Il 25 e 26 ottobre alla
Facoltà di Lettere di Perugia, durante il convegno Eredità e
memorie del '68 italiano, organizzato dall'Istituto per la Storia
dell'Umbria Contemporanea (ISUC), dall'Istituto Ferruccio Parri e
dalle due Università perugine, forse la più ambiziosa tra le
celebrazioni del Cinquantenario che si sono svolte e si vanno
svolgendo in Umbria, ho avuto anch'io qualche momento di commozione.
La locandina con le immagini che la corredano, il titolo e il tema
dell'incontro, l'età media dei presenti di sicuro superiore ai
sessant'anni: tutto cospirava ad alimentare un clima di nostalgia,
che in alcuni momenti propriamente rievocativi, velava gli occhi di
alcuni ascoltatori. Mi è venuta in mente una canzone, di Trenet, tra
le più belle e nostalgiche del secolo scorso: “Que reste-t-il
de nos amours? / Que reste-t-il de ces beaux jours? / Une photo,
vieille photo /de ma jeunesse ...”.
L'intenzione del
convegno, del resto, era proprio di cercare i segni impressi nel
nostro presente dallo sconvolgente movimento sociale, politico e
culturale di carattere internazionale che in Italia è chiamato
convenzionalmente Sessantotto (una “rivoluzione” - si legge
nell'invito – seppure “sognata e mai compiuta”), l'ambizione
quella di rintracciare ciò che ne è rimasto nelle memorie
individuali e di gruppo, nelle istituzioni, nella legislazione, nel
costume, nel linguaggio. È il tema dell'eredità, insomma, quello su
cui in illo tempore scrisse parole che pesano Franco Fortini,
l'intellettuale che con più consapevolezza rappresentò il nesso
delicatissimo tra il Sessantotto e un'altra rivoluzione sperata e
incompiuta, la Resistenza: “Non c’è eredità senza eredi, non si
è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva
fra un ieri e un domani, un donde e un dove”. A noi sembra che
l'eredità di cui nel convegno si discorreva sia sfuggente proprio
perché mancano eredi in grado di raccoglierla e nella palude in cui
ci muoviamo, ribollente di umori mefitici, si stenta a intravedere un
“dove” verso cui dirigersi.
Veniamo al resoconto. Il
venerdì le relazioni di studiosi di varia età e provenienza hanno
riguardato la memoria orale, la psichiatria, le relazioni con il
femminismo, le arti, la moda, la musica del “lungo 68” (definito
processo più che evento); il sabato s'è ragionato del ruolo dei
cattolici, dell'università, di letteratura, di cinema, di modelli
comunicativi. Ha concluso Marco Boato, a suo tempo leader studentesco
trentino, successivamente parlamentare di lungo corso con i radicali
e i verdi, autore de Il lungo '68 in Italia e nel mondo,
pubblicato all'inizio di quest'anno per La Scuola Editrice di
Brescia.
Gli interventi avrebbero
dovuto incardinarsi sull'asse dell'eredità, ma non tutti l'hanno
fatto, né è parsa omogenea la qualità delle comunicazioni, alcune
delle quali ricordano un'antica stroncatura di Croce: “Nel libro
c'è del nuovo e c'è del buono, ma ciò che è buono non è nuovo e
ciò che è nuovo non è buono”; per un giudizio meditato occorrerà
attendere la pubblicazione degli atti, in cui si spera si possa
reperire una selezione più ampia delle interessanti interviste ai
“sessantottini” di cui ha parlato Valerio Marinelli dell'ISUC.
Molto incisive anche le riflessioni con cui Salvatore Cingari,
dell'Università per Stranieri, ha introdotto la seconda giornata
che, senza tacere la vena anticapitalistica che lo percorse,
ragionava delle aporie del movimento, illuminando la tensione tra il
libertarismo individualista e la forza attrattiva del collettivo e
dell'ugualitarismo.
