basso e dalla periferia come struttura istituzionale, come elemento di democrazia diretta che non doveva sostituire ma integrare quella rappresentativa», fu così l'unico serio tentativo di costruzione di un riformismo «militante», alternativo all'egemonia comunista. Il suo bersaglio era la miseria del riformismo italiano, il suo economicismo, l'assenza di un «mito politico» in grado di soffiarvi dentro l'alito della passione. Di qui la sua coinvogente professione di giacobinismo: «non si doveva separare l'impegno progettuale dal movimento che aveva determinato la rottura con il passato. La dimensione temporale diventava determinante: le riforme (o almeno un loro decisivo inizio) non potevano essere rinviate a momenti successivi. Il movimento non doveva solo creare le condizioni per le riforme, doveva anche avviarle a realizzazione, impedire che un evitabile riflusso del movimento le rendesse irrealizzabili.... Il giacobinismo mi si presentava, quindi, come accelerazione e come anticipazione».
La configurazione politica dei suoi esordi passò sostanzialmente intatta anche attraverso le sue esperienze successive al PdA, quella nella Cgil (dal 1949 al 1970) e quelle nel Psi, nel Psiup, nel Pdup, fino alla fallimentare esperienza delle liste della Nuova sinistra unita nel 1979. Fu animato da una inesausta febbre di ricerca, curioso, instancabile, diffidente verso ogni equilibrio consolidato, verso ogni forma di staticità che puzzasse di apparato. Visse in prima persona scissioni drammatiche come quella azionista del 1946 o quella socialista del 1964. Visse con altrettanta partecipazione il turbinìo di sigle organizzative della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Niente, niente lo caratterizzava comunque come un padre nobile da invocare come garante delle pulsioni governative che agitavano la sinistra negli anni Novanta, quando si tentò di arginare le tentazioni autodistruttive dei suoi partiti ancorandole all'occupazione delle istituzioni e dei palazzi governativi. Apparentemente Vittorio partecipò con entusiasmo a questo gioco, interpretando quel ruolo con qualche compiaciuta civetteria. Eppure, se ne rileggiamo gli scritti, anche quelli della vecchiaia più tarda, vediamo continuamente riaffiorare i tratti impertinenti e irriverenti del suo antico giacobinismo, anche quando elogia la gradualità: «mi domando adesso - scriveva ne «Il cavallo e la torre», se é possibile conciliare il giacobinismo che mi sembra tuttora assolutamente legittimo col gradualismo inteso come coinvolgimento del prossimo nella realizzazione di un progetto». La domanda era retorica. Tutta la sua biografia può essere letta come rifiuto del gradualismo e della mediazione, come adesione convinta ad una visione conflittualistica della politica; l'intransigenza é (sono sue parole) anzitutto «una condizione esistenziale». «La radicalità», diceva ancora nel suo colloquio con Ginzburg, «guarda a tutto il modo di vivere, non solo a qualche pezzetto delle nostre idee». E più avanti: «parto dall'idea di poter cambiare le cose, anziché aspettarsi che le cose cambino per qualche fatto esterno a me o a noi. E' un'idea cui sono stato lungamente attaccato, che si può chiamare anche autonomia: l'idea che il futuro appartiene agli uomini e non a qualcosa che sia esterno a essi».  

il manifesto, 21 ottobre 2008

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