10.10.18

Stalin non è morto. Una poesia di Rafael Alberti

Pablo Picasso con il suo celebre ritratto di Stalin

I.

Sulla superficie del mare, sopra le cordigliere,
attraverso le valli, i boschi e i fiumi,
al di sopra delle oasi e dei deserti di sabbia,
al di sopra dei taciti orizzonti sconfinati
e le disabitate regioni della neve
passa la voce, a noi giunge
triste è la voce che ce lo annuncia.
Giuseppe Stalin è morto.
Attraverso le strade e le piazze delle grandi città,
per le larghe strade frequentate e per gli sperduti sentieri
sopra gli attoniti villaggi, gli stupiti campi,
le pianure solitarie, le sotterranee gallerie delle miniere, le dimenticate
isole e i battuti, nudi litorali
passa la voce, a noi giunge
triste è la voce che ce lo annuncia.
Giuseppe Stalin è morto.
Passa attraverso le ore oscure della notte,
l’alba, il giorno, e
i prolungati crepuscoli,
attraverso tutto ciò che di australe
e di nordico comprende la terra,
e non ci sono razze, né popoli, né angoli lontani,
né particelle minime del mondo
dove non penetri la voce che a noi giunge,
la voce triste che ce lo annuncia.
Giuseppe Stalin è morto.

II.
(a due voci)

1
Padre e maestro e compagno
voglio piangere, voglio cantare
che l’acqua chiara mi illumini,
che la tua anima chiara mi illumini
in questa notte in cui tu te ne vai.

2
Si è fermato un cuore.
Si è fermato un pensiero.
Un grande albero s’è reclinato.
Un grande albero s’è ammutolito.
Ma già si ode nel silenzio.

1
Padre maestro e compagno;
sembra che sia solo il mare.
Ma le onde si innalzano,
ma dalle onde t’innalzi

e già governi sull’immensità.

2
Ha chiuso gli occhi la saldezza,
la foglia più pura dell’acciaio.
Sopra la sua terra s’è addormentato.
Sopra la Terra s’è addormentato.
Ma già si erge nel silenzio.

1
Padre maestro e compagno:
vola nell’oscurità uno sparviere.
Ma sulla tua barca una colomba,
ma nella tua mano una colomba
si apre ai cieli della pace.

2
Tacciono le incudini e i martelli.
La campagna tace e tace il vento.
Muto il suo popolo lo veglia.
Muti i popoli lo vegliano.
Ma egli già cammina nel silenzio.

1
Padre e maestro e compagno
forti ci lasci, Maresciallo.
Come sulle punte della stella,
come sulle punte della tua stella
brucia in noi l’unità.

2
L’amore vince in questo giorno.
L’odio latra prigioniero.
L’oscurità chiude le braccia.
L’eternità apre le braccia.
E scrive un nome nel silenzio.


III.
Non è morto Stalin. Non sei morto.
Che ogni lacrima canti
la tua memoria.
Che ogni gemito canti
la tua memoria.
Il tuo popolo ha la tua forma,
la sua voce il tuo accento virile.
Non sei morto.
Parlano per te le sue officine,
la donna e l’uomo nuovi.
Non sei morto.
Non ci sono mari dove tu non sia,
fiumi dove tu non scorra dentro.
Non sei morto.
Campi dove le tue mani
aperte non siano posate.
Non sei morto.
Cieli dove non passi
come un sole il tuo pensiero.
Non sei morto.
Non c’è città che non ricordi
il tuo nome quand’era fuoco.
Non sei morto.
Gli allori di Stalingrado
diranno che non sei morto.
I bambini nelle loro canzoni
ti canteranno che non sei morto.
I bambini poveri del mondo,
che non sei morto.
E nelle carceri di Spagna
e nei suoi villaggi più sperduti
diranno che non sei morto.
E gli schiavi oppressi,
i gialli, i negri,
i più dimenticati e mesti,
i più disfatti e senza consolazione,
diranno che tu non sei morto.
E la Terra che tutta gira,
che non sei morto.
E Lenin, addormentato accanto a te,
anche lui dirà che non sei morto.