Fin d’ora non si può
comunque tacere il fastidio provato per due colpevoli omissioni
relative alla comunicazione di Aldo Iori su arte e 68 e di Marco
Impagliazzo sul ruolo dei cattolici. Il primo, pur parlando
diffusamente della contestazione all'Accademia di Belle Arti
perugina, ove insegna, ha citato solo di passaggio Colombo Manuelli,
senza nulla dire delle sue opere e battaglie. Dal secondo, professore
universitario e oggi presidente della comunità di Sant'Egidio, che
ha avuto a lungo come assistente ed ha oggi come protettore Monsignor
Paglia, ci si poteva aspettare, come è avvenuto, che valorizzasse un
Sessantotto cattolico moderato, vicino ai “poveri” ma obbediente
alla gerarchia, senza fantasie “socialiste”. Ma dieci anni fa,
vivo don Franzoni, animatore nel 68 della comunità di San Paolo
fuori le mura, Paglia lo aveva rappresentato come un fanatico
dell'ideologia e della lotta di classe, dimentico del Vangelo. Oggi
Impagliazzo fa calare su Franzoni un feroce silenzio. Varrebbe la
pena di leggere a questa gente la poesia di Pasolini per la morte di
Pio XII, quella che ricorda che i peccati più gravi, quasi senza
assoluzione, siano i silenzi, le deliberate omissioni.
Altra cosa è l'inconscia
rimozione che è parsa gravare sull'insieme del convegno. Certo, qua
e là si è affacciato il ricordo degli studenti davanti alle
fabbriche e Boato nella conclusione ha affiancato il 1968 studentesco
e il 1969 operaio, ma i riferimenti alla storia, all'organizzazione
sindacale e alle forme di lotta operaie non c'erano ed è strano che
in un convegno “a tutto campo” fosse assente una specifica
comunicazione sui rapporti tra 68 e movimento operaio organizzato.
Eppure le occupazioni di facoltà e scuole si richiamavano
esplicitamente ad antiche “occupazioni delle fabbriche”, mentre
gli studenti si chiamavano compagni e impugnavano bandiere rosse; era
tutta ideologia? E, all'inverso, le forme di democrazie diretta come
le assemblee, i delegati e i consigli, che anche il sindacato fece in
parte proprie, non hanno alcuna relazione con ciò che accadeva nelle
scuole e nelle università? Laura Schettini, dell'Orientale di
Napoli, interrogandosi sul nesso tra Sessantotto e femminismo, lo ha
fortemente ridimensionato. È una conclusione discutibile, ma è
inspiegabile che sul movimento operaio non ci si pongano neanche le
domande. O forse è fin troppo spiegabile: l'eclissi attuale come
soggetto sociale e politico di quella che fu la “classe operaia”
porta a ignorarne l'esistenza e il ruolo anche nel passato,
l'attualità modella la storia.
Si spiega così il
consenso alla lettura “antiautoritaria”, moderata, interclassista
del Sessantotto internazionale, rappresentata dal libro di Boato, che
nelle conclusioni l'ha esplicitamente contrapposta ad un'altra,
retorica, ideologica, giacobina, che esemplificava in Mario Capanna,
maliziosamente ricordando il ritratto di Stalin che per qualche tempo
il tifernate innalzò.
Tornano utili a questo
punto i versi di Walter Cremonte, poeta grande e sottovalutato e
sessantottino “resistente”. Nella raccolta appena uscita, Cosa
resta, è contenuta la poesia Esempio: “C'è stato un
tempo / spiegò il professore / che 'giacobino' diventò un insulto /
come oggi, per fare un esempio, / succede alla parola 'comunista' //
così spiegò, e io guardai Roberto / cercando nei suoi occhi un
dispiacere / ma lo vidi serio assentire // insultassero pure / ce lo
saremmo preso / quel po' di gioia / da prendere”.
Collego i versi di
Cremonte alla relazione che nel convegno ho trovato più bella e
interessante, quella di Francesco Scotti sulla psichiatria. Ci ha
raccontato del mix di scienza, etica e politica, del coraggio e della
pazienza che furono necessari nella battaglia per chiudere i manicomi
e ha parlato con amarezza dell'odierna regressione, quasi una
restaurazione: “Usano di nuovo i letti di contenzione. E per di più
li giustificano con il benessere dei malati”. Ma ha una convinzione
Scotti: che niente vada perduto e che quando nuovi “matti”,
medici, operatori, cittadini, riprenderanno nella psichiatria o
altrove il percorso di liberazione, non dovranno ricominciare da
capo, ma troveranno memorie da recuperare, esperienze da studiare.
L'eredità del
Sessantotto è lì, gli eredi prima o poi arriveranno.
"micropolis", novembre 2018
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