3.8.13

Luglio 1960 a Milano. I ricordi di Franco Fortini

Una pagina di Franco Fortini tratta da un inserto del “manifesto” che rievocava – trent’anni dopo – il tentativo di svolta autoritaria messo in opera dal governo Tambroni e la resistenza popolare. Spiccano, in un racconto che strettamente collega pubblico e privato, due momenti: la morte del poeta Giacomo Noventa (che usava anche lo pseudonimo Giacomo Ca’ Zorzi), il corteo operaio e popolare diretto dalla Camera del Lavoro a Piazzale Loreto. (S.L.L.)

Franco Fortini
Nella memoria gli avvenimenti di quella settimana sono associati a due miei casi. La sera del lunedì 4 luglio ero andato alla clinica della Madonnina, Milano. Il corpo di Giacomo Noventa, morto al mattino sotto l'operazione, posava in seminterrato, già nella bara, con una benda bianca intorno alla grossa fronte. Il giorno prima avevo potuto parlargli. Sapeva che non sarebbe sopravvissuto. Molti amici erano venuti a quell'addio. Al patriarca di Venezia, da due anni papa Roncalli, che lo conosceva e si era interessato alle sue condizioni di salute, il poeta, fino all'estremo giocando seriamente sulla distinzione fra poesia e biografia, aveva telegrafato: «Giacomo Ca' Zorzi e Giacomo Noventa ringraziano Vostra Santità nella speranza che uno dei due sopravviva». Mi parve di aver salutato nei corridoi Aldo Garosci e Alberto Carocci. Accanto al letto vidi una di quelle funeste bottiglie di champagne che si concedono ai morituri.
Gli avevo ricordato, fingendo di scherzare, le parole che mi aveva scritto, un giorno sui Charmes di Valéry, poeta che non amava. Ci siamo abbracciati. Non importava che negli ultimi anni opinioni politiche e frequentazioni ci avessero allontanati. Guardandolo nella cassa pensai: Più di ogni tua parola a me maestro... ma non volli continuare, era indecente versificare davanti al suo corpo. Molti anni dopo seppi da Franco Loi (mai lo aveva conosciuto da vivo) che nella notte di lunedì Noventa gli era apparso in sogno a profetargli un avvenire di poesia, come racconterà nei versi di Stròlegh.
Il giorno dopo, la polizia di Tambroni, presidente del consiglio sostenuto dai voti del Msi (Aldo Moro era segretario della De) ammazzò a Licata, un manifestante e ne ferì cinque. Giovedì 7, quando arrivò la notizia del massacro di Reggio Emilia (cinque morti e diciannove feriti) si pensò fosse venuto il momento di scendere, a qualunque costo in piazza, di affrontare (con ogni mezzo, anche con le armi, ne avessimo avute) quello che si configurava senza ombra di dubbio come un «colpo» fascista. Per quelli della mia generazione tanta determinazione non era né eccitata né torbida. Le memorie erano lucide. Non avevo dimenticato  che  il governo «antifascista» del maresciallo Badoglio, dopo  l'arresto di Mussolini e poco prima della capitolazione, agosto '43, aveva schierato i soldati contro gli operai di Modena che manifestavano per la pace e - così si disse - un giovane sottotenente, dopo aver comandato il fuoco al suo reparto e irato perchè i tiri erano alti, avrebbe di persona premuto con lo stivale sulla canna di un fucile mitragliatore manovrato da uno dei suoi soldati disteso a terra, in modo da non mancare la folla, dove fu strage. Chi queste cose non le sa farebbe bene a studiarsele per giudicare l'imbecillità o la bassezza con cui tanti nostri odierni virtuosi dell'informazione impartiscono lezioncine di democrazia a questo o a quel popolo.