Rinascita, n.2, 1953

Nota
Questa poesia, nell'originario testo spagnolo e in questa traduzione di Dario Puccini, venne pubblicata nel numero 2 di "Rinascita" del 1953, che evidentemente uscì, con qualche ritardo, dopo il 5 marzo, giorno della morte di Giuseppe Stalin.
Alberti è un poeta grande, ma questa non mi pare una bella poesia. Alberti è capace di grande retorica, ma qui il meccanismo delle apostrofi, delle anafore, delle iterazioni non seduce e non commuove. L'impressione è di un omaggio rituale.
Eppure la poesia di Alberti, come lo Stalin che Picasso dipinse, come le tante pagine, le tante immagini, che scrittori, poeti e artisti del mondo intero, grandi e meno grandi, dedicarono all'uomo e alla sua morte, meritano qualche spiegazione in più. E non sono (o comunque non sono solo) un omaggio servile, cosa che, del resto, si presta più ai vivi che ai morti.
Il "culto della personalità" tipico di tutte le dittature? Io eviterei la generalizzazione. Hitler, Mussolini, grazie ad un uso sapiente del mezzi di comunicazione, riuscirono ad ottenere l'amore dei propri sottoposti, non solo dei seguaci in senso stretto, ma anche di una gran parte del proprio popolo. Fu un vero lavaggio del cervello.
Per il fhurer c'erano ragazzi tredicenni che "si sacrificavano" felici anche negli ultimi terribili giorni della sconfitta, nella Berlino messa a ferro e a fuoco.
Per il duce non fu così. Tante cose ne avevano offuscato la luce: "l'amor di Petacci" e la collaborazione con i tedeschi occupanti, in primo luogo, oltre che la colpa suprema di aver condotto l'Italia in una guerra lunga e sanguinosa dopo aver promesso facile vittoria e pingue bottino. Eppure anche per lui, il giorno di Piazzale Loreto, non mancò la prova d'amore: a fronte delle tantissime e dei tantissimi che baciavano la terra che se l'era ripreso, c'erano altri, pochi ma non pochissimi, che lo piangevano come si piange un padre.
Tutto uguale dunque? Una dittatura vale l'altra?
Stupidaggini. A piangere Stalin non erano infatti solo i russi cresciuti e formati nel suo regime: erano davvero i popoli della terra. Io - ne ho scritto in un racconto autobiografico, un inedito che un giorno o l'altro posterò - ho un ricordo preciso, forse uno dei più remoti della vita (avevo 5 anni): nella sezione del Pci, al mio paese, vedevo piangere uomini e donne con un'intensità che m'è rimasta impressa. E Stalin piansero non solo russi e italiani, ma neri, rossi e gialli in tutto il mondo. Perché? Perché era l'emblema della speranza dei poveri e degli oppressi, di una religione che non mobilitava (come il fascismo o come il nazismo) gli egoismi di nazione e di razza, ma affermava l'uguaglianza e la giustizia tra tutte le donne e tutti gli uomini dell'intero pianeta. Perché era visto come l'uomo che, a Stalingrado, in condizioni terrificanti e indescrivibili, aveva guidato la riscossa contro il mostro che si stava impadronendo del mondo intero.
Era illusione? Frutto di una propaganda che usava l'internazionalismo proletario per avvantaggiare lo Stato russo e sovietico e l'oligarchia burocratica che lo reggeva? È possibile, ma aveva comunque un segno diverso dai nazifascismi che confermavano l'oppressione. Conteneva un segno di liberazione. E per questo alle manifestazioni di artisti e poeti (anche a quelle poco riuscite, come questa di Alberti) con le quali volevano dare voce al dolore dei tanti operai e contadini che ebbero fede nel Baffone, l'uomo che aboliva l'ingiustizia, bisogna portare rispetto. (S.L.L.)


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