Qualcuno mi avvisò per telefono. Tutti alla Camera del Lavoro. Il corteo non era autorizzato ma ci sarebbe stato lo stesso. Quel venerdì 8 era una bella giornata calda, appena velata, in corso Porta Vittoria una folla - si diceva - da '45 - '48. Arrivano gli operai a frotte e la gente della periferia. Dai gradini dell'ex casa del Fascio, sede della Camera del Lavoro, locali squallidissimi come una caserma o una scuola abbandonata, si agitava la gente in bianco e blu nel sole, tutt'intorno Palazzo di Giustizia e lungo il corso, verso Porta Vittoria. Riconoscevo e salutavo chi non avevo più veduto da anni.
L'autunno del 1956 - Polonia, Ungheria - ci aveva divisi; poi lo scioglimento dell'unità d'azione fra comunisti e socialisti. Nenni d'accordo con Sagarat. Il Psi lo avevo lasciato da due anni. Nel 1957, interrotto “Ragionamenti”, il nostro piccolo gruppo si era disperso, solo il nostro «doppio» francese, “Arguments” continuava le pubblicazioni. Guiducci aveva pubblicato da Einaudi Socialismo e verità io da Feltrinelli Dieci inverni. Molti veleni si erano intanto accumunati. A Torino, Panzieri aveva da poco impreso il suo lavoro che presto sarebbe stato “Quaderni rossi”; ma quando, due mercoledì al mese andavo alle riunioni di Einaudi, l'aria che spirava era di compromesso col nuovo schieramento dei socialisti. Calvino e Vittorini si impegnavano sul “Menabò”, a promuovere («Letteratura e industria») la prima o la seconda delle «modernizzazioni antideologiche» che vedo succedersi da quarant'anni. Pasolini scriveva le Poesie incivili («Io non so cosa sia/ questa non ragione, questa poca ragione:/ Vico, o Croce, o Freud mi soccorrono,/ ma con la sola suggestione/ del mito, della scienza,  nella mia abulia/. Non Marx..»). Proprio in quelle giornate cominciava i «dialoghi coi lettori» su “Vie nuove” (bisognava trasformare l'«irrazionalismo disperato e anarchico borghese, nell'irrazionalismo...nuovo»; e «i clerico-fascisti stanno tirando troppo la corda», sic. 9,16 luglio).
Salutai Roberto Guiducci e Franco Momigliano. Che quei due ex partigiani, combattenti (sul serio) della Resistenza, fossero lì, e in particolare Franco Momigliano, il più disincantato e intelligente di tutti noi, dirigente industriale da molti anni assente dalle manifestazioni politiche, ecco quel che mi dette la misura della gravità del momento. «Possono sparare, hanno sparato ieri», questo si diceva. E tutti erano decisi a non scappare dal corteo. Ci saremmo diretti a piazzale Loreto, dove c'era ancora il traliccio metallico che quindici anni prima aveva retto i corpi di Mussolini e dei gerarchi.
La manifestazione avanzava senza grida. Verso l'obelisco di piazza Cinque Giornate presero a lampeggiare gli elmetti della Celere e i cofani delle autoblindo. Si fece silenzio. Fu allora che cominciò a diffondersi la notizia: nella notte la prefettura aveva avuto da Roma, si diceva, l'assicurazione che non sarebbe stato aperto il fuoco.
Il momento più teso fu alla svolta dei Bastioni. Il corteo procedeva fra due schieramenti di armati. Ci fu qualche urlo, subito zittito. L'odio fra loro e noi pareva facesse tremare le foglie dei grandi platani. Non successe nulla. Ci dicemmo: «Tambroni è fottuto».
Cominciarono i canti, che erano di gioia. Fu una lunghissima camminata, il sole era alto e picchiava. Si tornò verso casa, indolenziti, che erano le prime ore del pomeriggio.
Alle cinque della mattina dopo partivo con Ruth sulla «1100» per un mese in Urss, sperando nella benevolenza delle strade orientali. Al mio ritorno seppi che in quel giorno la polizia aveva fatto altri morti a Palermo e Catania e che Tambroni si era dimesso solo due settimane più tardi per lasciare il posto a Fanfani.

da “il manifesto – la talpa”, 5 luglio 1990

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